Ma
che guaio che è, questo amore.
Lavoro
troppo, sono sottopagato e socialmente disadattato.
E
sono un paranoico ipocondriaco.
Se
per caso sento un dolorino al braccio, penso di essere sull’orlo dell’infarto
anche se il braccio è quello destro.
Certi
disturbi comportamentali non spariscono così, in un amen.
L’amore
è un guaio.
Un
guaio, sì.
Uno
magari trova un equilibrio, una quiete.
Si
convince di avere raggiunto un minimo di serenità, che è un traguardo
importante.
Poi
arriva l’amore, con il suo fantasma di felicità e ti fa sembrare tutto grigio,
inutile.
Quello
che hai diventa poco, una piccola, inutile meschinità.
La
musica, le canzoni, le poesie, il mare, il cielo, il vino, il cibo e l’aria.
Tutto
perde senso.
E’
per questo che l’amore è un guaio, un guaio grosso.
Perché
quando ce l’hai, lo puoi perdere.
L’amore
è un sentimento vigliacco.
E’
come un liquido: pensi di tenerlo in mano e quello ti scivola attraverso el
dita.
L’amore
è sempre disperato, però ha sempre qualche speranza.
L’amore
non si rassegna.
Il
tormento non esiste senza l’amore.
L’amore
è l’altra faccia.
E’
un grido disperato che ti fa dormire male.
Di
notte, o si dorme e si sogna o si è svegli e si sogna ugualmente.
E’
di notte che ci mettiamo di fronte a noi stessi, è di notte che non ci sono
scuse.
L’amore
è un guaio; eppure c’è di peggio.
Il
tradimento è peggio dell’amore.
Improvvisamente
un rumore mi allontana da queste meditazioni.
Riesco
a recuperare i popcorn dal forno a microonde un attimo prima che si trasformino
in un’arma di distruzione di massa, com’è successo la settimana prima. Bevo un
sorso di passito.
Vino
da meditazione.
Mi
avvicino la mia piccola pila di quotidiani e settimanali, dando un’occhiata
alla foto di Nicole Kidman.
Ho
comprato un pollo in rosticceria.
Ma
quando lo guardo, il mio stomaco si rivolta.
Lo
metto in frigo per domani, preparando al suo posto un gin tonic bello carico.
Prendo fiato e ne mando giù un sorso.
Mah.
Forse
per oggi può bastare
Il
mio stomaco non gradisce nemmeno quello, ma il cocktail mi aiuta a eliminare un
po’ di tensione.
E
infatti quando lo termino mi metto a sbadigliare.
Incoraggiato
da questo fausto presagio, mi dirigo in camera da letto.
Mi
spoglio, lasciando cadere i vestiti dove capita.
Poi
mi infilo sotto le coperte e spengo la luce.
Sospiro,
rassegnato a un’altra notte insonne.
Intanto
penso.
Ricordi,
sensazioni, cose così…
Non
so perché.
Collevecchio.
Ripenso
a un giorno di primavera.
Mi
trovo nell’impossibilità di distinguere la fantasia dalla realtà.
Oltre
il Parco della Rimembranza, ai margini del cimitero, il mare delle vette
d’albero che ondulavano al vento.
La
fragile luminosità pomeridiana s’incupiva e rischiarava sugli occhi di mia
madre secondo il passaggio delle nuvole.
E
poi, oltre la linea dei campi, il rumore dei trattori che transitavano
cigolando a brevi intervalli.
Un
altro debolissimo ricordo mi attraversa la memoria, un esile guizzo
reminiscente…
Erano
i tempi di Jimi Hendrix e Janis Joplin.
Non
vedevo l’ora di andare all’università; per quanto mi riguardava, era lì che la
vita diventava davvero emozionante, a differenza del noioso e vecchio liceo.
Sacro
Cuore dai salesiani, al ginnasio e Socrate, al liceo.
In
questi posti mi trattavano ancora come un ragazzino e nessuno si interessava a
quello che pensavo del mondo.
All’università
sono diventato un vero studente.
Partecipavo
alle manifestazioni di GS e a cose di quel tipo.
Ricordo
i miei primi giorni di lavoro.
Neoassunto
e infimo nella gerarchia.
Con
uno zelo da ultimo arrivato profondevo su quelle antiche pratiche settimane di
fatica, e ancora mi stavo arrovellando su quali fossero necessarie e quali
superflue quando mi chiamarono dalla direzione e mi dissero che c’era un lavoro
importante di un collega in malattia.
Io
avrei dovuto sostituirlo, il che comportava la piacevole incombenza di redigere
relazioni su prestigiosi istituti di ricerca italiani.
No,
non devo pensare.
Smetto
di farlo.
Devo
avere la mente vuota.
E’
quello il trucco.
Se
non avessi niente a cui pensare, non ci sarebbe niente che mi tenga sveglio.
Immagino un immenso campo di grano, mosso dal vento, circondato da un alto
recinto.
Fuori
dal recinto ci sono milioni di pensieri: la famiglia, il lavoro, i soldi,
eccetera eccetera.
Ma
il mio recinto è troppo alto, troppo solido, e io non li lascerei entrare.
Sono proprio sull’orlo del sonno, pronto a caderci dentro senza riserve, quando
il telefono squilla.
“Pulimanti.”
“Mario? Vedo che sei ancora sveglio.”
Batto
le palpebre per un paio di volte. Per quanto brami il sonno, ci sono cose più
importanti.
“Ciao, Ferruccio. Va tutto bene?”
“Va
tutto a meraviglia, Mario. Non è che ti ho svegliato vero? So che sei un
animale notturno e dopo le ventitré le telefonate costano meno.”
Sbadiglio.
“Sono
sveglio. Lo sai che puoi chiamarmi quando vuoi.”
Parliamo
del più e del meno.
Parliamo
del Milan, la sua squadra del cuore.
Parliamo
dell’Atletico de Madrid, la mia squadra del cuore.
Poi
riattacca.
Adesso
il sonno è lontanissimo.
Ricordo
mio padre.
Per
poco non mi usciva di bocca una parola che non pronuncio da ventiquattro anni.
La
prima in assoluto che ho imparato a formulare, quando ancora non ero nemmeno
capace di stare in piedi.
Da
quando è morto, nella pasquetta del novantadue, non mi sono più capacitato dal
non riuscire più a rivederlo davvero. Papà. Piango, tanto non mi vede nessuno.
Penso a mamma.
Alle
diciotto e trenta di un triste pomeriggio di quattro anni fa, domenica 29
luglio 2012, all’Ospedale San Camillo di Roma moriva mia madre.
Ernesta
Aloisi.
Moglie
di Antonio Valeriano Pulimanti, poeta collevecchiano.
Ah.
Ok.
Madre
di Antonella.
Madre
di Stefano.
E
madre mia.
Lei,
che mi ha guarito i graffi e le ferite con una carezza magica.
Lei,
un posto caldo dove ho trovato sempre un abbraccio.
Lei,
con quell’odore di buono che mi faceva tornare bambino.
Lei,
che mi lasciava andare anche se avrebbe voluto tenermi stretto a sé.
Lei,
una canzone nella notte.
Lei,
una ninna nanna speciale.
Lei,
uno sguardo che non aveva bisogno di parole.
Lei,
quella che sapeva, sempre, cosa era la cosa migliore per me.
Lei,
quella mano che mi ha tenuto mentre traballando imparavo a camminare.
Lei,
il bum bum del cuore che sentivo appoggiando la testa sul suo petto.
Lei,
mamma, una parola: la prima che ho detto.
Lei,
mamma, un sorriso: il primo che ho visto.
Lei,
mamma, una voce: la prima che ho udito.
Lei,
mamma, un sapore: il primo che ho assaggiato.
Lei,
mamma, una culla: la prima che ho avuto.
Lei,
mamma, che soffrendo mi ha fatto nascere.
Lei,
che mi ha parlato nel cuore della notte. Quando tutto il mondo era addormentato.
E nessuno, tranne me, udiva le sue parole. E, tenendomi fra le braccia, mi
avvolgeva di un amore che aveva una forza inaudita.
Sfoglio
un vecchio album di fotografie: qui avevo sei anni. “Vieni!” sembra
dirmi, prendendomi la mano per condurmi a casa.
Mi
manchi, mamma.
Alle
madri non dovrebbe essere permesso morire.
Scaccio con decisione quel
pensiero dalla mia testa, per evitare di scivolare nella svenevolezza.
Nel frattempo, rientra Gabriele, detto Gabry.
Aspirante Notaio.
Gabriele,
il mio primogenito, è nato a Roma all'Ospedale San Giacomo alle 20 e 30 di
sabato 18 ottobre 1986.
Mentre nasceva, la TV stava trasmettendo la sigla di
apertura della trasmissione “Fantastico 7” con Pippo Baudo, Lorella Cuccarini,
Alessandra Martines, il Trio Lopez-Marchesini-Solenghi e Nino Frassica.
La sigla era “Tutto matto” cantata da Lorella
Cuccarini.
Gabriele
non ha paura di dire ciò che pensa.
Lui
esprime sempre le sue idee.
Però
non è uno sconsiderato.
Sostiene
che a meno che un individuo non sia particolarmente versato nell’arte della
retorica, le parole che pronuncia in un luogo pubblico ben presto volano fuori
dal suo controllo, come foglie al vento.
Una
verità innocente può essere stravolta in una menzogna fatale.
Ecco
perché non parla di politica fuori di casa.
O
con estranei poco affidabili.
“Dove sei stato” gli chiedo
quando entra in soggiorno con i suoi jeans chiari e una maglietta rossa.
Ha
gli occhi un po’ stanchi, ma a parte questo sembra che stia bene.
“Che
bella accoglienza” replica.
“Vuoi
rispondermi?”
“Se
proprio lo vuoi sapere, sono stato alla gelateria di Carletto.”
“Dove
si trova?”
“Vicino
al Borghetto dei Pescatori”.
“E
che succede lì?”
“Non
succede niente di particolare. Il gelato è ottimo. La gente lo mangia e si
diverte”.
Gabriele è innamorato del borghetto ed è
intenzionato a trasferirvisi, appena avrà superato il concorso di Notaio.
Del resto questo potrebbe essere proprio il momento
giusto: infatti al Borghetto dei Pescatori di Ostia a due passi dal mare è
attualmente in costruzione un complesso residenziale che prevede la costruzione
di nuove case ecologiche costituite da appartamenti e villini a schiera.
Esco sul balcone.
Di nuovo, pensieri.
Penso che il bricolage
non è adatto a me.
Del resto, così come sul
versante femminile, esistono le mani di fata, su quello maschile esistono gli
uomini veri, quelli da amaro Montenegro, capaci di salvare cavalli ma anche di
aggiustare oggetti, di riparare guasti domestici, di lavare i piatti e di
cucinare.
Io, ahimé, come molti
altri uomini, non appartengono a questa categoria.
In realtà so fare tante
altre cose. Leggo moltissimi libri e me li ricordo.
Credo di cavarmela con la
scrittura e malgrado quello che dicono certi miei colleghi, penso di lavorare
con impegno e con discreta abilità.
Faccio delle belle
fotografie.
E poi quando c’è da bere
e da mangiare sono un vero professionista!
Ma, come dice mia moglie
Simonetta, in tutto il resto, o quasi, sono un disastro.
E quando dico disastro
non esagero.
Perché la mia vita è
punteggiata, quotidianamente, da sconfitte imbarazzanti.
Prendiamo la botanica.
Vi dico subito che
Simonetta ha il pollice verde.
Ogni pianta che lei mette
in casa diventa un baobab.
Io, invece, sono una
catastrofe vivente.
Ogni pianta che metto in
ufficio muore dopo pochissimi giorni. Sono l’Attila delle azalee, dei ficus e
degli oleandri.
Passiamo alla cucina.
Per sintetizzare il mio
rapporto con i fornelli sarò esplicito: non so cucinare nemmeno un uovo al
tegamino.
Quando prendo in mano una
padella divento Fantozzi.
Confondo il sale con lo
zucchero.
Mi brucio le mani quando
scolo l’acqua della pasta.
E le poche volte che ho
provato a cuocere una bistecca i vicini hanno chiamato i pompieri per via del
fumo, che ho provocato nel palazzo.
Poi c’è il bricolage.
Se c’è da attaccare un quadro mi prendo a martellate da solo.
Se devo bucare una parete
col trapano mi ritrovo nel salotto dei vicini di casa.
Non parliamo dei miei
maldestri tentativi quando c’è da sturare un water: provoco un maremoto e
allago l’appartamento.
Se cerco di aggiustare
una presa elettrica faccio saltare la corrente in tutto il quartiere.
Da solo non riesco a
mettermi un cerotto al dito.
E se prendo in mano un
tubetto di attaccatutto resto per tre giorni con il pollice incollato
all’indice. Piuttosto che cambiare una gomma della mia automobile, vendo
l’automobile.
Perché potrei restare lì,
a combattere col crick, per intere settimane.
Impazzisco quando c’è da
registrare qualcosa in Tv.
Se decido di registrare
un film mi ritrovo sul decoder un documentario sulla vita delle renne nella
Lapponia orientale
Comunque sono un uomo
fortunato perché mia moglie, nonostante tutto, è innamorata dei miei difetti e, sempre
vigile sul destino dei nostri due figli, Gabriele ed Alessandro, finisce con
l’essere lei il vero fulcro della famiglia, anzi ne è l’unica colonna portante.
E, anche se il suo tentativo di trasformare la
nostra famiglia in una unità di cui andare socialmente fieri fallisce
inevitabilmente, eppure l’amore rimane lo stesso.
Rientro a casa e trovo
Alessandro seduto davanti al computer.
Alessandro,
il mio secondogenito, è nato a Ostia, all'Ospedale Grassi alle 4 del mattino di
mercoledì 9 novembre 1994.
Mentre nasceva, la radio stava trasmettendo lo
splendido brano di Willie Nelson "Georgia in my mind".
Sono cose che succedono.
Di rado, certo,
una volta nella vita, forse due, ma posso assicurarvi che succedono perché è
successo a me.
Non ci potevo
credere neppure io, eppure ero lì: la mattina del nove novembre all’ospedale
Grassi di Ostia, una buona struttura idonea a favorire un trattamento più umano
del paziente.
Era il 1994. Il
calendario della Chiesa Cattolica Romana, festeggiava Sant’Oreste di
Tiana medico
morto nel 304 martire in Cappadocia, durante la persecuzione
di Diocleziano.
Torturato e martoriato con i chiodi perché non rispettava i principi
deontologici della corporazione dei medici pagani, che nella sostanza
praticavano la stregoneria facendosi pagare lautamente dai loro pazienti.
Ero appena uscito dall’Ospedale.
Stavo rientrando a casa.
L’autoradio mi stava facendo ascoltare Willie Nelson che cantava
“Georgia on My Mind”, la canzone ufficiale dello stato degli
Stati Uniti della Georgia.
Erano le 5 di un mattino piovoso.
Due ore prima era nato Alessandro.
Forte, imbattibile, nulla può ostacolare la sua
volontà.
Frequenta il corso di laurea in Lingue, Culture,
Letterature e Traduzione.
Con la media del 30 e lode.
Anche a lui chiedo dove è stato.
“Da Anema e Core” risponde.
“Profumi
di mare”.
Il
ristorante è sulla spiaggia, papà. Si vede il mare. Senti se hai intenzione di assillarmi in questo modo, me ne vado a
letto. Devo andare all’Università domani, non te lo ricordi?”
E
con questa ultima frase Alex va a passi pesanti nella sua stanza.
Faccio
per andargli dietro, ma poi ci ripenso.
Per
quanto sia agitato, capisco che non è il caso di intraprendere una lunga
discussione con mio figlio. Me la vedrò con lui domani.
Lo
sento fare rumore in cucina, tirare l’acqua del bagno e chiudere la porta della
sua camera da letto.
Ormai
è impossibile tornare a dormire, malgrado la stanchezza.
Se
avessi un cane lo porterei a spasso.
Mi
alzo.
Mi
verso un dito di cognac.
Nella
stanza accanto tutto tace.
Forse
con Gabry e Alex ho sbagliato. Ricevuto. Sono stato inescusabilmente
malaccorto.
Chiaramente.
Vado in bagno.
Decido
di uscire, anche se è molto tardi.
Esamino
mentalmente il mio guardaroba.
Il
vestito migliore è di Armani.
Normalmente
non posso permettermi abiti firmati, infatti questo l’ho comprato in un outlet.
Quello
di Ponzano Romano.
Il
prezzo era comunque alto, nonostante lo sconto, però quando lo indosso mi sento
molto più sicuro di me.
Poi
ci ripenso, e torno a letto.
Quando
finalmente arriva il sonno, arrivano anche gli incubi.
Ma
che guaio che è, questo amore.
Mario
Pulimanti (Lido di Ostia –Roma)