martedì 30 ottobre 2012

NOVE MALEDETTI RACCONTI ITALIANI. PIU’ DUE.

NOVE MALEDETTI RACCONTI ITALIANI. PIU’ DUE. (Ostia. Bari. Milano. Napoli. Palermo. Roma. Torino. Genova. Cagliari. Brescia. Corniolo di Santa Sofia.) racconti di Mario Pulimanti (tutti i diritti sono riservati)
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1. OSTIA, AL MATTINO (Ostia)
Non tutte le cose che vedo sono spettacolari. Però la Garbatella a me piace così, con le facciate di alcuni palazzi che si sgretolano e sui marciapiedi cadono i gusci degli anni ormai andati. All’esame della scuola per mimi, l’allievo fece scena muta. Su, meno stronzate, facciamo in fretta. Non ci sono più i bravi illusionisti di un tempo. Sono tutti spariti di scena. Sono nato in una casa umile di Testaccio. Adesso è cambiato tutto, adesso lì ci vivono poeti che ogni anno vincono premi letterari, artigiani che fabbricano ancora ombrelli e bastoni artigianali di alta fattura: oggetti unici e ricercati diventati famosi per design e qualità e pittori di pesci morti. Le case del Testaccio sono di moda perché si vede che in esse si trova lo spirito del popolo romano, in attesa che qualcuno lo colga. Ma ai miei tempi da lì uscivano solo le urla delle partorienti i cui mariti avevano sbagliato numero nel chiamare l’ambulanza. Gli strilli dei bambini. Le scoregge dei pensionati. Le manganellate regolamentari della polizia. Era un mondo spietato, con le tavole vuote e le condutture intasate. Che pensieri: sono così sconvolto che sento persino qualcosa di miracoloso, una specie di eccitazione sessuale. Ma l’unica cosa che riesco a dire è “Tutto questo è assurdo. Sto diventando matto!” Era un calciatore sciatto e impreciso. Lavorava con i piedi. Ora capisco. Sto per morire. Davanti al giudice, i due pianisti trovarono un accordo amichevole. E’ un modo di dire. Non credo che abbia particolare importanza. Ma mi ha scombinato un po’ la vita. Adoro il mare. Ostia, al mattino. Voglio riaprire la finestra dell’arcobaleno. Datemi le chiavi. Non mi fate perdere la pazienza! Cavolo, un milione di cose mi impediscono di aprire quella finestra, un milione di cose su cui non si deve ragionare, né calcolare, né fermarsi a vedere. Solo sentire. Un milione di cose che non stanno da nessuna parte, ma che sono comunque nell’aria. Ovunque, tranne che nei tuoi occhi. Fino a tal punto arriva il tuo disprezzo? Sì. Non mi offendo. Ho sempre sentito dire che i soldi sono soldi. E che molti soldi sono potere. E che moltissimi soldi siano il massimo. Sarò sincero. Intuisco il tuo disprezzo. Me lo soffi in faccia. Accendo un sigaro d’alta classe. Lo lascio morire acceso e con dignità. E ora, vado a cagare. Au revoir. -------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- 2. VISO DI MARMO (Bari)
Mi chiamo Michele. Michele Lorusso, detto Ciaciàcche rècchièpànne: mmmh, sarà perché peso più di un quintale e ho le orecchie a sventola? Le mazzate sò ssèmbe o cane mazze. (Le mazzate vanno sempre al cane bastonato). Chi cazzo volete che mi conosca? Avete ragione, le donne che mi hanno conosciuto e che me l’hanno succhiato sono già morte, o si trovano al geriatrico. Oggi mi sento addirittura eccitato, cosa sempre più rara in me; ma si sa che nel mistero sessuale di noi uomini c’è sempre una posizione vista da bambino, o il fruscio di una giarrettiera, o un paio di mutandine dimenticate sul copriletto, o uno specchio della toilette, davanti a cui la più giovane delle cuginette si era guardata la fessura. Cavolo, debbo stare attento a parlare troppo, corro il rischio di annoiarvi. Del resto le parole so' come a le cerase: ne pigghie iune ne vénene cinghe. (Le parole sono come le ciliege: ne prendi una e ne vengono cinque). Sono di Bari. Bari Vecchia. Bari è una città povera e autentica, al contrario di quanto crede la gente: è una città di fcazz’, di Martina Franca e di Rosso Barletta, di sgagliozze e popizze, tielle, panzerotti, crudi, orecchiette e di sporca musi. La fèmmene bbèll'e pelite sènza dote se marite. (La donna bella e sana, anche senza dote trova marito). Ma è povera perché la ricchezza è mal distribuita. A Bari ci sono cinquemila ricchi che si fottono l’intera città, Cinquemila maledetti bastardi dell’amministrazione comunale, della politica, della giustizia, Soprattutto bastardi imprenditori edili, bancari, banghìire, per non parlare del traffico di droga. Bari. Intorno a me, pittori da camera, ministri in crisi, giornalisti disoccupati, funzionari a riposo, perdigiorno sfaccendati, squagghiasòle, cattedratici da bar, banchieri, carrettìire, chezzàle, chemmediànde, chemmercialìste, chemmerciànde, calciatori brasiliani e puttane orientali… Ciao! sono una bellissima dolce giapponese, vieni a provare le intense sensazioni delle mie mani su di te... massaggi… U troppe stroppie. (Il troppo storpia). Bari Vecchia. Intorno a me, taverne, osterie, soffitte, case di ringhiera e balli da bordello. Bari ha novantanove anime che vivono per le strade, nelle piccole botteghe di quartiere, sotto le gonne delle commesse. U u-òmmene non è mmà chendènde. (L'uomo non si accontenta mai). Sono barese. Amo l’anima di Bari vecchia. Tutte quelle piccole anime sospese sugli angoli che si lasciano cullare dalla voce di un poeta o dal passo sinuoso di una donna. Chedda cicchecciàcche de sòrete..... Odio il Berlusca, nu cchine de mmèrde. Bari Vecchia. Entro in un bar, che era stato un centro di incontro per studenti disperati sempre al primo anno di corso, che scopavano senza togliersi i jeans. Ora lo frequentano divorziate sul viale del tramonto, dame di compagnia che cercano di arrotondare all’ora del tè e vedove di bell’aspetto che, di tanto in tanto, mostrano astutamente un laccetto del reggicalze. U mariite disce sèmm'a la megghère: là come diche iì e non facènne come fazze iì. (Il marito dice sempre alla moglie: fai come ti dico e non fare quello che faccio io). Bari vecchia. Entro in un locale. Lei è una ragazza modesta: si fa chiamare Pamela, ma il suo vero nome è Maria Ladisa. Porta i tacchi a pillo per farsi baciare i piedi dai suoi clienti, veste in rigoroso lattice nero, tanto aderente che le si vede l’ano. Scusatemi, ma per me questo è un termine scientifico, come ultima parte del condotto digestivo, porta miracolosa, perché non sempre è sana e in condizioni di prestare servizio. E indossa una maschera di velluto, che esalta un nasino piccolo e una bocca viziosa e grande. Non so se abbiate notato quanto siano suggestive le donne con la bocca grande. Molte attrici ce l’hanno e la ostentano, perché una bocca grande da una sensazione di salute, e poi è finito il tempo di quelle boccucce di rosa degli anni cinquanta, disegnate come chi disegna il nocciolo di un’oliva. Ci ttène terrise và pure mbaravise. (Chi ha denaro va anche in Paradiso). E poi, la puttana di cui parlo è un’autentica professionista, molto aggiornata, che per i clienti più lussuriosi fa pipì in un vaso da notte foderato di cuoio. E’ perversa solo a ore fisse. Prima di lavorare guarda i serial televisivi. Ma nelle ore di lavoro è perversa. Lega il cliente a ganci speciali e ad anelli. E poi lo frusta, con colpi forti da far male ma abbastanza deboli da non lasciare segni. Ce uò sapè la vèretà, da le peceninne e da le mbriache. (Se vuoi sapere la verità, la potrai sapere dai bambini e dagli ubriachi). Bari Vecchia. Torno a casa. Guardo la televisione a letto. A volte, la tele grida un sacco, soprattutto quando dice che devi bere acque distillate e usare assorbenti ai raggi laser. Ma altre volte sussurra. La notte porte chenziglie. (La notte porta consiglio). Mi chiamo Michele. Michele Lorusso, detto Ciaciàcche rècchièpànne: mmmh, sarà perché peso più di un quintale e ho le orecchie a sventola? Nan tande a trà la zoche, se no se spèzze. (Non tirare troppo la fune, altrimenti si spezza). Sono di Bari. Bari Vecchia. Perfetto, tranne che per un dettaglio. Mamma è di Brescia. La fòmna per picola che la sia, la bat èl diaol èn furberia. (La donna per piccola che sia batte il diavolo in furberia). Brèsa, Leonessa d'Italia. Perfettamente logico: così la chiamò Giosuè Carducci. Ve lo giuro: tutto deriva dal coraggio dimostrato dalla città nelle dieci giornate di insurrezione agli Austriaci nel 1849. Che fortuna! “Brescia la forte, Brescia la ferrea, Brescia leonessa d'Italia beverata nel sangue nemico.” Ma questa è un’altra storia. Una storia lunga da raccontare. Cazzo, il mondo incomincia a essere proprio noioso. Ho un viso di marmo. I miei occhi non riflettono nulla, né le risate di una volta, e neppure il ricordo delle case in cui ho vissuto. Tutta la mia vita è stata una sfida. Mi chiamo Michele. E sono di Bari. Bari Vecchia. Vecchia terra di commercianti di stoffe che tengono nell’armadio il cadavere di un commesso e un’amante sempre pronta dietro un telaio. Vecchia terra di notai che una sera, stanchi di apporre firme, chiudono la finestra, si rendono conto di non aver vissuto e per un momento sognano di notificare l’acquisto di un ricordo. Ma tutta questa terra mi piace: conserva signorilità borghese, storia, classe. Ha l’aria da pagamento in contanti. In un paese dove tutto verrà distrutto per costruire più camere e collocare più televisori sono grato che Bari sia sopravvissuta, che Bari sia riuscita a conservarmi. Miseria porca, Michele. E’ ora di addormentarsi. Forza grande Bari alè! -------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- 3. STRANE CONVERSAZIONI A MILANO (Milano)
Milano vibra, e Stefano ci si immerge con gioia. Milano avvolta nella nebbiolina e nel denaro, con un odore che Stefano conosce bene. Lui ha i propri orizzonti sessuali: questo sì, questo no. Entra in un bar, vicino alla stazione ferroviaria di Porta Garibaldi. Si siede. Prende un caffè. Guarda il vuoto attraverso la finestra del vecchio bar. Quel vuoto è pieno di cose: una donna sugli ottant’anni chiede l’elemosina per mantenere i genitori, un vecchietto guarda il culo delle passanti, e, siccome non può alzare ormai più niente, alza un sopracciglio, una spazzina municipale insegue brandendo la scopa un cane cagone e pure di destra, un orientale appena arrivato rovista tra il sudiciume dei portoni e nel frattempo si offre come maggiordomo filippino. Ma Stefano vede solo il vuoto, che è quello che resta nella vita dopo aver visto tutto. Davanti a lui si siede Fulvio. Fuma il sigaro, nonostante dietro a lui sia affisso un manifesto che vieta di fumare dentro il bar. “Non ti offendi se ti dico che hai l’aria di un funzionario dei servizi cimiteriali. Di quelli che riscuotono i pagamenti per i loculi”. “Non mi offendo mai quando mi dicono la verità” sospira Stefano. Liliana lo saluta. Vicino a lei, la figlia Daniela. “E’ smunta, sciupata”. dice sottovoce Stefano “strano, perché credevo mangiasse bene”. “Non è strano” risponde Fulvio, “si sa, alcune bambine non nascono forti, altre sono traumatizzate dal fatto di essere figlie di genitori che si odiano. Insomma, anche a me sembra proprio cagionevole di salute”. Stefano si stringe le spalle, anche se è deluso. Fulvio è agitato: la moglie lo sta pedinando, pensa che abbia una relazione con un’altra donna. Pedinamenti, insinuazioni, staffilettate. Una vera tortura cinese. Insomma, la moglie lo sta provocando, cercando di farlo cadere in contraddizione. E lui sta cominciano a cedere. Ha conati di vomito. E’ sull’orlo di una crisi di nervi. Sa di avere due opzioni: una è buttarsi dalla finestra. L’altra raccontare tutto a sua moglie e regalarle un fucile carico. Non se ne parla. “Devo iniziare a non avere intrallazzi con le donne” dice Fulvio. “Ma di cosa stai parlando” risponde Stefano. “Del fatto che mia moglie mi sta addosso” “Avrà dei sospetti”. “Sospetti?” “E’ così che le mogli cominciano ad agitarsi, anche se spesso agiscono nel vuoto. Comunque, riconosco che sono fastidiose”. “Sì”. “Dovresti fargliela pagare”. “Esatto. Ma come?” “Continuando a tradirla”. “Sarò sincero, Stefano. La vorrei morta”. “Fino a tal punto arriva il tuo disprezzo?”. “Sì”. “Ho sempre sentito dire che i soldi sono soldi. Ma tua moglie è ricca, tu no. Non ti conviene lasciarla”. “Esatto, Stefano. Ma a me dei soldi importa poco. Per questo posso permettermi il lusso di ignorarla se non la vedo, e di disprezzarla se la vedo. D’accordo?”. E lascia sul posacenere il sigaro quasi completamente consumato. “ Anche io “ brontola Stefano “non amo particolarmente il denaro. Sono povero e morirò povero. Il mondo è di chi sa approfittare delle opportunità. Io, no. Del resto non ho molte spese, e ho un pessimo gusto. Mi basta quello che ho” . Uscendo dal bar, indicano la strada del Duomo a un tizio alto due metri e pesante duecento, che ancora non s’era rasato. Decidono di fare un’incursione nei quartieri alti. Passeggiando, passeggiando arrivano al cosiddetto quadrilatero della moda. Via Montenapoleone ,Via Della Spiga, Via Sant' Andrea e Via Borgospesso. Passano davanti a un complesso residenziale. Continuando a camminare, giungono prima a Corso Vittorio Emanuele e poi al quartiere Brera, zona molto elegante e caratteristica. Qui gli edifici sono incantevoli. Strade tranquilla, pochi vicini, parcheggio custodito, portineria ventiquattr’ore su ventiquattro, giardino curato da professionisti. Finestre con doppi vetri. Pensilina sul portone d’entrata. Come un hotel di lusso. Architettura di design. “Non è posto per noi, questo” dice Stefano. Fulvio annuisce. Tornano indietro verso Porta Garibaldi. Infine tornano al punto di partenza, al quartiere Isola. Stefano saluta Fulvio, con un caustico “E adesso fuori dai piedi. Vado a dormire”. Prende l’ascensore. Entra a casa. Si siede sulla sua poltrona preferita. Bevendo un fernet, pensa: ci sono storie d’amore, o per lo meno amori che durano quindici giorni. Tutte quelle coppie che il sabato riempiono i bar di Porta Romana, di corso Lodi o di corso Buenos Aires e che giurano di amarsi fino a che non nasca una nuova avventura sono più felici di lui, pensa. Almeno hanno un destino sentimentale assicurato fino alla fine del mese, mentre lui non ha niente, tranne i suoi libri, il panorama della finestra di casa e quei maledetti ricordi di donne che non ci sono più. Il silenzio continua a essere assoluto nella sua anima. Con lo sguardo perso, i suoi occhi si posano sul fondo della stanza. Riflette tra se e se “Adesso tocca a te, Stefano. Forza. Distruggi il passato. Ricordi lasciatemi in pace”. Si sente sporco. Sporco della giornata. Sporco della vita che giorno dopo giorno ti macchia, ti graffia, ti contamina. Urge lavarsi, pensa. E si fa una doccia. Esce dal bagno arricchito e fresco, annichilito, vacuo. Apre la porta e come fosse un sigillo, un vaso di pandora, fa sì che fuoriesca il vapore, una nuvola di mistero, fitta come i pregiudizi. Se ne ritorna in camera, zampillando come una fontana, imbambolato e strambo. Ma contento, cavolo! -------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- 4. CIRO ESPOSITO, ANONIMO NAPOLETANO (Napoli)
Napoli: la Napoli della fame e arroventata dal sole dell’estate. I balconi dei quartieri, le persiane sverniciate, i bambini che strillano e le donne appoggiate alla ringhiera a veder passare la maledetta sera. E anche peggio: la maledetta vita. Ciro Esposito ritorna a casa con la coda tra le gambe. Calcolava di non incontrare nessuno, ma negli appartamenti della sua zona c’è una vita privata intensissima. Si sentono coppie nei loro appartamenti che giocano a carte, bevono, ascoltano Gigi D'alessio, Pino Daniele, Nino D'angelo o cercano di utilizzare i diversi organi del sesso. La sua è una casa vecchia. C’è il grande salone, i tappeti orientali, le tappezzerie di seta, i mobili robusti e le tendine, sottili e impalpabili, fatte di bava di suora. Si siede alla scrivania e inizia a rimpiangere tutte le finestre, tutte le strade peccatrici, tutti i letti e tutte le donne perdute. Ciro sa di essere malvisto, mal pagato, mal considerato e pure lesionato a prua. Tutte queste circostanze indicano una cosa sola: povertà. Ma non è proprio così. Benché guadagni poco, spende poco. Per tutta la vita ha mangiato in osterie, in bar sul punto di chiudere e in taverne tenute d’occhio dall’ufficio d’igiene: insomma, ha mangiato, senza rendersene conto, residui municipali e avanzi d’ambulatorio. Con un simile tenore di vita, i casi sono due: o muori o risparmi. Tutto questo per dire che Ciro ha qualcosa da parte, malgrado la sua dignitosa povertà. E adesso, che è appena uscito da casa, decide di spendere i suoi soldi ai caffè letterari, dove si reca spesso per leggere, ascoltare musica e dialogare con gli altri frequentatori ed ovviamente sorseggiare una tazza di buon caffè. I suoi preferiti sono Intra Moenia ed Evaluna, vicino piazza Bellini. Ma frequenta anche l’Istituto Pontano o altri caffè minori lungo via San Sebastiano. A volte, anche il Caffè della Stampa nei pressi della Napoli Sotterranea. Ed è qui che si dirige oggi. Si siede a un tavolino, vicino a Peppe, suo antico amico. “Che giornata” dice Ciro. “Ce ne sono state di peggiori” risponde Peppe. “Entrando ho visto Carmela, la tua ex moglie, in compagnia di un uomo molto più giovane di lei” dice Ciro “Chi è?” “Si chiama Salvatore. Una trentina d’anni. Un atleta dall’espressione dura, di quelli che fanno impazzire le donne. Le ha tutte ai suoi piedi, perché al giorno d’oggi le donne non hanno buon gusto. Oppure vanno in cerca di novità, perché sono diventate come gli uomini. Comunque ho la certezza che non si farà mai Carmela” . Ciro socchiude gli occhi. Quegli occhi non sono più normali. Sono piccoli, duri, sono gli occhi del vecchio serpente. “Invece se l’è fatta” dice con un filo di voce. “Stai zitto, Ciro, o ti spacco la faccia”. “Non offenderti; in realtà sai anche tu che le cose stanno così”. “Non è giusto”. “Invece è così che va la vita. Ti lasciano e se ne vanno con un altro”. “Davvero?” dice Peppe, guardandolo sorpreso. “Davvero. Tu non conosci bene le donne”. “Ma che sciocchezza! Carmela é ancora innamorata di me. Questo è vero” urla Peppe esasperato. “Ok, ma a me che cazzo me ne può fregare, oltretutto!” risponde Ciro. Poi si alza in piedi. Sembra provato da questa conversazione, dalla vita. E dalla sera che sta morendo. Chiunque si sia preso la briga di risalire fino alla parte più alta di Poggioreale, nella zona orientale di Napoli, conosce la zona. Ma non è facile che molti la conoscano, perché alla fine c’è una scalinata, e la scalinata non si può percorrere in auto. E’ comunque, un luogo molto pittoresco. Ciro invece si inerpica su per la scala. Da lì, la strada scende fino a Ponticelli, navigando tra pasticcerie con bambina grassottella, bigiotterie con proprietaria emancipata, panetterie profumate di casatiello, e botteghe storiche di barbieri. Verso sera, questa strada si lascia guardare da poeti affacciati al balcone, i quali, non avendo potuto cantare una serie di lussuria, dedicano la vita a cantare una sera di fame. Qui é difficile infilarsi nel labirinto di strade in rifacimento. Ciro non ha che uno sguardo decadente e spietato, che prima vedeva solo la menzogna della vita e ora vede solo la verità dei fantasmi. Lui fa parte di uno di loro, dei fantasmi di strada, dei fantasmi di nomi di donna, e li saluta tutti i giorni. Guarda la gente, ne calcola l’età e si domanda quante macerie la compongono. Lui, come i poeti di quartiere, finirà per raccogliere le macerie degli altri in questa terra sacra, tra lo sventolio del bucato steso ad asciugare su fili scorrevoli in alto da un palazzo all’altro. Nell’ascensore incontra Assunta, la nuova inquilina del terzo piano. E rimane abbagliato: vede labbra di pianta carnivora e immagina labbra vaginali dolci e fragili come bachi di seta. Pensa che da quando é impotente è diventato un poeta, forse perché le donne si riempiono di parole quando non si possono riempire d’altro. Pensa che Assunta sia piena di cose dolci, ma in altri tempi avrebbe pensato che fosse piena di cose sordide: gambe da mordere, un ventre da schiacciare, natiche da aprire, una lingua da fare a pezzi. La guarda con apprensione. La saluta. Le volta le spalle. E se ne va trascinando i piedi. -------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- 5. DIVORZI SU PALERMO (Palermo)
Palermo. Pietro percorre viale della Libertà. Incontra Calogero. “Se vuoi un caffettino” dice Pietro. Si siedono in un bar, a via Ruggero Settimo. Cose dell’altro mondo” dice Pietro leggendo la cronaca sportiva del Giornale di Sicilia, che alla veneranda età di settantasette anni va ancora allo stadio comunale Renzo Barbera - che lui continua a chiamare con il vecchio nome de La Favorita- per tifare per il suo Palermo.” Miccoli ha detto che il nostro obiettivo è la salvezza”. “Purtroppo il capitano ha ragione” risponde Calogero “non siamo il Palermo di 2-3 anni fa". "Cavolo, stiamo attraversando un momento davvero difficile, non me l'aspettavo”riconosce Pietro. “Ehi, la radio stamattina ha detto che stanno aumentando divorzi e separazioni in Italia” fa Calogero, saltando di palo in frasca, aggiungendo “sembra che abbiano calcolato che, fra i matrimoni che durano da più di cinque anni, il dieci per cento va avanti grazie a interessi finanziari delle parti, il venti grazie al sesso che, da quanto mi dicono parecchi fedeli, è diventato cosa rara e il settanta per cento va avanti grazie alla santa pazienza, che nel frattempo è diventata un’abitudine casalinga”. “Vediamo, vediamo….” dice Pietro sollevando un po’ il braccio, come se dovesse cercare qualcosa nell’archivio della memoria. “Da quanto ne so, molte coppie non sono felici, ma lottano insieme nei momenti difficili”. “Questo è vero, e riescono a superarli. Ma poi a volte non ci riescono”. “Sì, Calogero. La mia esperienza mi ha insegnato infatti che è molto difficile che un matrimonio sopravviva a una crisi economica grave e all’angoscia che ne deriva, ma è pure molto difficile che sopravviva all’agiatezza e alla noia. Non solo, direi che le difficoltà economiche uniscono e, addirittura caricano un matrimonio di progetti, ma il denaro separa, e carica un matrimonio di problemi. Io credo che le difficoltà spesso inizino quando le coppie risolvono i loro problemi e gli rimane il tempo di veder morire la sera nei loro salottini, guardandosi in faccia. Quando hai problemi, non vedi la faccia; vedi il futuro. Quando non ti resta che la faccia, è un brutto affare”. “Giusto Pietro. Anche io penso che la noia tra i coniugi sia uno dei grandi problemi che affliggono Palermo. Anzi la Sicilia. Anzi l’Italia. Anzi l’Europa. Anzi il mondo! Bisognerebbe inventare una legge per porvi rimedio”. “Hai ragione, Calogero, e credo che le grandi crisi domestiche si origino così. Per una coppia di sposi è molto facile avere un progetto di vita comune: entrambi pensano allo stesso tempo ad andarsene di casa, trovare un appartamento, ammobiliarlo, sfogliare i dépliant delle agenzie di viaggio e pianificare una scopata. Questo gli fa pensare che la vita abbia un senso e che siano nati l’uno per l’altra. Ma gli anni di matrimonio a poco a poco modificano la situazione, con la persistenza di una goccia d’acqua: Nulla garantisce che il progetto di vita che desidera il marito coincida con il progetto di vita che desidera la moglie; non solo, uno dei due finisce per intralciare l’altro. Dopo un po’ sono due perfetti sconosciuti che si incontrano, si guardano, si rifiutano e cercano rifugio altrove. Ma non temere Calogero, poiché la saggezza occidentale ha previsto tutto: ormai ci sono rifugi eccellenti, come il lavoro, i pettegolezzi con le amiche. Il cinema, il teatro e il campionato di calcio. Chi crede che in una casa ci sia un mondo, si sbaglia: ci sono due mondi. Nemmeno i figli rinnovano il primo progetto comune, perché per i figli ciascuno ha un progetto diverso”. Pietro, grande frequentatore dei bar palermitani, continua: “Ma torniamo a noi: ci sono due sistemi perché una coppia consumata si prenda ancora per mano e rimanga unita. Uno è trovare un nuovo progetto di vita comune, come per esempio comprarsi un nuovo appartamento e altri mobili. Ma questo non è sempre possibile”. “E l’altro sistema?” chiede Calogero. “Non aver mai avuto un progetto di vita”, dice Pietro, annuendo lentamente. “Questo può sembrare terribile, Calogero” continua “lasciarsi vivere e non essere nessuno. Ma lì potrebbe esserci una delle chiavi della felicità”. Calogero fa un cenno affermativo, non privo di stizza. Poi dice “Certo. Però è triste vivere così. Puzza di merda”. “Sta tranquillo, Calogero. Per farti capire meglio come vanno veramente le cose tra coniugi ti racconto la storia di Andreina e di Vito. Lei, onorata postina. Lui, tecnico bancario”. Pietro prosegue “la donna si sentiva tradita. E aveva ragione: Vito le metteva le corna di nascosto. Così lei gliele ha messe in bella vista. Andava in giro con le amiche e scopava spesso con uno qualsiasi, anzi, con più gente possibile, e poi lo raccontava al marito. E questo non è un caso isolato. A Palermo ci sono più case di quanto credi tu con un marito rimasto a bocca aperta a guardare la porta”. Calogero bisbiglia: “Per strada mi hanno sempre insegnato che chi la fa l’aspetti”. “Appunto. E non credere che sia tanto strano, Calogero; siamo talmente complicati che a volte penso che nessuno possa scrivere la nostra vera storia. Certo, era bella. Molto. Aveva una vulva larga ed elastica, Andreina. Aveva pure una bocca potente e succhiatrice, con l’alta e la bassa marea, piena di forze occulte. E un ano multiuso, onesto e lavoratore, che era una di quelle stelle nane che non brillano e quasi non si vedono, ma che secondo gli astronomi si accaparrano tutto il magnetismo dell’universo”. “Ma tu, Pietro, come fai a sapere tutte queste cose di Andreina?” “Perché ci sono stato anch’io con lei. Capezzoli turgidi. E che culo!” “Cazzo” “ Insomma, Calogero, a Vito non rimase altro che sbattere la testa contro le pareti della sua casa”. “Vito si è risposato?”. “Con chi?”. “Non so…Con una donna, suppongo, anche se al giorno d’oggi e con la faccenda delle coppie di fatto, si sarebbe potuto sposare con uno spazzino comunale con tutte le cose al posto giusto”. “Non credo. Ma, in fondo, che importa?”. Siccome è ora di pranzo, Calogero si alza in piedi. “E’ vero, che importa. E dato che ho fame, vado a pranzo”. E’ sulla porta quando si volta per chiedere: “Ma secondo te il Palermo rischierà di retrocedere quest’anno?”. “Neanche per sogno. Anzi arriveremo in zona Champions. Sulla carta partiamo battuti ma nel calcio nulla è scontato basta giocare con il cuore e sapienza. Santa Rosalia ci protegga!” “Mi pare giusto”. Ed esce. Prima di chiudere la porta del bar sente Pietro canticchiare: “forza Palermo vinci per noi!!!!…” Uscito Calogero, Pietro ordina un aperitivo. Alcolico. Mentre lo sorseggia, pensa che nei film le ragazze portano il reggicalze, ma non in questo quartiere. Qui si vedono stese solo mutande ingrigite e dozzine di collant. Porca puttana. -------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- 6. FINE DI UNA STORIA (Roma)
Passa il tempo come passa la vita, senza che te ne accorgi, anche se la vita diventa più lunga quando inizi a fissare sempre lo stesso muro. La storia tra lui e Daniela era terminata. Fine di una storia Lei l’aveva lasciato, improvvisamente. Senza motivo. Passarono gli anni. Domenico viveva in solitudine, benché fosse ancora giovane. Ma ognuno è fatto a modo suo, cosa ci si può fare. Un bel giorno incontra Antonella. Antonella, ninfomane doc nonché sorella di Daniela, aveva sposato un ricco imprenditore. Ed era rimasta vedova, da poco. E ricca. Incredibile, dice lui. Ma se cammini a Roma, è naturale incontrare gente che cammina a Roma. Lei finge di non riconoscerlo: si sa, quelli con i soldi sono fatti così. Ma qualcuno gli aveva detto che i soldi li aveva persi per il vizio del gioco e in cambio aveva guadagnato in sfrontatezza. Insomma, c’è modo e modo di camminare, uno dei modi è farlo pensando agli uomini. Quasi la investe dall’emozione e, ovviamente, le chiede di Daniela. Allora Antonella gli racconta tutto. Non le si attribuivano fidanzati, amorazzi, scappatelle, scopate solenni in saloni importanti. Né tantomeno sveltine in ascensore. Antonella si era trasferita a Londra, dove viveva insieme al cupo Ken, banchiere inglese. “Fanculo ai cattivi ricordi. Così, netto e schietto, senza tante storie. Ai cattivi ricordi bisogna dare tempo e letto”. “E’ vero anche il letto è una cura”. “Non c’è rimedio migliore”. “Sei una donna molto sincera”. “Ora un po’ meno. Prima, quando ero segretaria di un’impresa di trasporti, sì che parlavo come si deve. Ma adesso sono cambiata perché sto seguendo un corso di diritto all’università”. Molto convinta di essere una donna in gamba, Antonella termina: “Bene, cos’altro vuoi?” “Se te lo ricordi e non ti disturba, vorrei sapere l’ultimo domicilio di Daniela”. “Non qui”. “Immagino. Ma dove?”. “A Londra, ma è meglio se te la dimentichi. Per sempre”. “Brutta schifosa!”. “Và, Domenico, e non pensare più a lei”. Domenica saluta Antonella, balbettando dentro di se mal parole nei confronti di Daniela. Dentro di sé un rancore, più fermentato di uno yogurt in un convento. Bé, si infili il mignolino, dico il mignolino, nel culo, perché io non ho voglia di complicarmi la vita. Altrimenti mi viene la nausea, la cagarella e mi si rattrappisce il prepuzio. Suvvia! Mi interessa solo ricevere lo stipendio e che non mi becchino a scoparmi la segretaria! Fanculo a lei e al suo Ken, un autentico rottinculo! Roma, la capitale del mondo. Roma sta crescendo ancora, anche se in teoria non può crescere di più, incastrata tra il Tevere, il mare, le montagne dei Castelli e le tette delle sue puttane storiche. Tutte le piazze della città vecchia, dove ora cresce un albero e dove una commessa masturba un commesso, sono costruite su un immenso ossario sopra i resti di antichi cadaveri, ricchi o gladiatori, popolani o sacerdoti. Ha bisogno di camminare un pò, di parlare con qualche amico. E di respirare ara pura seduto al tavolino del caffè all’aperto in via dei Baullari , con vista sul Campo de' fiori. Qui incontra Marco. E’ un illustrissimo finocchio, dunque impossibilitato ad avere discendenza, anche se oggi il problema dell’amore anale è risolto perché, grazie all’astuzia dei legislatori, due finocchi, se sono d’accordo, possono avere una copiosissima discendenza. Ma è anche una grande mente, giornalista d’assalto. Gli racconta della speculazione edilizia messa in atto da Crispino, Accattone, Libano e i suoi amici a Roma, ma soprattutto a Ostia. Non hanno fatto altro che acquistare il terreno a prezzo agricolo ed aspettare le strade, e fognature, l'energia elettrica, ecc. che inevitabilmente verranno costruite sotto spinte di vario genere. Il valore del terreno una volta urbanizzato e divenuto per questo idoneo all'edificazione sale a dismisura e può essere venduto lucrando la differenza divenuta cospicua tra prezzo d’acquisto e prezzo di vendita. Perciò, sono aumentati i cantieri abusivi dopo l'approvazione del Piano Casa regionale che, con la scusa di risolvere i problemi legati all'emergenza abitativa nella metropoli, incentiva la speculazione edilizia, le cementificazioni selvagge, a discapito di parchi, zone agricole e zone protette. Inoltre, vedove di avvocati indipendenti che hanno dovuto lasciare lo studio in una bara vivono con una pensione talmente miserabile, la pensione dell’ordine degli Avvocati, da far storcere il naso a un immigrato africano. Vedove di medici che hanno curato mezzo quartiere sopravvivono con una dieta così nana che l’avrebbero senz’altro raccomandata al proprio marito: un bicchiere d’acqua e uno yogurt. Tuttavia, per una questione di decadenza, escono sempre benvestite, e non partecipano mai alle manifestazioni di quartiere, chiedendo nuove case e sussidi. O meglio, Marco non ricorda che a Roma sia mai stata organizzata nessuna manifestazione, se non all’epoca della transizione dalla prima alla seconda repubblica, denigrando Craxi e i suoi amici ed invocando la libertà contro questi tiranni. Da queste manifestazioni i mariti di molte vedove erano usciti contusi, lesionati, e forse anche impotenti. Un uomo come Crispino può fare affari proprio lì, a Ostia? Certo. Per questo esiste l’angoscia dei vecchi: io le compro l’appartamento e lei ci potrà abitare fino al giorno della sua morte, riscuotendo, tra l’altro, anche una piccola rendita, ma faccia in modo di farsi dare l’estrema unzione al più presto. E lei signora, non so che cazzo ci faccia qui, con tanta umidità, tanto spazio inutilizzato e con infiltrazioni d’acqua persino sul cuscino. Lei se ne va, noi le paghiamo un geriatrico di lusso nei quartieri alti della Roma bene, dove alla radio trasmettono solo brani di musica classica e appena albeggia gli uccellini iniziano a cantare. Logico che Crispino, quella specie di pericolo pubblico, trascorra lunghi periodi a Ostia. Domenico saluta Marco, e se ne va. Nel suo ufficio. Torna alla sua scrivania accanto ai gabinetti, verifica di essere sempre senza niente da fare e viene a sapere che hanno promosso una collega culona. Brutta troia. ------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- 7. TORINO, DOVE MI SI FERMERÀ IL CUORE (Torino)
Il sole è già alto. Sono quasi le dieci di un giorno lavorativo e stantio, ma lì non sembra, tra tanto acciaio appena rasato, tanta porcellana da bidet e tante finestre panoramiche e pure ecologiche, perché accanto a ciascuna di esse hanno situato una colomba di plastica. Sta andando a Via Menabrea da Luca, il fratello che vive nel nuovo quartiere del Lingotto, quartiere di uffici così luccicanti e moderni che persino i pensieri osceni degli impiegati vengono registrati su un hard disk. Quartiere che rappresenta il moderno, icona di Torino, nel mondo, accanto all’immagine della Mole Antonelliana. Pessimo luogo per Simone Ferrero. Il sole gli procura il cancro alla pelle e i raggi catodici del computer gli fanno scoppiare la vescica. Entra in un caffè a via Nizza, di fronte a un nuovissimo hotel. A fianco dell'Auditorium "Gianni Agnelli", la principale struttura atta ad ospitare eventi concertistici a Torino. Nel bar ci sono quattro tavolini, un bancone con due clienti addormentati, uno scaffale con bottiglie di Barolo, di Caluso e di Canavese e una birra alla spina carissima, talmente cara che pare fatta con saliva di vescovo. Simone beve un sorso e sospira: “Che giornata”. “Ce ne sono state di peggiori. Lo sa pure tua moglie Teresa. A proposito, come sta?”. “Fortunatamente, non mi ha più rotto le scatole con quella vecchia storia. Si era messa in testa che avevo un’amante!”. “Una donna?”. “Sì, scherza pure….ma quante ne ha fatte passare…”. “Vada a fare in culo, la Teresa”. “Mi hai chiesto di lei, e io ti ho risposto nei limiti del possibile, Luca, in questa città dove i miei polmoni sono perforati dai tubi di scappamento e dove il sole cuoce ciò che resta delle mie mucose virili. Questa cosa mi disorienta, Luca, perché anche se sono vecchio, mi sento ancora giovane”. Entrano nel bar due commercianti dicendo che i caffè presi durante l’orario di lavoro dovrebbero essere detraibili dalle imposte; entrano poi due donne chiedendo un salario per le casalinghe. “E adesso cos’hai intenzione di fare, Simone?” “Di tornarmene a casa”. E aggiunge, mentre termina la sua birra: “Non mi rimane altro che aspettare un po’ e continuare a vivere così a modo mio. Sarà la mia rovina, ma credo di aver ormai vissuto abbastanza e di non dover fare più nulla. Solo aspettare. Aspettare la morte”. San Salvario, quartiere centrale di Torino, situato tra la stazione di Porta Nuova e il parco del Valentino, vibra e Simone ci si immerge con gioia. Ci sono case, soprattutto vicino a Corso Guglielmo Marconi. Entra a casa di Roberto, un suo amico. Vede le pareti, le piastrelle della vecchia cucina, gli scarabocchi disegnati dalla bimba in sala da pranzo, i segni del letto in cui la mamma e il papà ne fecero di tutti i colori. vede gli ancoraggi delle scale dei condomini, i buchi delle finestre che danno sul cortile. resta l’ombra di un mondo che è pieno di vita, di sacrificio, di peccato e di speranza. La casa ha anche qualcos’altro. Una lampada solidamente fissata a una trave, una lampada con lampadina da sessanta watt per illuminare scopate da anniversario e merende da funerale. Simone si passa il dorso della mano sulle labbra, e sente di averle secche. Gran puttaniere, il Roberto! Nella stanza da letto intravede una scarpa con il tacco, alto, sottile, di buona qualità. Di pelle, foderata, elegante. Una di quelle scarpe con i tacchi alti, ideali per le avventure erotiche, da fare indossare alla signora grassottella perché scali il materasso, e poi si dondoli sulle punte e mostri le sue bellezze prima di cadere di culo sul prepuzio di un giovane amante. Con delle scarpe simili, una donna fa meraviglie, si dice Simone. Preso il caffè, saluta Roberto. Torna a casa. Crocetta. Zona universitaria. Anche a quest’ora carica di ragazze dalle tette atomiche. Simone si rende conto con orrore che, nel vederle, non prova assolutamente nulla. Scende quasi di fronte a Corso Einaudi, disposto a tornare indietro e a fare un pezzetto a piedi per riordinare i pensieri. I marciapiedi di Corso Galileo Ferraris sono tranquilli, frequentati solo da ciclisti disperati che si allenano per dimagrire, colombi viaggiatori sfuggiti alla campagna vicino allo Stadio delle Alpi e corridori di jogging talmente sfiniti da pulirsi la maglietta con la lingua. Ciononostante, a Simone quest’ambiente ispira pace. Sta camminando al centro della strada del marciapiede quando a un tratto lo vede. Volto sfigurato. Occhi fuori dalle orbite. Mani tremanti. Colorito giallo da santo martire piemontese. Luciano quasi gli cade tra le braccia mentre geme: “Simone!”. Poco prima, Luciano non si trovava in quello stato. Poco prima, Luciano, in una inserzione del giornale aveva visto un annuncio della sezione “amicizie”: “Giovane studentessa non professionista, zona Precollina, alta classe, accetterebbe relazione o contatto con signore serio e benestante”. Roberto é serio, ma non benestante, anche se comunque ha avuto il coraggio di telefonarle, quasi chiedendole scusa. Abituato a tradire la sua fedele moglie (che fosse fedele lo immagina) con donne volgari dei quartieri pericolosi come Porta palazzo, Falchera, Vallette-Lucento e Barriera di Milano, che si prestano i clienti e le mutande, una ragazza di Precollina con le gambe abbronzate per le partite di tennis, le tettine da laboratorio e il culetto profumato alla lavanda lo ha fatto eiaculare al solo pensiero. L’unica cosa che l’ha spaventato é che il padre di lei possa scoprire, perché le bambine di Precollina hanno sempre un padre importante. Il prezzo non é modico, però Roberto, ormai lanciato, ha pensato che potrebbe chiedere un prestito. Se ne è andato così nella zona Precollina, o nei paraggi, perché la ragazza gli ha detto che non pecca nel suo quartiere. E’ una ragazza alta, rotondetta, con un viso, a guardarlo bene, di chi si dedica ai lavori pesanti: ma indossa delle scarpe basse, le calze corte e ha un libro. Una vera universitaria, ha infatti pensato Roberto. Sguardo pulito e affaticato dagli studi. Calzette corte. Un libro. Invece s’é sbagliato. L’ha invitato ad entrare nella sua auto. Roberto ha subito capito qualcosa, qualcosa che gli era rimasto sulla punta del naso: un odore speciale di denaro sporco, di sperma giovane, di profumo di lavanda e scoreggia di puttana. Appena entrato è stato subito picchiato da un amico della ragazza e derubato. Poi scaraventato fuori dall’auto che è subito ripartita di corsa. Allontanandosi, definitivamente. E’ qui che vede Simone avvicinarsi e gli corre incontro. Vanno dalla Polizia, dove vengono informati che si tratta di una nota coppia di ladri rumeni, ben nota alle forze dell’ordine. Simone vede le foto segnaletiche: Marcel e Roxana. Una rumena. Avrà trenta anni. Dietro di lei –pensa Simone- deve esserci un appartamento a Mirafiori pagato in contanti, un’auto comprata a rate, un grande amore che in realtà è un pappone, dei genitori in pensione che vanno a messa tutti i giorni e vivono a Mogosoaia. La Polizia gli avvisa anche che Roxana era andata per mesi a casa di un mutilato che doveva fare tutto su una sedia a rotelle, prima di derubarlo di tutto. Simone saluta uno sconcertato Roberto. In sostanza, pensa tornando a casa, è tutta colpa dell’intuito. Quello che non ha avuto Roberto. Altrimenti non sarebbe mai andato da Roxana. L’intuito è fondamentale per guadagnare, perché se aspiri a seguire metodi scientifici e a dimostrare tutto, appena l’hai dimostrato i soldi se li è già fregati qualcun altro. Forse è questa la ragione per cui quelli che non vengono mai promossi alla fine diventano più ricchi degli altri. Torino, pensa Simone. La mia città, dove mi si fermerà il cuore. E’ vero. -------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- 8. IL BANCHIERE DISONESTO (Genova)
“Maledizione, Calò. Mi piacerebbe sapere chi ha avuto la cazzo di idea di mandarla a pisciare a Genova”, dice il Prefetto. “Non mi ha mandato nessuno”, risponde Pantaleo Calò, Tenente dell’Arma dei Carabinieri della provincia di Lecce. Vuole dire che è venuto per conto proprio?”. “Sissignore”. “Pagandosi il viaggio?”. “Esatto, e senza sconti”. “Che sfiga. E il lavoro?”. “Ho chiesto qualche giorno di ferie. Comunque, non se ne saranno nemmeno accorti”. Il Prefetto guarda l’orologio. Forse ha un impegno improrogabile allo stadio comunale Luigi Ferraris. Domanda impaziente: “Bé, e allora?”. “Sono venuto a parlare con Oliviero Parodi, una persona orrenda e immorale. Un serpente di fogna. Un banchiere. Voglio accusarlo di riciclaggio a livello internazionale di denaro sporco derivante dai proventi della droga”. “Le prove, Calò. Ce l’ha?”. Pantaleo ringhia: “Riconosco di non averle ancora. Per questo motivo sono venuto a Genova”. “E non c’è il pericolo che mi accenni qualcos’altro, Calò? ” domanda il prefetto perplesso. “No” risponde Pantaleo, “non c’è questo pericolo. Rifletta, signor prefetto: ben poco di quello che le cosche ricavano da estorsioni, traffici di droga, manipolazione degli appalti resta nelle province della punta dello stivale. La Sacra Corona Unita e le 'ndrine calabre, ad esempio, quando si tratta di ripulire e d'investire, mettendo a valore il loro patrimonio illegale, si spostano verso il centro nord e verso il nord est, verso il litorale adriatico e verso il triangolo industriale: Genova, Gorizia, Arezzo, Udine, Imperia. E, nella mappa del denaro sporco, Genova risulta essere la prima per indice di riciclaggio”. Il Prefetto solleva un poco il capo per dire: “Calò non ci vuole certo la sua arroganza salentina per ricordarmi cos’è in fondo il riciclaggio. Non è altro che un reato che si commette quando su somme di denaro o su altri beni di origine illecita si compiono delle attività tali da ripulirli, impedendo così che l’autorità ne accerti la loro provenienza delittuosa, secondo l’ articolo 648-bis del nostro Codice Penale”. “Tutto questo è giusto, ma si sbaglia su una cosa fondamentale. L’ho già detto prima”. “Sì. E su cosa?”. “Che troverò le prove, per dio”. “Ma andiamo, Calò! Stia attento piuttosto a non commettere sbagli. Lei sta camminando su di un terreno minato. E non sa quanto. E ora la saluto, vado a tifare per i grifoni”. A quel punto il prefetto si alza. E’ alto, robusto, giovane. E’ furbo, insensibile, implacabile. E’ una roccia che si muove. Un vero prefetto di ferro. Pantaleo lo saluta e se ne va. Sulla strada pensa: é una visione spaventosa, allo stesso tempo provocante e macabra. Arriva in Viale Causa. L’edificio è incantevole. Pantaleo si fa subito un’idea degli appartamenti. Da un milione milioni di euro in su. Proprietari di multinazionali, banchieri reduci da fusioni, figli di papà, bambine appena sposate che per ogni scopata chiedono al marito una Ferrari. “Vaffanculo! Apri!”. Apre una signorina che a lui mostra le tette. Lo accompagna in un grande salone. Qui trova Oliviero Parodi che sta esaminando lunghe colonne di numeri su dei fogli che a Pantaleo appaiono terribilmente ostili e inutili, ma che in realtà rappresentano proprietà immobiliari, automobili, giri del mondo e donne disposte s tutto da offrire alla gente che conta. Oliviero Parodi, pensa Pantaleo, sei uno che conta, brutto figlio di puttana. “Chi si rivede” esclama un beffardo Oliviero Parodi, appena scorge il volto incazzato di Pantaleo. “Ho capito il tuo gioco”. “Spiegati Pantaleo. Ce n’è bisogno”. “E’ molto semplice. Dire che il business della droga muove migliaia di milioni è così noto che potrebbe far sbadigliare di noia un cardinale. Ma quelle migliaia di milioni non possono rimanere nello stesso posto dove si fanno gli affari, perché scottano. C’è bisogno di banche che li trasferiscano da un posto all’altro, li spostino, gli lavino la faccia fino a nobilitarli. Per questo motivo ci sono certi banchieri, come te Oliviero, che, malgrado facciano affari con scarso capitale palese, non fanno mai ricorso al mercato interbancario, e ciò significa che non rimangono mai allo scoperto. E le loro banche non fanno traffico di droga perché non ne hanno bisogno, ma il denaro passa comunque dalle loro mani. E questo spiega molte cose. Spiega, ad esempio, che non ci sono offerte per assorbirle, perché sono più ricche di chi vorrebbe assorbirle. Finanziano intere urbanizzazioni senza avere degli affari in corso, perché non ne hanno bisogno. Ma dove arriva il denaro? Non certo dall’elemosina per le missioni o per i bambini poveri. Arriva dal riciclaggio a livello internazionale di denaro sporco derivante dai proventi della droga. Però in questo paese mafioso, dove le conoscenze sono fondamentali, è inutile emettere ordini di arresto e cattura nei confronti dei banchieri che ripuliscono denaro proveniente dalla droga. Molti giudici non firmerebbero questi ordini di arresto per evitare difficoltà, e si laverebbero sempre le mani prima di grattarsi i coglioni. A meno che i controlli non vengano effettuati dal Ministero delle Finanze”. “Non riesco a seguirti del tutto, Pantaleo” replica Oliviero Parodi”spiegati in parole povere, senza troppi fronzoli”. “Ti accontento subito, Oliviero. Come tu ben sai, anche se fai lo gnorri, il riciclaggio non riguarda solo il denaro, ma anche altri valori, altre utilità. Si può commettere il reato sostituendo i soldi sporchi, provenienti quindi da un altro reato, con altre banconote oppure trasferendoli all’estero, nel tentativo di metterli al sicuro dalle indagini di polizia. Lo stesso può accadere con opere d’arte, o con altri beni. La norma non descrive nello specifico le attività che costituiscono riciclaggio, ma richiede espressamente che le condotte siano caratterizzate da un tipico effetto dissimulatorio: devono cioè risultare dirette in ogni caso ad ostacolare l'accertamento sull'origine delittuosa del denaro, dei beni o delle altre utilità di cui si tratta. Ovviamente, chi effettua quest’opera di ripulitura deve essere a conoscenza del fatto che le somme da lui gestite o i beni in suo possesso sono frutto di un reato, pur commesso da altri soggetti. “Forse il mondo non è più quello di una volta” risponde Oliviero Parodi con indifferenza, “e forse uno che ama divertirsi lo nota. Viviamo dentro un guscio protetti dal nostro denaro, forse perché le cose naturali non esistono più. E questo mi delude, lo sai Pantaleo? Mi delude il sole, che è cambiato. Ami il sole e la prima cosa che devi fare è metterti una crema per difenderti da lui. Ami l’acqua e la prima cosa che devi fare è filtrarla per difenderti da lei. Ami il mare dove nuotavi da bambino e te lo ritrovi pieno di lattine di birra e di assorbenti usati: la prima cosa che devi fare è prendere un aereo per cercare di trovare un mare pulito dove nessun bambino abbia mai nuotato, o meglio dove ai bambini sia vietato nuotare. Nella nostra gloriosa epoca dell’aids, ami una donna e la prima cosa che devi fare è metterti un preservativo per difenderti da lei e per difendere lei da te. Pantaleo, è ormai vicino il giorno in cui ameremo attraverso uno schermo che conterrà le posizioni della donna e un tubo catodico che conterrà il nostro seme, lo disinfetterà, e lo venderà ai laboratori del Ministero della Sanità. La gente non ci pensa, Pantaleo, ma io sì; io ho avuto l’opportunità di vivere in un mondo diverso. Capirai che a un gentiluomo di buone maniere come me, tutto ciò cominci a causare un’infinita noia”. Pantaleo lo guarda sorpreso. Non l’ha mai sentito parlare così. “Persino i figli sono cambiati” aggiunge Oliviero Parodi guardando nel vuoto. “Cosa?”. “Nulla. Anche i figli sono cambiati; voglio dire, che non c’é più classe”. Si alza in piedi. Sembra provato da quella conversazione, sembra provato da Pantaleo Calò, dal lusso dell’ufficio, della sera che sta morendo e persino dalle sue colonne di cifre. Anche pantaleo si alza. Va verso la porta, guardando il tappeto per non inciampare. Non è abituato a calpestare alcunché. “Non guardare troppo per terra” dice scherzosamente il banchiere. “Potresti avere un giramento di testa”. Uscendo dall’ufficio, stavolta non accorre per accompagnarlo nessuna segretaria supertette. Gli indica la strada invece un tizio pesante duecento chili, che ancora non s’è rasato. ”Ha ragione Oliviero” pensa Pantaleo”il mondo incomincia a essere proprio noioso”. Ha affittato per alcuni giorni una stanza singola in un appartamento condiviso in zona Foce, lato Fiera. Gestito da Pastorina, un signora novantenne. E triste. Ieri Poldo, il suo vecchio barboncino è morto alla veneranda età di diciotto anni. E lei è disperata. Pantaleo le accarezza i capelli bianchi maledicendo se stesso, perché l’ultima cosa che ha senso in questi momenti é trasformarsi in un uomo tenero. Pensa a Tiziana. Sua figlia Morta di epatite c. E alle lacrime di sua moglie. Dopo, hanno divorziato. Francesca lo ha accusato di essere stato un padre assente. E un pessimo marito. Nell’affitto sono comprese cose indispensabili: un bagno non troppo pulito e un cucinino con gli avanzi di una pizza di quelle che portano con lo scooter, anche se la trova talmente dura e fredda che sicuramente é arrivata in aereo la settimana prima. E molte confezioni di cibo precotto, cibo per astronauti, poveretti, tutto concentrato perché non possono nemmeno pisciare. Ci sono anche delle confezioni più grandi, con una carne fibrosa e strana, che pensa possa essere cibo adatto solo ai caimani. Pantaleo si sforza, ma mangia. Poi saluta Pastorina. Si sdraia sul suo letto di uomo virtuoso, con il membro flaccido e gli occhi bene aperti. Si accende un sigaro. Non ha ancora le prove, ma presto le troverà. Ne è sicuro. Se almeno sapesse che tipo di prove stia cercando! Cavolo, tutti hanno diritto a una speranza. Chiunque è in grado di pensare, se ha una speranza. Se non ce l’ha, non pensa. Che razza di pensieri: Oliviero Parodi non ha diritto a un’altra opportunità. E’ un essere disgustoso: certo, ha conoscenze altolocate, denaro, donne. Le tre cose sono collegate, ossia, le conoscenze e le donne dipendono dal denaro. Pantaleo, di umore sempre più nero, continua a pensare che il banchiere maledetto avrà dovuto mandare molta persone in rovina. Che nemmeno l’avranno potuto odiare: avranno avuto bisogno dei suoi favori, avranno dovuto trattarlo bene. Il riciclaggio dei soldi della droga ha sicuramente prodotto entrate immaginabili. Quanto alle donne, non avrà smesso mai di frequentarle. Pantaleo è livido. Lancia una specie di grugnito e il sigaro gli scivola dalle labbra, ma ha la prontezza sufficiente per riprenderlo al volo, prima di bruciare le lenzuola del letto. Poi schiaccia la punta del sigaro nel posacenere che ha appoggiato sul comodino con una rabbia concentrata e lenta. Con una meticolosità fredda. Poi si addormenta, sognando di cavare gli occhi a Parodi. -------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- 9. PECCATO ETERNO (Cagliari)
Cagliari. Città di cavalieri e principesse. Ennio Mereu passeggia tra monumenti, viuzze, vicoli, piazzette palazzi barocchi e dimore gentilizie. Incontra il diavolo Bogino, l'amore maledetto del re Martino d'Aragona e della bella di Sanluri, il carro della morte, la bambina senza testa. Ricorda le storie che gli raccontava nonno Solideo. Storie di omicidi e di disgrazie, di monache precipitate, della campana della giustizia, della peste e della Morte Nera, della Venerabile Regina Maria Cristina e della sua prematura scomparsa, del viceré del Bastione, dei Templari, della sala del Tormento, di via Ossario e della fossa comune degli appestati. Storie di gesta di fantasmi di epoche lontane, di storie di donne incappucciate e passaggi segreti, di marrani convertiti, di cavalieri cristiani e di saracini mussulmani. Prima, parlando con la dovuta decenza, si seguiva l’odore di fica. Ma adesso quell’odore le donne non lo emanano più, al suo posto sanno di onestissimo odore di banca. Il denaro ha una fragranza che attraversa paesi e continenti. Sonia Puddu. Abita vicino alla torre medievale dell'Elefante. Sonia è ben fatta. Non si nutre con zuppe di aspirina. Ennio volta lentamente la testa verso di lei. La guarda. Nei suoi occhi c’è il vuoto degli anni, dei corridoi percorsi, delle case abitate. C’è il vuoto delle cornici senza quadro, delle finestre davanti a un muro, delle vecchie radio di famiglia ormai mute. Negli occhi di Ennio c’è il vuoto di una vita senza senso, di una vita inutile cagliaritana. Peccato. Peccato eterno. -------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- 10. GRANDE AMORE. UNA STORIA BRESCIANA (Brescia)
Lei, Brescia. La leonessa d’Italia. Lui, Giuseppe. Giuseppe Ferrari, studente in Antichità Classiche e Orientali all’Università di Pavia. “Venerdì sul Monte Maddalena inizierà la Festa ecologica. E’ giunta alla trentanovesima edizione”. A fine agosto, quando Rita, sua sorella viene a prenderlo all’aeroporto, è la prima cosa che gli dice. “E sabato ci sarà la commedia in dialetto bresciano “Ghè riat él circo” portata in scena dalla compagnia teatrale “I Roncaì dè S. Vigilio”, gli fa mentre conduce l’auto fuori dal parcheggio dell’aeroporto. Indossa dei jeans tagliati corti, le infradito ed è abbronzato e in forma, ha un paio di occhiali da sole neri e i capelli biondi arruffati. Si è fatto crescere i capelli. Ascolta Vasco Rossi allo stereo della macchina, “…respiri piano per non far rumore ti addormenti di sera e ti risvegli col sole sei chiara come un'alba sei fresca come l'aria...”, e sente l’odore intenso del profumo di sua sorella, il caldo della macchina e la maglietta che gli si appiccica alla schiena quando si appoggia allo schienale, chiudendo gli occhi. “Ho sentito due persone che ne parlavano prima, al bar” dico io. “Saranno tre giornate molto intese di svago nella natura, ma con un fine solidaristico: il ricavato della festa sarà infatti devoluto al centro disabili “G. Tonini - G. Boninsegna” e al Movimento apostolico ciechi”. L’ultima volta che Giuseppe ha visto Brescia, più o meno due anni fa, era reduce da una scorpacciata di minestra sporca, accompagnata da uno spiedo con uccellini e mombolini. Intreccia le dita e guarda fuori dal finestrino. Sua sorella parla del tempo e dell’estate che sta finendo e delle vacanze, il viaggio a Londra che lei e Marco, il marito, faranno a ottobre, e di quali fiori ha comprato, e dei suoi vicini che non la smettono ami di usare il tagliaerba anche dopo le dieci di sera, del suo lavoro alla ditta di pulizie, dei turisti che presto arriveranno per l’importante mostra fotografica "Casa Pascoli" di Pino Mongiello, che si terrà nella Sala della Consultazione della Biblioteca Queriniana e del corteo di studenti che attraverserà la città tra qualche settimana. Sta zitta un momento e poi ricomincia a parlare del tempo. Lui passa il tempo pensando a Maria. Maria Zani. E’ tornato nella città natale dopo un viaggio in aereo che ha passato bevendo caffè con addosso gli occhiali da sole e adesso questo, che ci sarà la festa del monte Maddalena. “Come sta Marco?”. “Bene”. Attraversano la città e lui pensa che sembra identica a quando se ne è andato, ma nello stesso tempo non lo é. “E’ un po’ stanco, ovviamente. Hanno avuto molto da fare, al lavoro, credo. Ma per il resto va tutto bene”. Non sa esattamente come interpretare quello che lei dice, perciò non risponde. Subito dopo passano il centro sportivo dove andava a nuotare durante le ore di ginnastica al liceo Nicolò Copernico e chiude gli occhi perché l’edificio è così bianco al sole che lo acceca anche se ha gli occhiali. “Giuseppe. Capisco che sei stanco ma potresti anche toglierti gli occhiali da sole”. Non è una domanda. Per un istante il mondo gli oscilla davanti e non è sicuro di essere sveglio. Si toglie gli occhiali. Chiede alla sorella se ha più sentito Maria. “Ti saluta”, dice. Fa un tiro di sigaretta. Rita preme il pulsante per abbassare il finestrino e gli chiede di buttar fuori il mozzicone. L’aria che entra è calda e pesante. Quanta Brescia, fuori dal finestrino. Mentre sua sorella continua a guidare, riflette. Lui e papà Claudio a volte si mettevano in macchina e se ne andavano semplicemente attraverso Brescia, verso Corso Mameli e Via dei Musei fino ad arrivare al palazzo del Broletto, con Fausto Leali e la Premiata Forneria Marconi nello stereo. Suo padre indicava i luoghi della sua giovinezza, dove aveva conosciuto sua madre e dove giocava con la Atlantide Pallavolo Brescia, quale vie percorreva a piedi quando andava al suo primo posto di lavoro come conciatore in una fabbrica artigianale dei prodotti in pelle a Palazzolo sull'Oglio in via Golgi. Le prime nozioni su come funzionasse la vita. Lui, che dopo aver visto un film poliziesco al cinema Colonna, si era reso conto che un giorno anche lui sarebbe morto. Andava al cinema con sua sorella e suo padre, spesso vedeva film in cui i personaggi morivano, ma quella volta, avrà avuto dieci o undici anni, gli era stato chiaro che un giorno anche lui sarebbe scomparso. Era uscito dal cinema scioccato e depresso e aveva cominciato a pensarci e non crede di aver mai abbandonato quel pensiero. E’ quel tipo di pensiero che ti rimane impresso, suppone Giuseppe. Verso i tredici anni si era reso conto che anche i suoi genitori, Anna e Claudio, avevano paura della morte. Anna, sua madre, diceva che quella sensazione non sarebbe mai sparita, e poi era morta di cancro qualche mese dopo. Ha perso la sua verginità un paio di giorni dopo, a una festa. Lei si chiamava Francesca. Gli anni di scuola, il liceo, sono scivolati via. Morto anche papà Claudio, era rimasto solo con la sorella Rita, che intanto si era sposata con Marco, rimanendo nella casa paterna insieme al fratello. E poi, due anni fa, era andato all’università di Pavia. Rita e Marco seduti davanti al tavolo della cucina mentre raccontava che se ne sarebbe andato di casa, e sua sorella con la sua unica domanda. “E’ quello che vuoi fare davvero?”. “Sei sicuro di non voler lavorare, invece?” aveva detto suo cognato. Lui che l’aveva sentito parlare con sua sorella, più tardi quella sera. “Potrebbe studiare diritto, economia, fare l’ingegnere, o l’insegnante di educazione civica, magari. O di geografia. Sono materie importanti. Qualsiasi cazzo di cosa se proprio deve studiare. Che cosa diventerà studiando Archeologia?” “Un archeologo, suppongo”, aveva detto sua sorella. “Non pensare troppo, Giuseppe.”, , dice la sorella. “Ok”, risponde lui. Arrivano a casa. Rita lo saluta e va a lavorare. La casa è come l’ha lasciata due anni fa. L’unica differenza è che la sua TV, lo stereo e il vecchio computer sono di due anni più obsoleti. Si sdraia sul letto. Pensa a Maria. La sensazione delle sue unghie quando gli toccava l’addome. Il suo corpo che si tendeva come un arco prima di venirgli in bocca. Forse è per questo che si sente nervoso, adesso. Al diavolo l’orgoglio. Decide di chiamarla. “Dove sei?”, gli chiede una stupita Maria. “A Brescia. Sono a casa di mia sorella”. “Cosa cazzo c’è, Giuseppe. Mi sembri fatto”. Qualche anno fa, l’autunno dopo la maturità, lei aveva iniziato a studiare Economia e si era trasferita in un appartamento della zia, dalle parti del castello di Brescia vicino a casa dove viveva Giuseppe insieme a Rita e Marco. Né lui né Maria avevano avuto molte esperienze sessuali, o perlomeno esperienze da ricordare, prima d’allora. Giuseppe pensa che in parte tutto sia nato dal fatto che a loro due sembrava proibito e in parte che era bello fare l’amore nei segreti cunicoli del Castello, simbolo stesso della città. Il giorno in cui è partito sono stati la sorella e Maria ad accompagnarlo alla stazione e la frustrazione di averla così vicina e tuttavia non poterla toccare, non poterle dire addio, gli ha tolto tutta l’energia e ha dormito per la maggior parte del viaggio in treno. I giorni di due anni fa, quando stavano sdraiati vicino al Castello a parlare della cultura di massa, di politica, dei loro fratelli e genitori, della loro vita che era la stessa e tuttavia diversa, quei giorni sono quelli in cui è stato il più possibile vicino alla felicità. Lei è molto più sveglia di lui, sa articolare meglio, è più riflessiva, e questo gli piace. Parlavano di ecologia, di sociologia, di musica e lui pensava che stessero per diventare adulti, che fossero in procinto di scoprire nuova cose, nuove idee e prospettive. Maria è una delle rarissime persone con cui Giuseppe non vorrebbe mai smettere di parlare. Gli racconta che gli manca il suo profumo. Gli manca la sua bocca. Gli manca il suo viso. Gli manca lei. “Ok”, è l’unica reazione di Maria”. Ora lo so”. “Vieni da me, adesso. Ciao”. Ci vogliono trenta minuti prima che l’autobus parta. Dopo aver controllato il saldo del suo conto via internet, chiama un taxi. Non ce la fa ad aspettare, vuole solo andare da lei. La strada dove abita Maria è a senso unico. Il taxi lo ferma all’angolo. Durante il tragitto tra la fermata del taxi e la casa di Maria i suoi passi sono insolitamente pesanti. Qualcuno sta tagliando il prato anche se è sera tardi e il motore del tagliaerba sputacchia e tossisce. L’odore dell’erba si mischia al gas di scarico e in una casa a poca distanza da quella di Maria sente un uomo e una donna che litigano su dove uno dei due abbia messo il tagliasiepi. Quando arriva a casa, Maria ride. E’ una risata dolce, gorgogliante, come quella di un bambino quando gli si fa una smorfia. I suoi occhi blu, struccati e puliti. Ha il naso piccolo e leggermente asimmetrico perché una volta da piccola se l’è rotto. Se uno non lo sa, non lo nota. E’ irresistibile. Ed è nuda. Fanno l’amore sul pavimento e sul piccolo tavolo della cucina e poi sul divano. Con Maria intorno a lui, sotto di lui, sopra di lui è come se tutte le sensazioni legate ai ricordi e alle nostalgie scomparissero e niente lo potesse toccare. I folti capelli scuri gli cadono sul viso e lui si sente più sicuro. Poi, mentre lei giace a pancia in su accanto a lui, le tocca cautamente le labbra, segue i loro contorni, si accorgo di quanto gli sia mancata. Poi se ne va. --------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------
11) IL CANTO DI CORNIOLO. A SANTA SOFIA. +++++ Regione Emilia-Romagna. Provincia di Forlì-Cesena. Isola. Berleta Galeata. Valletta del Bidente delle Celle. Giogaia dell'Appennino. Monte Falco e Falterona. Comune di Santa Sofia. Berleta. Biserno. Cabelli. Calci. Camposonaldo. Monte Guidi. San Martino. Spinello. Lago. Tre Faggi. Parco nazionale delle Foreste Casentinesi. Giardino botanico di Valbonella Antico borgo di Fafforata: dal 1500 si chiama Corniolo, avendo ereditato questo nome dall'antico castello, la cui entrata è rivolta verso la Campigna. La frazione di Corniolo, antico feudo dei Conti Guidi, é avvolta nella nebbiolina, con un odore di funghi e tartufi che Vincenzo Fabbri, detto Cencio, conosce bene. Lui, vedovo di Antonella nonché farmacista in pensione, ha i propri orizzonti sessuali: questo sì, questo no. Supera l'hotel Leonardo. Percorre via della Madonna. Fiancheggia l’hotel Pini. Oltrepassa via della Foresta. Sorpassa Palazzo Michelacci. Ammira le piante in esposizione davanti al Ristorante da Gigino: bonsai incantevoli. Entra in un bar, vicino all’ufficio postale. Non ha più né studio né ufficio. Ora passa la maggior parte del suo tempo al bar. La sua giornata é generalmente spesa a ragionare, con gli amici, di argomenti vari, che spaziano dalla moralità dei politici italiani alla possibilità di unificare le religioni monoteiste, dal valore comparativo della presenza dell’imene nella donna e nell’elefantessa, agli errori tattici di Prandelli nella finale di Coppa Europea persa dall’Italia con la Spagna nella battaglia di Danzica. Si siede. Prende un caffè. Guarda il vuoto attraverso la finestra del vecchio bar. Quel vuoto è pieno di cose: la Chiesa di S. Pietro, dove si conservano un bassorilievo in ceramica della bottega di Giovanni della Robbia e la Deposizione di Ponteghini; l’Oratorio della Madonna delle Grazie; i ruderi del castello; il giardino botanico di Valbonella, realizzato dal Corpo Forestale; il borgo abbandonato di San Paolo in Alpe, completamente immerso nel Parco nazionale delle Foreste Casentinesi. Panorama splendido. Ma Cencio vede solo il vuoto, che è quello che resta nella vita dopo aver visto tutto. Si sente un po’ come Napoleone a Waterloo, con una sensazione di disastro imminente e la certezza di non poter contare sui rinforzi. Davanti a lui si siede Ferruccio Casadei, detto Feroc. Fuma il sigaro, nonostante dietro a lui sia affisso un manifesto che vieta di fumare dentro il bar. “Hai fatto la carriera dello scopino. Hai peggiorato la tua condizione sociale. Da farmacista a pensionato”. Cencio non risponde subito alla provocazione del suo amico. Resiste, con qualche difficoltà, combattuto tra l’imbarazzo, che lo sollecita a parlare, e il ricordo dell’insegnante di italiano che gli raccomanda: “Frasi brevi, e pochi incisi”. “Sbagli, Feroc. Ora io mi sento come certe donne strabiche, che con un occhio friggono il pesce e con l’altro guardano il gatto. Tengo infatti i piedi in due staffe: faccio il pensionato e il nonno”. “Ah, già. Tua figlia Antonia ti affida spesso il piccolo Domenico. Ma che fine l’altro tuo figlio, Pierangelo? E’ parecchio che non sui fa più vedere da queste parti”. “Ora vive a Forlì. E deve mandare soldi a una moglie separata che lo perseguita, e a due figli adolescenti che si vergognavano di lui. Te lo dico, tanto non è un segreto.”. “Cavolo, Cencio. Che brutta storia: del resto i segreti sono come le preoccupazioni, o sono tuoi o sono degli altri, cioè di tutti”. “E dire che lo avevo avvisato. Avevo detto a Pierangelo che la Susy non mi piaceva. E non piaceva nemmeno alla povera Antonella. Ma lui se l’è voluta sposare lo stesso. Fatti suoi: il Pierangelo ha mangiato le candele, deve cagare gli stoppini”. “Che muoia il lupo è la fortuna delle pecore”. “Feroc, la Susy è la tipica personcina che piange se vede morire i moscerini. Detto questo, detto tutto. Ed è pure una gran bugiarda”. “Le bugie sono dispari. O meglio, i bugiardi prediligono i numeri dispari”. “Feroc lo sai, no, che il proprietario dei libri e dei soldi e il padre dei bambini li conosce solo il diavolo”. “Cencio che vorresti dire con questo, che i figli non sono di Pierangelo?”, dice Feroc. “No, non proprio questo. Spero proprio che siano suoi. Del resto io sono il nonno. Volevo però dire che la Susy é sottile come la bava di un ragno. E’ astuta e subdola.” “Se si sta troppo alla propria destra si finisce nel fosso. Non bisogna dunque essere troppo ligi”, aggiunge Feroc. “Ora, Feroc, voglio confidarti un segreto. Però acqua in bocca! Non mi far pentire di dirtelo. Lo sai che le persone che possono mantenere un segreto sono dispari e inferiore a tre.” “Sì, lo so lo so Cencio: le persone che possono mantenere un segreto sono dispari e inferiore a tre. Però con me stai tranquilli: non dirò nulla a nessuno.”. “La Giulia, quella che si dava tante arie, s’è messa con Alfredo. Alfredo il matto.”. “Mamma mia! La maggior parte dei matti è fuori dai manicomi. E’ proprio vero Cencio che il coleottero vola, vola, poi finisce col posarsi su una merda. Come la Giulia che non faceva altro che respingere tutti i pretendenti finché, raggiunta una certa età s’è dovuta accontentare. Del resto molti, dopo aver aspirato a molto, finiscono con l’accontentarsi di poco.” “Bravo Feroc. E così che è successo. Se non rimediava Alfredo, rimaneva zitella!”, dice Cencio. “Cencio è proprio vero che o hai le uova, o hai i pulcini. Hai sempre qualcosa che ti manca, che non va. O sei bella, o sei zitella!”. “Certo, Feroc: e dire che si dava tante arie”. “Si dava delle arie. Tantissime arie. Prima. E ora sta con Alfredo: la giustizia divina!”, aggiunge Feroc. “E’ stata quello che non è più”. “Cencio, se vuoi proprio un cosa, fattela da solo, come diceva mio nonno. E Giulia, la vamp, che si accontenta di Alfredo, il matto è una soddisfazione grossa per me. Non c’è prezzo abbastanza alto per una soddisfazione”. “La Giulia ha davvero raschiato il fondo del barile, caro Feroc”. “Brutta cosa, la vecchiaia”, dice Feroc. “Più siamo e più sembriamo. L’unione fa la forza”, precisa Cencio. “Tutto si accomoda, tranne l’osso del collo”. “E dire che alla Giulia sembrava che le desse fastidio persino il vento dell’arcolaio. E’ cagionevole di salute”. “”O scotta, o brucia. Fa comunque sempre male”, dice Feroc. “Siamo arrivati alla fine del campo. Alla resa dei conti”. “E ora ci tocca ballare. Ora che siamo vecchi ci serve più la salute che il denaro”, conclude Feroc. E lascia sul posacenere il sigaro quasi completamente consumato. “ Anche io” brontola Stefano “non amo particolarmente il denaro. Il mondo è di chi sa approfittare delle opportunità. Io, no. Del resto non ho mai avuto molte spese.” . Uscendo dal bar, indicano la strada del Parco nazionale di Campigna a un tizio alto due metri e pesante duecento, che ancora non s’era rasato. Canticchiando, tornano a casa. -------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- Mario Pulimanti
(Lido di Ostia –Roma)

sabato 27 ottobre 2012

Albertazzi al Manfredi

Che serata, ieri sera! Il maestro Giorgio Albertazzi è stato protagonista sul palco del Teatro Nino Manfredi di Ostia omaggiando, con la sua interpretazione Giacomo Puccini, il grande compositore d'origine toscana, conosciuto anche per una vita sentimentale sopra le righe. l mix di teatro e musicasi è giocato sul continuo mutamento di prospettive tra Giorgio (Albertazzi) e Giacomo (Puccini). L'ottantanovenne Albertazzi, sotto la regia di Giovanni De Feudis, si é fatto spazio tra le note, senza però che allo spettatore sia stato dato modo di discernere immediatamente se in quel momento stesse parlando il soggetto reale o quello storico. E' l’amore per la parola che avvicina i due toscani, che si alternano sulla scena con il volto di un unico attore. Ora Albertazzi è la voce narrante, o semplicemente se stesso; tra un minuto sarà Puccini, il maestro. Tutto è credibile nella finzione dell’arte, che, come ci ricorda, “…è più vera del vero: perché l’arte è rappresentazione…”. “L’arte e l’amore” è, infatti, il titolo dello spettacolo: non si sa dove finisca l’uno e inizi l’altro. Anzi, è proprio nella sovrapposizione e nell’arricchimento reciproco dei due piani la chiave interpretativa del racconto. Emy Bergamo regala allo spettatore un bellissimo nudo di scena, facendo così in modo che inizino a delinearsi le passioni di Puccini, arginate dai raffinati scambi epistolari intrattenuti con la londinese Sybil Seligman, mentre la tranquilla vita a Torre del Lago viene sconvolta dal dramma del suicidio di Doria Manfredi. Gli anni passano, la salute comincia a vacillare e c'è una Turandot in attesa di finale. "Vissi d'arte", "E lucevan le stelle", "Che gelida manina" sono costellazioni di un successo planetario, mentre la tragica morte di Butterfly viene ridotta ad una sinottica pugnalata. "La ragazza del West" è solo una nota biografica. Ottima la prova del tenore Jeon Sangyong e dei soprani Fabiola Trivella e Maria Carfora, che hanno ripercorso l’intera produzione pucciniana, da Bohéme a Tosca, dalla Manon Lescaut al Gianni Schicchi e alla Turandot. Albertazzi affida la conclusione della vicenda umana di Giacomo Puccini alle parole di un altro maestro, Arturo Toscanini, che la sera prima della rappresentazione interrompe l’esecuzione della Turandot sull’ultima nota della partitura originale pucciniana, alza gli occhi all’orchestra ed esclama: “Qui, il maestro, è morto”. Teatro con la T maiuscola. Complimenti al direttore artistico Felice Della Corte, che anche quest' anno ha preparato per gli spettatori del teatro Manfredi un cartellone incredibile, tra i migliori del panorama teatrale nazionale. E complimenti anche a Paolo Bizzarri, socio-amministratore del teatro e organizzatore degli eventi ed al presidente Luciano Colantoni. Albertazzi sarà in scena al teatro Manfredi fino a domenica 4 novembre: chi ancora non ha visto questo stupendo spettacolo corra a vederlo, e chi l'ha già visto corra a rivederlo: un consiglio a tutti quanti da parte di Mario Pulimanti!

lunedì 22 ottobre 2012

IL CANTO DI CORNIOLO. A SANTA SOFIA.

IL CANTO DI CORNIOLO. A SANTA SOFIA Regione Emilia-Romagna. Provincia di Forlì-Cesena. Isola. Berleta Galeata. Valletta del Bidente delle Celle. Giogaia dell'Appennino. Monte Falco e Falterona. Comune di Santa Sofia. Berleta. Biserno. Cabelli. Calci. Camposonaldo. Monte Guidi. San Martino. Spinello. Lago. Tre Faggi. Parco nazionale delle Foreste Casentinesi. Giardino botanico di Valbonella Antico borgo di Fafforata: dal 1500 si chiama Corniolo, avendo ereditato questo nome dall'antico castello, la cui entrata è rivolta verso la Campigna. La frazione di Corniolo, antico feudo dei Conti Guidi, é avvolta nella nebbiolina, con un odore di funghi e tartufi che Vincenzo Fabbri, detto Cencio, conosce bene. Lui, vedovo di Antonella nonché farmacista in pensione, ha i propri orizzonti sessuali: questo sì, questo no. Supera l'hotel Leonardo. Percorre via della Madonna. Fiancheggia l’hotel Pini. Oltrepassa via della Foresta. Sorpassa Palazzo Michelacci. Ammira le piante in esposizione davanti al Ristorante da Gigino: bonsai incantevoli. Entra in un bar, vicino all’ufficio postale. Non ha più né studio né ufficio. Ora passa la maggior parte del suo tempo al bar. La sua giornata é generalmente spesa a ragionare, con gli amici, di argomenti vari, che spaziano dalla moralità dei politici italiani alla possibilità di unificare le religioni monoteiste, dal valore comparativo della presenza dell’imene nella donna e nell’elefantessa, agli errori tattici di Prandelli nella finale di Coppa Europea persa dall’Italia con la Spagna nella battaglia di Danzica. Si siede. Prende un caffè. Guarda il vuoto attraverso la finestra del vecchio bar. Quel vuoto è pieno di cose: la Chiesa di S. Pietro, dove si conservano un bassorilievo in ceramica della bottega di Giovanni della Robbia e la Deposizione di Ponteghini; l’Oratorio della Madonna delle Grazie; i ruderi del castello; il giardino botanico di Valbonella, realizzato dal Corpo Forestale; il borgo abbandonato di San Paolo in Alpe, completamente immerso nel Parco nazionale delle Foreste Casentinesi. Panorama splendido. Ma Cencio vede solo il vuoto, che è quello che resta nella vita dopo aver visto tutto. Si sente un po’ come Napoleone a Waterloo, con una sensazione di disastro imminente e la certezza di non poter contare sui rinforzi. Davanti a lui si siede Ferruccio Casadei, detto Feroc. Fuma il sigaro, nonostante dietro a lui sia affisso un manifesto che vieta di fumare dentro il bar. “Hai fatto la carriera dello scopino. Hai peggiorato la tua condizione sociale. Da farmacista a pensionato”. Cencio non risponde subito alla provocazione del suo amico. Resiste, con qualche difficoltà, combattuto tra l’imbarazzo, che lo sollecita a parlare, e il ricordo dell’insegnante di italiano che gli raccomanda: “Frasi brevi, e pochi incisi”. “Sbagli, Feroc. Ora io mi sento come certe donne strabiche, che con un occhio friggono il pesce e con l’altro guardano il gatto. Tengo infatti i piedi in due staffe: faccio il pensionato e il nonno”. “Ah, già. Tua figlia Antonia ti affida spesso il piccolo Domenico. Ma che fine l’altro tuo figlio, Pierangelo? E’ parecchio che non sui fa più vedere da queste parti”. “Ora vive a Forlì. E deve mandare soldi a una moglie separata che lo perseguita, e a due figli adolescenti che si vergognavano di lui. Te lo dico, tanto non è un segreto.”. “Cavolo, Cencio. Che brutta storia: del resto i segreti sono come le preoccupazioni, o sono tuoi o sono degli altri, cioè di tutti”. “E dire che lo avevo avvisato. Avevo detto a Pierangelo che la Susy non mi piaceva. E non piaceva nemmeno alla povera Antonella. Ma lui se l’è voluta sposare lo stesso. Fatti suoi: il Pierangelo ha mangiato le candele, deve cagare gli stoppini”. “Che muoia il lupo è la fortuna delle pecore”. “Feroc, la Susy è la tipica personcina che piange se vede morire i moscerini. Detto questo, detto tutto. Ed è pure una gran bugiarda”. “Le bugie sono dispari. O meglio, i bugiardi prediligono i numeri dispari”. “Feroc lo sai, no, che il proprietario dei libri e dei soldi e il padre dei bambini li conosce solo il diavolo”. “Cencio che vorresti dire con questo, che i figli non sono di Pierangelo?”, dice Feroc. “No, non proprio questo. Spero proprio che siano suoi. Del resto io sono il nonno. Volevo però dire che la Susy é sottile come la bava di un ragno. E’ astuta e subdola.” “Se si sta troppo alla propria destra si finisce nel fosso. Non bisogna dunque essere troppo ligi”, aggiunge Feroc. “Ora, Feroc, voglio confidarti un segreto. Però acqua in bocca! Non mi far pentire di dirtelo. Lo sai che le persone che possono mantenere un segreto sono dispari e inferiore a tre.” “Sì, lo so lo so Cencio: le persone che possono mantenere un segreto sono dispari e inferiore a tre. Però con me stai tranquilli: non dirò nulla a nessuno.”. “La Giulia, quella che si dava tante arie, s’è messa con Alfredo. Alfredo il matto.”. “Mamma mia! La maggior parte dei matti è fuori dai manicomi. E’ proprio vero Cencio che il coleottero vola, vola, poi finisce col posarsi su una merda. Come la Giulia che non faceva altro che respingere tutti i pretendenti finché, raggiunta una certa età s’è dovuta accontentare. Del resto molti, dopo aver aspirato a molto, finiscono con l’accontentarsi di poco.” “Bravo Feroc. E così che è successo. Se non rimediava Alfredo, rimaneva zitella!”, dice Cencio. “Cencio è proprio vero che o hai le uova, o hai i pulcini. Hai sempre qualcosa che ti manca, che non va. O sei bella, o sei zitella!”. “Certo, Feroc: e dire che si dava tante arie”. “Si dava delle arie. Tantissime arie. Prima. E ora sta con Alfredo: la giustizia divina!”, aggiunge Feroc. “E’ stata quello che non è più”. “Cencio, se vuoi proprio un cosa, fattela da solo, come diceva mio nonno. E Giulia, la vamp, che si accontenta di Alfredo, il matto è una soddisfazione grossa per me. Non c’è prezzo abbastanza alto per una soddisfazione”. “La Giulia ha davvero raschiato il fondo del barile, caro Feroc”. “Brutta cosa, la vecchiaia”, dice Feroc. “Più siamo e più sembriamo. L’unione fa la forza”, precisa Cencio. “Tutto si accomoda, tranne l’osso del collo”. “E dire che alla Giulia sembrava che le desse fastidio persino il vento dell’arcolaio. E’ cagionevole di salute”. “”O scotta, o brucia. Fa comunque sempre male”, dice Feroc. “Siamo arrivati alla fine del campo. Alla resa dei conti”. “E ora ci tocca ballare. Ora che siamo vecchi ci serve più la salute che il denaro”, conclude Feroc. E lascia sul posacenere il sigaro quasi completamente consumato. “ Anche io” brontola Stefano “non amo particolarmente il denaro. Il mondo è di chi sa approfittare delle opportunità. Io, no. Del resto non ho mai avuto molte spese.” . Uscendo dal bar, indicano la strada del Parco nazionale di Campigna a un tizio alto due metri e pesante duecento, che ancora non s’era rasato. Canticchiando, tornano a casa. Mario Pulimanti (Lido di Ostia –Roma)

Renzi, il sindaco rottamatore

Renzi, il sindaco rottamatore Il consenso nei confronti di Renzi è in costante crescita. Uno dei punti forti su cui si basa la visione del futuro per l'Italia dell'attuale sindaco di Firenze è quello della crescita. Anche l'edilizia è inclusa e Renzi ha le idee chiare: basta costruire case su case e opere faraoniche, occorre migliorare le città, le scuole e razionalizzare le infrastrutture. Il consenso a Renzi esprime una forte insofferenza non tanto e non solo verso la carta d’identità di Massimo D’Alema o di Rosi Bindi, ma verso la cultura e l’esperienza politica che loro, più di altri, indipendentemente dall’età e dal numero di legislature, rappresentano. E sottovalutare il sindaco rottamatore sarebbe un grave errore. Mario Pulimanti (Lido di Ostia –Roma)

giovedì 18 ottobre 2012

Gabriele e Alessandro

GABRIELE & ALESSANDRO
Gabriele, il mio primogenito, è nato a Roma, all'Ospedale San Giacomo, alle 20 e 30 di sabato 18 ottobre 1986. Mentre nasceva, la TV stava trasmettendo la sigla di apertura della trasmissione”Fantastico 7” con Pippo Baudo, Lorella Cuccarini, Alessandra Martines, il Trio Lopez-Marchesini-Solenghi e Nino Frassica. La sigla era “Tutto matto” cantata da Lorella Cuccarini. Alessandro, il mio secondogenito, è nato a Ostia, all'Ospedale Grassi, alle 4 del mattino di mercoledì 9 novembre 1994. Mentre nasceva, la radio stava trasmettendo lo splendido brano di Willie Nelson "Georgia in my mind". Mario Pulimanti (Lido di Ostia –Roma)

martedì 16 ottobre 2012

PER DIRTI CIAO

PER DIRTI CIAO
Ernesta Aloisi. Moglie di Antonio Valeriano Pulimanti, poeta collevecchiano. Ah. Ok. Madre di Antonella. Madre di Stefano. E madre mia. E’ morta domenica 29 luglio, all'Ospedale San Camillo di Roma. Alle diciotto e trenta di un triste pomeriggio. Il rito funebre è stato celebrato a Testaccio, nella Chiesa di Santa Maria Liberatrice. Il feretro, al termine del funerale, è stato portato al cimitero storico di Collevecchio, in provincia di Rieti. Qui mamma è stata seppellita a mezzogiorno del secondo giorno di agosto. Mi chiedo se sento qualcosa, sollievo, rabbia. Non credo. Provo solo dolore. Questo tipo di cose ti divora dall’interno. Sono passati due mesi. Oggi mi trovo a Testaccio con Antonella e Stefano. Ad un bar, sotto casa loro. Durante il caffè e le conversazioni su argomenti leggeri, ciò che è accaduto a mamma è presente, ma nessuno di noi la menziona a voce alta. Forse è bello non parlare delle circostanze che hanno portato alla morte di qualcuno, ma parlare delle cose belle, dei ricordi e di ciò che ci mancherà, ma la verità su mamma, su tutti noi, cresce dentro di me. Dentro di noi. So cosa vuol dire. Abbiamo mai avuto dubbi? Portarla al San Camillo é stata la cosa giusta da fare? Certe cose fanno male. Fa male la morte di chi si ama. E’ qualcosa a cui non si smette mai di pensare. E’ stata una brava mamma. Sì. E’ vero. Torno a casa. A Ostia. Ora sono seduto su una panchina del Pontile, terrorizzato dallo scorrere del tempo, dagli istinti. Dal fatto di non avere il controllo di essi. Da ogni piccola scheggia di tempo, la trasformazione di un infinito numero di cellule. Dall’aria che cambia, il mare di fronte a me che è la stesso ma nello stesso tempo non lo è, da mio fratello Stefano che è invecchiato, io che sono invecchiato, impercettibilmente ma inevitabilmente invecchiato, e dal fatto che, in qualsiasi momento, può crollarmi qualcosa in testa dall’alto, e distruggermi. La verità può arrivare tramite un dettaglio, il tempo delle rivelazioni può arrivare e cogliermi impreparato, di sorpresa. Non appena mi sono assicurato che tutto è a posto, che ho io il controllo, questa sensazione lascia il posto a una nuova scheggia, anch’essa insicura, fugace, pericolosa, e come si fa a vivere una vita che appare così effimera, così temporanea? E costantemente quella sensazione di solitudine, nonostante la famiglia, la condivisione. Simonetta, mia moglie. Gabriele, mio figlio. Tra poco ventiseienne. Alessandro, l’altro mio figlio. Quasi diciottenne. Loro sembrano pensare che quello che è successo non abbia toccato solo me, ma anche loro, forse nel tentativo di alleggerirmi il peso. La morte di mamma, quella perdita che conosco solo io e nessun altro, colora tutti i miei giorni, a parte qualche breve, quasi euforico, istante di oblio. Ed è di nuovo qui, come un peso. E’ come se mi avessero diagnosticato una malattia mortale e io tenessi la diagnosi per me, perché non ce la farei a sopportare le espressioni dei loro visi se lo dicessi. Certo, lo ripeto, dal 29 luglio la mia famiglia mi sta vicino. Questo mi trasmette una strana sensazione di sicurezza, di innocenza, ma le notti sono terribili. Mi sveglio con il cuore che batte talmente forte che ho paura che stia per fermarsi, che non ce la faccio più, che morirò. Sì, spesso la notte mi sveglio senza fiato. Mi alzo e mi siedo davanti alla tivvù, tiro fuori il vecchio videoregistratore dall’armadio e cerco i filmati registrati dai miei genitori quando eravamo piccoli. Tengo il volume basso e la luce spenta. Mia madre e mio padre si passano la telecamera, e la famiglia fa cose da tipica famiglia. Filmano me e Stefano che giochiamo con il pallone. Io e Antonella che corriamo al Parco della Rimembranza di Collevecchio. Io e mio padre che giochiamo a ping-pong, mentre mio fratello impara a camminare. Mia madre che fa un filmino di prova con mio padre, hanno appena comprato la videocamera. Cinquant’anni fa. Sembra così giovane, assomiglia a me. E io cerco qualcosa, un filo conduttore o un dettaglio nella mia storia, che possa spiegare ciò che è successo, perché è andata così, ma niente. Non trovo niente. Niente che possa giustificare la morte di una madre. Ciò che mi fa paura è il silenzio. Non poterle più parlare. Vorrei avere almeno un attimo, mamma, anche solo per dirti ciao. Comincia a piovere. Mmh..sarà Cleopatra, l'ondata di maltempo che sta imperversando per l’Italia in questi giorni? L’autunno non è ancora arrivato ma arriverà inevitabile come dopo tutte le estati. Me ne vado presto dal Pontile, per camminare nella pioggia verso casa. Tengo l’ombrello in mano, non lo apro, non ne vedo il motivo. La morte di mamma mi fa ancora male. Credo di essere un po’ depresso. A volte mi viene da piangere nelle situazioni più strane, e vorrei essere in cattiva salute, vorrei stare per morire. Forse domani, forse non prima di altri cinquant’anni, ma prima o poi il mio corpo cambierà direzione, inizierà l’atterraggio. A parte qualche mal di testa e il fatto che sono ancora un po’ sovrappeso, fisicamente sto bene. Non mi sto spellando in maniera preoccupante, non mi sento raschiare quando respiro, i miei organi interni, il fegato, i reni, tutti eseguono le loro funzioni biologiche come dei bravi lavoratori obbedienti. Mi sembra uno spreco. Non finirò mai di ringraziare i miei genitori, che mi hanno insegnato fin da piccolo l’importanza di poter essere ciò che si è e di trattare gli altri con rispetto e dignità. Sono stati fantastici. Comunque, appena mi muovo un po' ho subito il fiatone. Cavolo, inizio a invecchiare. Mario Pulimanti (Lido di Ostia –Roma)