mercoledì 23 dicembre 2015

AUGURI E LACRIME


Auguri e lacrime 

Mi trovo a Collevecchio.

Davanti al camino, sfoglio un album di fotografie.

Sorrido vedendo le foto dei miei genitori.

Papà, Antonio Valeriano Pulimanti.

20 aprile 1992.

Pasquetta amara.

Quel giorno è morto mio padre, Antonio Valeriano.

Ne è passato di tempo, ormai, ma il ricordo è ancora vivo.

Bruciante.

Proprio come allora.

Se ne è andato all'ora di pranzo.

Poco prima di addormentarsi, mi chiama.

Sono le undici di una pasquetta amara.

Maledetta.

"Mariuccio, ho appena fatto un sogno. Mi sono spaventato un pò", mi dice.

"Vuoi una camomilla?" rispondo.

"No. Stai qui. Ti ricordi quando eri piccolo, e ti raccontavo tutte le sere una storia per farti dormire?"

"Sì" replico.”

Ne vuoi sentire ora una?"

"Ma, papà, sono grande per sentire ancora le favole"

"Allora ti racconterò una storia vera" mi dice.

"Ma le storie vere non finiscono sempre come vorresti tu"

"Non importa, Mariuccio"

L'abbraccio forte.

Non fa in tempo a raccontarmi nessuna storie, si addormenta subito.

Per l'ultima volta.

Per sempre.

Sul suo comodino, un libro di Neruda.

Stava leggendo questa poesia prima che mi chiamasse.

"... Si muero sobreviveme con tanta fuerza pura que despiertes la furia del pàlido y del frìo.  Es una casa tan transparente la ausencia que yo sin vida te veré vivir y si sufres, mi amor, me moriré otra vez  (.. Se muoio sopravvivimi con tanta forza pura che tu risvegli la furia del pallido e del freddo. E' una casa sì trasparente l'assenza che senza vita io ti vedrò vivere e se soffri, amor mio, morirò nuovamente....)".

Ancora oggi, ogni tanto, mi torna in mente quella faccenda.....

E questa cosa mi accompagna e stranamente non mi fa paura.

Da quando papà non c’è più, mi sento ancor più legato a lui.

Perché mi manca.

Probabilmente è il segno di una volontà che ci vuole legati per sempre.

Mi manca il suo umorismo, la sua acuta osservazione degli altri.

Mi manca la sua educazione, la sua cultura che non esibiva mai.

Mi mancano i giorni di Natale passati insieme a lui.

Mi mancano le sue parole, i suoi messaggi, le sue battute con i tempi comici perfetti.

Mi manca la sua faccia tonda, aperta e fiduciosa.

Con un accenno di opulenza che lui per altro portava con molta leggerezza.

Mi manca la sua stuzzicante ingenuità sempre pronta a rilevarsi in un sorriso.

 “La vita è solo un sogno.”

Quella frase, le ultime parole di un uomo che credevo invincibile.

Immortale.

Mi manchi, papà.

Mamma, Ernesta Aloisi.

 

29 luglio 2012.

 

Ricordo il dottore dell’ospedale San Camillo, col viso di falco, dirmi “sua madre è deceduta!”.

  

Era stata operata per la rottura del femore.

 

Un intervento perfetto.

 

La  fase post operatoria sembrava procedere regolarmente.

 

Ma attorno alle sei di pomeriggio del giorno dopo, domenica 29 luglio, il suo cuore smetteva di battere.

 

Non si sa da dove sia partita l’embolia.

 

Mamma.

 

Mi ha sempre difeso come una leonessa difende i suoi cuccioli, anche a costo di subire biasimi e critiche.

 

Accendo la radio.

 

 “…poi mi viene in mente, se mi metto lì a pensare, il bacio di una madre come solo lei sa dare…”.

 

Diamine, non potevano scegliere un altro momento per trasmettere “Come Gioielli” di Eros Ramazzotti!

 

Mamma.

 

Lei, che mi ha guarito i graffi e le ferite con una carezza magica.

 

Lei,  un posto caldo dove ho trovato sempre un abbraccio.

 

Lei, con quell’odore di buono che mi faceva tornare bambino.

 

Lei,  che mi lasciava andare anche se avrebbe voluto tenermi stretto a sé.

 

Lei, una canzone nella notte.

 

Lei, una ninna nanna speciale.

 

Lei, uno sguardo che non aveva bisogno di parole.

 

Lei, quella che sapeva, sempre, cosa era la cosa migliore per me.

 

Lei, quella mano che mi ha tenuto mentre traballando imparavo a camminare.

 

Lei, il bum bum del cuore che sentivo appoggiando la testa sul suo petto.

 

Lei,  mamma, una parola: la prima che ho detto.

 

Lei, mamma, un sorriso: il primo che ho visto.

 

Lei, mamma, una voce: la prima che ho udito.

 

Lei, mamma, un sapore: il primo che ho assaggiato.

 

Lei, mamma, una culla: la prima che ho avuto.

 

Lei, mamma, che soffrendo mi ha fatto nascere.

 

Lei, che mi ha parlato nel cuore della notte. Quando tutto il mondo era addormentato. E nessuno, tranne me, udiva le sue parole. E, tenendomi fra le braccia, mi avvolgeva di un amore che aveva una forza inaudita.

 

In questa foto avevo sei anni.  “Vieni!” sembra dirmi, prendendomi la mano per condurmi a casa. 

 

Mi manchi, mamma.

Queste sono le cose che ho perduto.

Ricordi…

Tornano sempre, anche quando non dovrebbero…

Brandelli di passato.

Stilettate di dolore, di angoscia.

Questo é il ventitreesimo Natale che papà non c’è più.

Questo é il quarto Natale senza mamma.

Ora vorrei tanto telefonare per dire, sottovoce, che li voglio sempre bene.

Che li ricordo com’erano veramente: due genitori speciali..

Intelligenti.

Soprattutto, buoni.

Buon Natale, papà!

Buon Natale, mamma!

Quando mi addormento in poltrona, mentre nel camino il fuoco si spegne lentamente, sulle pagine lucide dell’album spiccano ancora le tracce delle mie lacrime

venerdì 4 dicembre 2015

Vado a vivere in Lapponia


Vado a vivere in Lapponia

 

Il gruzzoletto in banca nel caso di vacche magre. Così mi ha insegnato papà Valeriano.

E poi all’improvviso il gruzzolo è sparito e  sono rimasto a secco.

No, non ho una scelta più retributiva di lavoro messa via nel cassetto dei calzini. No, affatto.

Sì, la cosa può anche essere raccontata diversamente agli altri e a me stesso ma, a torta finita, il desiderio di maggior guadagno resta solo una chimera appollaiata in un retrobottega del mio cervello.

Il nocciolo è che di soldi, anzi di euro, ce ne sono pochi in circolazione e, almeno per quanto mi riguarda, ci sono troppe occasioni per non esserci più.

Sarò di una perspicacia rara, ma non mi riferisco a divertimenti e vacanze ai Caraibi, per esempio Barbados o altro.

Gli euro devono coprire tasse e balzelli vari.

Che barba.

Non mi lascio intrappolare. Al diavolo pure le nuove tasse.

Alcuni colleghi dicono: “non vedi, Mario, che i nostri governanti si mostrano dispiaciuti. Del resto con questi nuovi contributi spariranno anche i debiti accumulati dai loro predecessori”.

Rispondo: nix. Nessuna giustificazione. A sparire  non sono solo debiti statali pregressi, più o meno fantomatici, ma soprattutto il mio stipendio.

Forse il punto è questo: mi serve un’idea.

Dicono che uno tiene delle robe di riserva in un angolo della testa, come una specie di fondo di emergenza.

Sì, esatto. E allora questa volta sono stradeciso: vado a vivere in Lapponia.

Voglio dire, non è così orribile.

Insomma, almeno risparmierò sull’aria condizionata!

 

Mario Pulimanti (Lido di Ostia –Roma)

giovedì 3 dicembre 2015

Papà, l’ultimo dio


Papà, l’ultimo dio

(Antonio Valeriano Pulimanti, poeta di Collevecchio)

 

Mi trovo a Collevecchio.

Sto dicendo ad Alessandro che non ho i soldi per comprargli una macchina nuova.

Dovrà accontentarsi di un usato…garantito.

Mi  guarda con l’affetto di un serial killer psicopatico.

Poi esce.

Rimasto solo, mi siedo davanti al camino.

Sfoglio un album di fotografie.

Sorrido vedendo le foto di papà.

Il mio ultimo dio.

Antonio Valeriano Pulimanti.

Da quanto è morto?

Da ventitré anni.

Ne è passato di tempo, ormai, ma il ricordo è ancora vivo.

Bruciante.

Proprio come allora.

Da quando papà non c’è più, mi sento ancor più legato a lui.

Perché mi manca.

Mi manca il suo umorismo, la sua acuta osservazione degli altri.

Mi manca la sua educazione, la sua cultura che non esibiva mai.

Amava scrivere poesie.

Ricordo alcune strofe dedicate a Collevecchio: “….amato mio colle natio! Antico, non vecchio. Amore stilli, con la rugiada. Il tempo non può invecchiare ciò ch’eterno, e tu lo sei!”, e altre rime dedicate all’amore: “…Na lagrima pur’io l’ho fatta score. ‘Na lagrima d’amore. Quella e basta! ‘Na lagrima ch’è l’unica arimasta. ‘Na  lagrima pe’ un sogno che nun mòre…”.

Mi mancano le sue parole, i suoi messaggi, le sue battute con i tempi comici perfetti.

Diceva che bisogna stare dietro i cannoni, davanti ai cavalli e lontano dai superiori

Mi manca la sua faccia tonda, aperta e fiduciosa.

Con un accenno di opulenza che lui per altro portava con molta leggerezza.

Mi manca la sua stuzzicante ingenuità sempre pronta a rilevarsi in un sorriso.

Ricordi...

Tornano sempre, anche quando non dovrebbero…

Brandelli di passato.

Stilettate di dolore, di angoscia.

Ha sempre amato la mamma con tutto se stesso, di quell’amore incrollabile, un amore d’altri tempi fatto di doveri, di stima, di rispetto, di una passione rassicurante che si consumava solo di notte, nel buio della loro camera da letto e della gioia di ritrovarsela accanto ogni mattina.

Ripenso agli ultimi giorni, agli sprazzi di lucidità sempre più rari, al suo sguardo offuscato dalle nebbie della morfina, all’ultima frase che mi ha sussurrato prima di entrare nel territorio inarrivabile del coma: “Chiamami papone, col vecchio vezzeggiativo, che ti è familiare. Parlami nello stesso modo che hai sempre usato. Non cambiare il tono di voce. Va tutto bene, Mariuccio. Non smettere mai di correre. Promettimelo”.

Al funerale sono crollato.

L’impalcatura di formalismo dietro cui mi ero corazzato si era sbriciolata all’improvviso, lasciandomi singhiozzante e smarrito come un bambino abbandonato.

Una figura penosa per me abituato fin da ragazzo a mantenere, sempre comunque, un contegno decoroso.

Papà muore il giorno di Pasquetta del 1992, per una brutta malattia della quale noi siamo venuti a conoscenza da soli tre mesi, ma che lui non sa di avere.

Forse lo sospetta!

E’ il 20 aprile.

Solo otto giorni prima ha compiuto 66 anni, il suo ultimo compleanno!

Nel 2004 Ernesta, rovistando tra gli oggetti del marito, troverà del tutto casualmente una poesia che Antonio Valeriano aveva probabilmente scritto negli ultimi mesi della sua vita e della quale non sospettavamo l’esistenza.

S’intitola: “Er sogno”.

Questa sua ultima poesia è ambientata nella casa del nonno materno, Primo Merlini.

Nonno Primo era allora proprietario dell’osteria locale, che in seguito sarà gestita dal figlio Duilio, fratello di mamma Leonella.

Del resto, come ha anche detto il Papa: “non si tagliano le radici dalle quali si è nati” ed Antonio Valeriano l’ha dimostrato perché, anche se abitava a Roma dall’età di dieci anni, non ha mai dimenticato, nemmeno negli ultimi attimi di vita, le sue “radici collevecchiane”.


ER SOGNO

L'antra notte, quanno dormivate,

c’era silenzio solo nella casa,

m’appare 'na faccia rossa de cerasa,

ch'arisvejava in me cose passate.


Vino sabino, Brighella colla fresa,

file de vite, amici e carognate,

lontano, fra li soni de la Chiesa,

arberi, frutta, sole, scampagnate.

'Na rondine fa er nido su li tetti,

ner cielo quarche nuvola ormai rada,

sur prato fra le gocce de ruggiada

'na gatta partorisce li micetti.


Io, regazzino, a Nonno stò vicino

de là ce stà puro zì Navina

seduto accanto un cane che stà chino

io scappo an tratto sporco de farina.


"Nonno!" Strillai arzannome de botto,

apersi l'occhi e nun vedetti gnente

quer viso co' la bocca soridente

nun c'era si guardavi sopra e sotto.


Un desiderio d'abbracciallo forte,

solo silenzio e buio nella mente,

l'odore de la notte e de la morte

e de quer sogno nun me rimaneva gnente!

 

Oggi vorrei tanto telefonargli per dirgli, sottovoce, che gli voglio sempre bene.

Che lo ricordo com’era veramente: un papà speciale.

Un papà intelligente.

Soprattutto un papà buono.

Quando mi addormento in poltrona, mentre nel camino il fuoco si spegne lentamente, sulle pagine lucide dell’album spiccano ancora le tracce delle mie lacrime.

Mario Pulimanti (Lido di Ostia -Roma)

 

martedì 1 dicembre 2015

Vogliono toglierci pure il presepe!


Vogliono toglierci pure il presepe!

 

Ecco. Siamo, purtroppo, arrivati a questo! Niente presepe e canti natalizi in una scuola elementare della provincia milanese. Lo ha stabilito il preside che ha deciso di opporsi alla proposta di alcuni genitori di festeggiare il Natale a scuola, insegnando ai bambini le canzoni di Natale. Quindi anche i più innocenti simboli del Natale, come Gesù bambino ed il presepe, da sempre i più cari all'infanzia, stanno in questi giorni aprendo un forte problema di convivenza fra religioni e culture nella scuola. Ho anche letto che in varie scuole italiane, mentre si canta in coro, in classe, una canzoncina dello Zecchino d'Oro sul Natale, per gli scolari islamici il nome “Gesù” viene cambiato con “virtù”, per non offendere nessuno. Oppure, sempre per non offendere la sensibilità, si preferisce rinunciare del tutto al Presepe e ai canti di Natale in molte scuole. A questo punto mi indigno. Perché è un fatto grave che noi italiani, che viviamo in una comunità che ha profonde radici cattoliche, siamo obbligati ad assistere inermi e questo storpiamento religioso. A questo punto si può ben parlare di razzismo al contrario. Queste scelte, a mio parere, non appaiono, infatti, motivate da senso di rispetto e tolleranza per le altre religioni (Islam in primis) ma costituiscono, invece, una vera e propria rinuncia alla difesa dei nostri valori cristiani e tradizioni culturali. Le recenti esperienze insegnano che abbiamo, sparsi per l'Italia, educatori vittime della “sindrome di Stoccolma”, che solidarizzano ostentatamente con chi sta sequestrando i Valori cristiani fino a togliere il Crocifisso dai muri e Gesù dal testo di canzoni e preghiere natalizie. Io ritengo che noi cattolici dovremmo uscire dal letargo e dal torpore e cominciare, intanto, a chiedere ai mass media di dare maggiore attenzione al significato cristiano del Natale. Difatti penso che, se restiamo in silenzio di fronte a queste vicende, si potrebbe con il tempo arrivare ad una violazione della libertà dei bambini, ai quali potrebbe essere scippata del tutto la festa più simbolica dell'infanzia: il Natale, cioè la nascita di Gesù.  Mario Pulimanti (Lido di Ostia -Roma)