lunedì 31 ottobre 2011

Un uomo di sabbia in riva al mare di Ostia




Oooooh!
C’è molto vento oggi a Ostia.
Sopra di me, il cielo.
Un cielo terso, limpido, senza una nuvola.
Un cielo altissimo, senza punti di riferimento.
Un cielo impossibile da poter misurare.
Qualcuno mi minaccia? Non siamo arrivati a quel punto. Qualcuno mi tormenta. Ma c’è dell’altro. Qualcosa mi turba. Soprattutto in ufficio. Sono disorientato da come va il mondo e cerco delle risposte. Forse sto guardando nei posti più sbagliati, ma intanto guardo. Cosa c’è di male nel desiderare la pace nel mondo? Niente. Vedo un futuro per niente roseo davanti a me. Scuoto la testa. Non lo so. Potrebbe essere tutto diverso. Oh, sì. Suppongo. Per tutti gli dei, l’unica soluzione è alzarsi e provare a fare qualcosa per distrarmi.
Cazzo, ho bisogno di un caffè. Subito.
Mi trovo all’angolo tra via delle Triremi e via delle Zattere.
Sudato, spettinato e incazzato come un maiale a gennaio, avanzo inesorabile verso il bar di Gioacchino.
Mi piace l’odore che c’è al bar Magnanti. E’ un caffè molto ampio e pur non possedendo nessuna parete divisoria o saletta, è comunque possibile grazie alla contemporanea presenza di tavolini con sedie e di angoli con piccoli divanetti e poltroncine, intrattenersi nella conversazione godendo del giusto grado di riservatezza. E’ un bar contrassegnato da un clima di grande familiarità.
L’acqua scrosciante nel lavandino del bancone e lo sbuffare del vapore della macchina per il caffè, sembrano essere la musica d’accompagnamento alle voci di Carmelo e Michele.
Sorseggio piano dalla tazza.
Man mano che il vetro indugiava verso la bocca, sento aumentare l’odore del caffè: una vera delizia! Mi scende in bocca e poi giù, giù, scorrendo, nell’esofago e ancora oltre. Tre sorsi. Tre lunghi sorsi e il rito é compiuto. Poso il bicchiere sul bancone, accanto al piattino, saluto Carmelo e mi volto verso la cassa per pagare il conto a Giovanna.
Esco dal bar.
Mi avvicino al mercato di Piazza Quarto dei Mille: glorioso mercato di abbigliamento e merce varia del Mercoledì e Sabato di Ostia.
Arrivato lì vicino, a via Dante Vaglieri vedo uomini e donne dall’aspetto sconsolato seduti per terra tra merci disposte su vassoi o pezzi di stoffa: orologi, cianfrusaglie e gioiellini da poco prezzo in pelle e argento.
Subito dopo, lungo via Stefano Cansacchi, si trova un tetto irregolare, rattoppato, di plastica e lamiera ondulata, che copre rastrelliere di tessuti dai colori brillanti e tavoli ricolmi di libri di seconda mano.
Verso via degli Aldobrandini c’è il mercatino dei prodotti rom. E’ una sorta di lingua rudimentale che sporge dall’apertura ad arco di un ampio fabbricato bruciato, brulicante come un alveare di zingari e loro clienti.
Certo, sarebbe opportuno evitare la formazione abusiva di luoghi di commercio con vendita di oggetti di dubbia provenienza.
All’interno, la strada si divide, diramandosi confusamente tra rotoli di tappeti, barattoli di spezie rosse e gialle, mucchi di frutta, altri indumenti e rotoli di brillante tessuto sintetico. Forse il mercato rom è realmente una specie di griglia di passaggi, ma appare come un formicaio caotico.
Giro per via San Pier Damiani. Un profumo caldo, gradevolmente confuso, è nell’aria, di sale e zucchero bruciato; di nocciole tostate, zenzero, cipolle e carne che frigge. Riesco a malapena a muovermi, tanta è la gente.
Non sono propriamente alla ricerca di un chiosco preciso; ma le prime bancarelle verso cui la folla mi ha trascinato non sono ovviamente adatte ai miei gusti: più che altro vi si vendono ciondoli d’argento su cinghie di pelle.
Poi mi trovo di fronte a uno stand più ampio, brillante di luce che si riflette su gioielli e quadri dorati. Ci sono gocce di ambra che pendono da catene d’argento e dai ganci degli orecchini, spille a forme di ragno e -vedo non appena riesco a liberarmi dalla folla che mi circonda- statuette d’imitazione romana e una serie di ampi vasi rosso carne, a forma di grossi globi, di marmo o di un materiale molto simile. C’è una donna seduta al centro del chiosco, su una sedia di legno, con le gambe distese. E’ pesante e tarchiata, e sarebbe sembrata fuori luogo in mezzo a tante cose scintillanti se non avesse quella espressione decisa di possesso. Si alza, al mio ingresso, con sguardo inquisitorio. Una donna più giovane, intenta distrattamente a spolverare una figura di cane, la imita. Le saluto e vado via.
Mi è venuta fame: entro in un locale.
Mi viene incontro la grande cuoca, il vanto del ristorante.
Bassa, grassa, ma compatta, di un grasso sano, da giovane doveva essere una bella bambolina in carne, di quelle che oggi non vanno più di moda ma sotto le lenzuola fanno scintille lo stesso.
Ora, nonostante le braccia grosse come polpettoni, rimane qualcosa dell’antica grazia: da come tiene la testa, mento alto e sguardo dardeggiante, che stona un po’ col grembiulone e le mani infarinate.
Rigatoni alla carbonara. Ottimi, però aggiungo altro pecorino grattugiato. Baccalà alla trasteverina. Con uvetta e pinoli. Sublime. Fiori di zucca fritti. Ottimi. Bianco di Frascati: che delizia!
Sto meglio.
Supero il Pontile.
Supera la cupola di Regina Pacis.
Passo davanti al teatro Nino Manfredi di via dei Pallottini, gestito da miei grandi amici.
Entro, li saluto e vado via.
Camminando, camminando, camminando, arrivo al Porto.
Nel frattempo, rifletto: l’istinto della nutrizione e quello sessuale ci sono necessari, giacché senza dureremmo ben poco: eppure vengono tenuti come materia vile, e a parlarne in pubblico c’è il rischio di passare per depravati.
Intanto, si è fatta sera.
Torno a casa.
Accendo la TV. Stanno trasmettendo una vecchia partita. E che partita: Italia-Germania. Stadio Azteca di Città del Messico. La partita del secolo. 4-3. Era il 17 giugno di 37 anni fa. 17 giugno 1970. E’ quasi mezzanotte, quando sento la porta d’ingresso aprirsi e richiudersi. Alex e Gabry. “Dove siete stati” gli chiedo quando Gabriele entra in soggiorno con i suoi jeans chiari e una maglietta rossa. Ha gli occhi un po’ stanchi, ma a parte questo sembra che stia bene. “Che bella accoglienza” replica. “Vuoi rispondermi?” “Se proprio lo vuoi sapere, sono stato all’Entropia.” “Dove si trova?” “A via Poggio di Venaco”. “E che succede lì?” “Non succede un bel niente. C’è birra buona. La gente canta canzoni e si diverte.” “Puzzi di fumo.” “E’ un pub, papà. La gente fuma. Senti se hai intenzione di assillarmi in questo modo, me ne vado a letto. Devo andare all’Università domani, non te lo ricordi?” E con questa ultima frase Gabriele va a passi pesanti nella sua stanza. Faccio per andargli dietro, ma incontro Alex e gli chiedo se è stato anche lui con Gabry. Mi trattiene per il braccio. “No, papà. Io sono andato all’Idrovolante, il circolo di via Casana”. Sento Gabry fare rumore in cucina, tirare l’acqua del bagno e chiudere la porta della sua camera da letto. Lo raggiunge Alex. Ormai è impossibile tornare a guardare la partita. Ma anche andare a dormire, malgrado la stanchezza. Se avessi un cane lo porterei a spasso. Mi verso un dito di cognac e, mentre Simonetta fa finta di leggere “Gente”, io torno a guardare di nuovo la partita proprio mentre Muller mette dentro di testa il suo secondo gol, il terzo della Germania. Palla che supera Albertosi, insaccandosi tra il palo e Rivera che non riesce a intervenire, forse giudicando fuori il tiro. Tre a tre, con pochi minuti da giocare. Ma non è finita. Rivera, proprio lui non ci sta e trova il definitivo 4-3 che manda i tifosi increduli e felici come non mai, a esultare per le strade d’Italia. Resto a guardare la tivvù, finché nella stanza accanto tutto tace e si può andare tranquillamente a letto.
Prima di andare a dormire, entro in cucina.
Apro il frigo. Prendo un prosecco.
DOC, ovviamente!
Rassenerato, lo degusto.
Ma sì.
In fondo è bello risolvere i problemi così, no?
Va bene, caro amico che hai avuto il coraggio di leggermi fino a qui. E’ finita, puoi andare a casa. Va a casa a trovare la tua famiglia. Togliti quell’espressione, non sentirti così. Non è colpa tua. Non potevi fare altro. L’intera faccenda è strana. Sono tempi difficili quelli in cui viviamo. Questo è tutto.
Mario Pulimanti (Lido di Ostia -Roma).

giovedì 27 ottobre 2011

Il profumo delle foglie di mimosa


Oggi è una giornata non tanto per la quale.
Vabbè, è stato un autentico shock scoprire questa notizia, che mi risulta molesta quanto il trapano di un dentista.
Colpito e affondato.
Ah, adesso sì che mi sono rovinato la giornata.
Devo ammettere che è duretto da sopportare.
Cristiddio.
Non l’ho fatta fuori dal vaso.
Non ho razzolato male.
E’ solo sfiga non avere santi in paradiso.
Ben poco nobili sono gli accostamenti tra Nostro Signore e vari animali da cortile che mi escono strozzati dalla gola, mentre una collega, china su di me, mi da la brutta notizia, premendomi sulla spalla destra.
Ma non si tratta di una punizione, no!
La povera collega architetta su due piedi questa fesseria per rimediare al fatto di essersi lasciata scappare una battuta di troppo, ma di solito dove c’è fumo c’è fuoco.
Per il momento decido di stare al gioco.
Lei è piccola, con i capelli raccolti in una treccia e le mani pienotte; sul corpo bisogna lavorare un po’ di fantasia, visto che è ingabbiato in un abito tra il saio e il silos. Poco male, visto che il punto di forza della collega sono gli occhi. Uno sguardo diretto, franco e sorridente; due occhioni scuri marezzati di verde che lo sanno benissimo che stamani non vi siete cambiati le mutande, ma vi fanno capire che in fondo sono affari vostri.
Adesso c’è da capire un’altra cosa: come mai sono stato trasferito? O meglio: qual è il senso di quello che sta accadendo? Chi è responsabile di questo stato di cose?
Continuo ad invocare il nome di Dio invano e anche piuttosto in malo modo mentre, individuati nella mia mente gli autori del misfatto, penso di convocare i presunti traditori a duello.
Ritenendo di essere stato offeso, sono convinto che sia giusto sparacchiare a questi fetenti seguendo le regole della buona educazione, seguendo punto per punto tutti i dettami riguardo ai padrini e all’offerta di cancellare le offese.
Posso, quindi, tranquillamente crivellarli senza che l’opinione pubblica ci trovi qualcosa da ridire.
Poi, mi calmo.
Cavolo, non sono mica deficiente.
Del resto ho sempre attribuito al destino un valore positivo. Ritengo che tutto sia arbitrario. Ci sono cose di fronte alle quali si è impotenti.
Che state dicendo? Che non mi devo lamentare? Dovrei, infatti, sapere che medici africani, avvocati albanesi e chimici iracheni fanno i posteggiatori abusivi sul Lungomare di Ostia?
Non so cosa rispondervi.
Ma ora basta.
Ho la sensazione che è solo una totale perdita di tempo inseguire questi pensieri.
Mi hanno fatto nero.
Ho tanto bisogno di fermarmi.
Allora torno a casa.
Il breve pomeriggio di questo fine ottobre sta spegnendosi in un prematuro crepuscolo.
La mia stanza è al buio.
Penso a mio padre.
Di che cosa è morto?
Della stessa cosa di cui muoiono tutti, alla fine: per una serie di circostanze.
Aveva una malattia che non poteva essere curata.
Non c’è stato nulla da fare.
Ma adesso è inutile parlarne.
Adesso.
Mmh. E allora dov’è il problema?
Mi chiedo: che c’è oltre la memoria?
Prendo un caffè.
Nessun problema: ora sto meglio.
Quasi soprappensiero ripulisco con il dito il caffè rimasto nella tazzina.
Il momento è passato.
Mi allento la cinta dei pantaloni con una smorfia di piacere.
Raccolgo il telecomando e passo pigramente da un canale all’altro, fermandomi infine su un telegiornale che guardo per qualche minuto con annoiata disattenzione, consapevole che mi si stanno abbassando le palpebre.
Non sto male.
Sono solo stanco, stanchissimo.
Non sono presuntuoso: diciamo che a spanne, nella scala della competenza mi sento sotto allo zerbino.
Forse il punto è questo: la semplice inutilità del tutto…bè, a torta finita, è così.
Non ha senso: qualcosa non torna.
Mi stringo nelle spalle. Non so se riuscirò a farmene una ragione.
A questo punto mi dichiaro battuto.
Bè, mi duole dirlo, però.
Non c’è nient’altro da pensare.
Non ho nient’altro da dire.
Mario Pulimanti (Lido di Ostia -Roma).

domenica 9 ottobre 2011

Colleghi complici di un complotto contro di me

Il 20 giugno del 2011 ho subito un ordine di servizio di selvaggia gravità.
“Sono il disperato, la parola senza eco,
colui che tutto perse, e colui che tutto ebbe”.
Complici di un complotto hanno aspettato un cambio di guardia, per addossare ad altri ciò che loro escogitavano da tempo a mio danno.
“Ecco la solitudine da dove sei assente.
Piove. Il vento del mare caccia gabbiani erranti”.
Quanta gente orribile che c’è al mondo…senza scrupolii veramente…e pagano gli innocenti…non è giusto tutto questo…non è giusto….
“Passano fuggendo gli uccelli.
Il vento. Il vento.
Io posso lottare solamente contro la forza degli uomini.
Il temporale solleva in turbine foglie oscure
e scioglie tutte le barche che iersera s’ancorarono al cielo”.
Uomini del complotto la pagherete. Oh, sì che la pagherete….
“Tu sei qui. Ah tu non fuggi.
Tu mi risponderai fino all’ultimo grido”.
Pensavate che non me ne accorgessi. Pensavate che dimenticassi. Illusi. Poveri illusi!
“Voglio fare con te
ciò che la primavera fa con i ciliegi”
Mi avete addiruttura consigliato di aderire il più presto possibile all’orrendo diktat, per non incorrere, a vostro dire, in guai peggiori.
“Essere uomo è un mestiere difficile, soltanto pochi ce la fanno”.
Mi avete consigliato di rivolgermi ad un altro complice del vostro misfatto. Machiavellico inganno!
“Dio mi perdonerà: è il suo mestiere”.
Le persone cattive prima o poi avranno quel che si meritano, il male che fai prima o poi ti si ritorce contro…