giovedì 30 agosto 2012

SONO UN UOMO SENZA QUALITA’

SONO UN UOMO SENZA QUALITA’
Mi chiamo Mario. Mario Pulimanti. Sono di Ostia. E sono un uomo senza qualità. Però ho molti amici. Ne vado a trovare uno, Federico. Abita in via Domenico Baffigo. Zona Ostia ponente. Uscito di casa mi reco prima alla succursale della Banca Antonveneta, situata lì vicino, e mi soffermo come tutte le settimane davanti al tabellone su cui sono esposte le quote della Borsa del giorno, qualsiasi sia, perché ogni settimana compaiono sempre le stesse. Questo, secondo me, presagisce tre cose: il tracollo della Borsa, la caduta del Governo Monti o la morte dell’impiegato che si occupa del tabellone. Ciononostante, prendo nota con la massima cura e mi soffermo a riflettere neanche dovessi fare un importante investimento. Infine mi dirigo a passi brevi verso la zona del porto, dove abita il mio amico. L’ambiente così variegato mi stordisce più del solito. Ci sono curiosi, gente a passeggio, barbieri disoccupati, promotori finanziari che frugano nei cestini dei rifiuti e persino qualche puttanella che arriva, piena di legittima speranza, dalla periferia di Acilia. Ci sono anche naturalmente, turisti giapponesi, a dimostrazione che Ostia ha un avvenire. Disturbato da tanta confusione sento quel che sento sempre in questa zona: che inizia a perdere pezzetti di me. Penso di scendere fino a Viale del Sommergibile, dove i marciapiedi sono ampi e permettono di osservare la gente, ma sono spaventato dalla folla che posso trovare in questo centro del mondo, sicché mi infilo nel solito bar e chiedo un caffè ristretto. E’ un bar molto piccolo, appena un segmento della portineria dell’immobile. Bevo il mio caffè, commento con il proprietario gli interessi bassissimi del denaro investito in obbligazioni e esco per comprare il quotidiano in un’edicola che occupa una parte della portineria di un altro condominio. L’acquisto del giornale è un atto rituale, non esente da spirito utilitaristico, poiché senza il giornale non potrei leggere le ultime notizie di cronaca e di calcio, nonché gli spettacoli di Cineland e del Manfredi. Questa mattina, dopo un percorso pieno di desolazione, di delusioni e di sfiducia, giungo in Via Marino Fasan. Lì ci sono due grandi zone: quella inferiore, del parcheggio, in cui dormono le auto; e quella superiore, delle panchine della piazza, in cui dormono i pensionati. I pensionati non hanno nulla da fare tranne alimentare la speranza segreta che muoia prima il tizio seduto di fianco. Il mio amico abita nella zona più centrale di Nuova Ostia, in un palazzo super sfruttato facente parte delle case ex-Armellini, costruite con pessimo materiale e da sempre note per questa caratteristica in cui ci sono due pensioni, lo studio di un dentista, lo studio di un amministratore, quello di un avvocato, il tempio di una lettrice di tarocchi, una casa di appuntamenti, l’atelier di un sarto di paramenti sacri e lo scantinato del veggente Morgan. Il piano terra, anch’esso ampiamente utilizzato, lo occupano un orologiaio, una caffetteria, un bingo, un ufficio di collocamento e un gioielliere confidente dei Carabinieri. La porta è semi aperta. Busso. Nessuna risposta. Timidamente, entro nella casa dove Federico vive con la giovanissima e splendida seconda moglie ucraina. Vedo spuntare da un lato del letto un paio di gambe snelle e lunghe, un pezzetto di gonna dai colori sgargianti, il rettangolo di un pube nudo e un paio di mutandine buttate sul comodino. Le due gambe di donna si dirigono verso di me: lunghe, sensuali, carnose. Al di sopra delle gambe, c’è qualcos’altro: un volto ovale scuro, tostato dal sole e avvolto in una capigliatura bionda. La proprietaria delle gambe e del volto si presenta: dice di chiamarsi Valiusha, moglie di Federico. Lui non c’é. Gli ha telefonato la sorella per un motivo urgente ed è dovuto andare subito da lei, a Collevecchio. Valiusha é pettinata all’ucraina: una superficie liscia e severa raccolta in uno chignon, come quello delle dame vittoriane. Non deve superare i trenta anni. E’ seminuda. Indossa una finissima camicia da notte, ma solo fino al pube: sotto l’orlo spuntano le pieghe dell’inguine, insinuatrici di cellulite e di altre sostanze poco raccomandabili. L’ho sorpresa in pieno sonno. Chiede se voglio un caffè, retrocedendo di un passo. Le dico che vado di fretta. Lei si appoggia di schiena alla parete, ansima, piega una gamba nuda, mostra la curva del culo nudo, esibisce i danni che ha lasciato la buona tavola. Mentre mi saluta, per un attimo mostra inavvertitamente il suo culo di marzapane e il suo pube di seta. Esco, avendo ancora negli occhi la sua retroguardia lunare, la vita stretta e giovane e le gambe, sicuramente guardate di sottecchi da eserciti di uomini, assessori e preti. Valiusha, complimenti: un culo perfetto e abbondante è un miracolo. Solo una donna su cento ce l’ha. Sono di nuovo in strada. Nuova Ostia: un mondo pieno di vita, di sacrificio, di peccato e di speranza. Intorno a me, turisti pidocchiosi, poeti in vendita al miglior offerente, sindacalisti intenti a redigere un manifesto in cui chiedono la giornata lavorativa di due ore. Qui circoli culturali e sezioni politiche coesistono fianco a fianco con i negozietti a gestione familiare in cui si possono cambiare assegni,pagare bollette e comprare parrucche, artigianato africano, liquori e mobilio vario. Molti degli edifici più vecchi sono deserti e parecchi sono recintati o sigillati da porte metalliche coperte di graffiti. Dietro le strade più affollate, elettrodomestici a pezzi aspettano che qualcuno venga a razziarli e la spazzatura si ammonticchia agli angoli delle case e davanti ai marciapiedi. Erbacce e giardini di fortuna invadono i lotti abbandonati. Le affissioni reclamizzano gli spettacoli dei teatri di Ostia, il Pegaso, il Fara Nume, Affabulazione, il Dafne, il Teatro del Lido, ma anche il più importante Teatro Nino Manfredi, mentre centinaia di manifestini coprono pareti e staccionate, annunciando spettacoli e show di qualche compagnia locale di attori semisconosciuti. Tornando indietro, verso Via della Corazzata, lo scenario cambia: gli edifici deserti sono stati abbattuti o ristrutturati, i cartelloni fuori dai cantieri mostrano quali residenze idilliache presto rimpiazzeranno le costruzioni preesistenti. Difatti la zona appena limitrofa a Corso Duca di Genova è bella e alberata, con marciapiedi puliti. Le file di vecchi edifici sono in buone condizioni. Prima di arrivare sotto il mio portone c’è un palazzo di arenaria, con la facciata ricca di decorazioni scolpite nella pietra ed il ferro battuto di un nero lucente sotto il sole della tarda mattinata. E più avanti due splendide palazzine risalenti agli anni sessanta. Mi fermo vicino a quella di destra, davanti alla fermata dello 01. Ecco, questa è casa mia. Cavolo. Mario Pulimanti (Lido, di Ostia –Roma)

UN GIORNO QUESTO DOLORE TI SARA’ UTILE

UN GIORNO QUESTO DOLORE TI SARA’ UTILE
Disperazione. Attesa. Orrore. Morte. Fuga. Riscatto. Ho partecipato a troppi funerali. Non c’è giorno in cui non mi chieda perché io vivo mentre altri giacciono in qualche tomba dimenticata di questo mondo malato. E’ stato allora che l’ho conosciuta. Al bar “Magnanti”. Quello di Gioacchino. Mi ha raccontato una storia. La sua. Lei, Tanya. Una dea, leggiadra come una rosa. Lui, Fabio. Il marito. Un uomo senza scrupoli. L’amante di lei, Aldo. Consulente finanziario. L’uomo più fascinoso di Firenze, bello, ricco, atletico, seducente. Fabio prima sfigura Tanya, con acido solforico. Poi uccide Aldo con due colpi di pistola. La mia prima reazione è di mordermi le labbra. “E’ orribile, Tanya, orribile!” gemo, incrinando la voce. “Ha le mani sporche di sangue, tuo marito!” Un assassino, le cui azioni non possono che suscitare orrore in chiunque abbia un minimo di rettitudine e di coscienza. Un uomo le cui mani grondano sangue. “Un Killer dello Zodiaco!” taglio corto, mentre mi chiedo perché sto parlando in quel modo a lei, ex moglie sfigurata di un assassino. “Credi di cavartela con qualche battuta disinvolta, Mario?” brontola Tanya. “No, no, un momento!” faccio io, per nulla stupito. Dunque, vediamo: i rei possono forse sfuggire alla giustizia degli uomini, ma le Erinni, Dee dell’ira, della cieca collera e dell’atroce rimorso, li inseguirebbero ovunque per rodere loro il cuore, scatenando i neri mostri Terrore, Rabbia e Pallore affinché li braccassero senza speranza di rifugio, né in terra, né in cielo. “Andiamo già meglio” mormora Tanya con un filo di voce. “Un giorno questo dolore ti sara’ utile” le dico. “Non è vero!” grida Tanya. “Oh, sì che lo è!” sospiro. “Del resto io sono tutt’altro che invulnerabile! Lungi dall’essere un Dio, sono un semplice uomo avvezzo a sbagliarmi, e quindi abituato a trarre profitto dagli errori.” “Che intendi dire?” mi risponde, fissandomi con sguardo sgomento. “Questo: tu ora sei una donna separata. Una dama riverita, onorata e soprattutto abbiente: troverai di sicuro un marito con la dote cospicua che hai, rappresentata dalla tua bellezza e simpatia, regnerai su una grande casa, alleverai una nidiata di figli, comanderai uno stuolo di ancelle, nelle feste prescritte ti recherai in lettiga al tempio dei Cavalieri di Malta all’Aventino, con ricche offerte e da brava devota ti preoccuperai di preparare una tomba fastosa per continuare la bella vita anche nell’aldilà.” “Non ne sono tanto sicura, Mario” scuote la testa Tanya. “Ma spero che tu abbia ragione.” Non replico. Lei mi guarda immobile, annichilita, impossibilitata a credere che il discorso finisca qui, che io non ho altro da dirle. Giunto alla porta del bar mi volto a salutarla: “Ciao, Tanya, riparti da capo. Se ci riesci”. Poi esco, lasciandomi inghiottire dalla notte. Mario Pulimanti (Lido, di Ostia –Roma)

martedì 28 agosto 2012

Mi manchi, mamma!

Mi manchi, mamma!
La brezza proveniente dal mare ha spazzato via l’afa del giorno torrido e ora gonfia le lenzuola del mio letto, facendone un’oasi di frescura. Sul tavolino accanto al comò, un piatto capace ospita tre albicocche, due fette di melone e una d’anguria, e una ciotola di fichi, pesche, mirtilli e ribes. E una bottiglia di Macallan 25 years Anniversary, whisky di puro malto. Papà Valeriano lo adorava perché maturato in barili di quercia. Squilla il cellulare. Stefano, mio fratello. Parliamo di mamma. “E’ davvero così? Mamma si sarebbe salvata se l’avessero messa in terapia intensiva, dopo l’operazione?” chiedo aggrottando le sopracciglia, mentre sul viso mi transitano rapidamente, per fondersi l’uno nell’altro come fiumi in piena, il bianco dello sconcerto, il verde della bile, il rosso dell’imbarazzo, lo scarlatto dell’ira. “Sì, Mario, ricapitoliamo brevemente: lei é stata operata per la rottura del femore all’ospedale San Camillo, sabato 28 luglio. Un intervento perfetto, durato poco più di un’ora. La fase post operatoria sembrava procedere regolarmente. Ma attorno alle sei di pomeriggio del giorno dopo, domenica 29 luglio, il suo cuore ha smesso di battere. Non si sa da dove sia partita l'embolia, l'unica cosa certa è che mamma non c'è più..” scuote la testa desolato Stefano, aggiungendo “Certo se l’avessero messa in terapia intensiva, come avevano promesso prima di operarla, sarebbe ancora viva. Infatti la terapia intensiva garantisce immediati interventi in caso di necessità, per cui si sarebbero accorti in tempo dell’embolo, rianimandola prontamente.” Salutando Stefano, mi ricordo del dottorino dal viso di falco che mi ha detto “sua madre è deceduta!” con un tono indifferente. Sembrava quasi che mi prendesse in giro. Mi ha costretto a soffrire, impreco, maledetto, maledetto, maledetto! L’avrei ucciso, gettando il suo corpo ai corvi e agli avvoltoi del deserto. A questo punto, benché lavato, nutrito e dissetato, non riesco a dormire. La stanchezza gioca brutti scherzi, soprattutto se uniti all’eccitazione di eventi gravi e azzardati. Allora tanto vale alzarmi, decido. Accendo il pc per esaminare i miei blog. Mi stanco subito ed esco sul balcone. Mamma Ernesta. Mi ha sempre difeso come una leonessa difende i suoi cuccioli, anche a costo di subire biasimi e critiche. Accendo la radio. “…poi mi viene in mente, se mi metto lì a pensare, il bacio di una madre come solo lei sa dare...” Diamine, non potevano scegliere un altro momento per trasmettere “Come Gioielli” di Eros Ramazzotti! Chino la testa, domato, e mi metto a singhiozzare a dirotto, come se giorni e giorni di tensione avessero scelto proprio questo momento per tracimare tutti assieme in un lungo pianto liberatorio. Ancora il cellulare. Stavolta è Simonetta, compagna di vita. Sta tornando da Collevecchio. Senza Alessandro. Il poeta ha preferito rimanere un’altra settimana dalla nonna. Sento aprire la porta. Mi volto, è Gabriele, il neo-dottore. Nota sul mio viso qualcosa che non va. Infatti mi abbraccia. Poi se ne va. Al cinema. Con Francesca. Rea. Non Rea Silvia, sia chiaro! Debbo ritenermi soddisfatto, rifletto allungando di nuovo le gambe sul letto, di avere avuto una mamma come mamma Ernesta. Lei, che mi ha guarito i graffi e le ferite con una carezza magica. Lei, un posto caldo dove ho trovato sempre un abbraccio. Lei, con quell’odore di buono che mi faceva tornare bambino. Lei, che mi lasciava andare anche se avrebbe voluto tenermi stretto a sé. Lei, una canzone nella notte. Lei, una ninna nanna speciale. Lei, uno sguardo che non aveva bisogno di parole. Lei, quella che sapeva, sempre, cosa era la cosa migliore per me. Lei, quella mano che mi ha tenuto mentre traballando imparavo a camminare. Lei, il bum bum del cuore che sentivo appoggiando la testa sul suo petto. Lei, mamma, una parola: la prima che ho detto. Lei, mamma, un sorriso: il primo che ho visto. Lei, mamma, una voce: la prima che ho udito. Lei, mamma, un sapore: il primo che ho assaggiato. Lei, mamma, una culla: la prima che ho avuto. Lei, mamma, che soffrendo mi ha fatto nascere. Lei, che mi ha parlato nel cuore della notte. Quando tutto il mondo era addormentato. E nessuno, tranne me, udiva le sue parole. E, tenendomi fra le braccia, mi avvolgeva di un amore che aveva una forza inaudita. Sfoglio un vecchio album di fotografie: qui avevo sei anni. “Vieni!” sembra dirmi, prendendomi la mano per condurmi a casa. Mi manchi, mamma. Improvvisamente mi sento invadere da una torpida sonnolenza. Quando mi addormento, mentre il giorno si spegne lentamente, sulle pagine lucide dell’album spiccano ancora le tracce delle mie lacrime. Mario Pulimanti (Lido, di Ostia –Roma)

lunedì 27 agosto 2012

Il mare di Ostia e l’uomo di neve

Il mare di Ostia e l’uomo di neve
Ostia entra nella classifica fra le spiagge migliori del Lazio. Mare pulito, stando alle analisi dal Porto sino alla tenuta presidenziale di Castelporziano, dove il divieto scatta per tutela e non per inquinamento. Rispetto ai dati dell’estate passata, migliora persino la qualità dell’acqua davanti alla spiaggia libera dei “Cancelli”: i divieto di balneazione si riduce da mille a 250 metri a ridosso del Canale Pantanello (o di Palocco). Quindi il mare ad Ostia è pulito. Certo non é limpido come il mare in Puglia, Calabria e in Sardegna ma senz’altro è più pulito del mare della riviera romagnola, grazie ai modernissimi depuratori in funzione da anni. E non vanno ascoltati i denigratori che ti diranno sempre che Ostia fa schifo: a questi volatili del malaugurio basta fare cucù. Lo confesso: quando sento dire che il mare di Ostia, il mio mare, non è pulito perdo la pazienza. Mi da la stessa sensazione di fastidio che può provocarmi sentire qualcuno che rutti rumorosamente. E, siccome i morsi della ferita provocatomi da questi discorsi anti-lidensi continuano a farsi sentire di brutto, trafiggendomi il fianco come l’aquila di Zeus quando rodeva il fegato di Prometeo, non resisto a commentare: “Come si può vivere altrove, dopo aver visto Ostia, la località più splendida del mondo?” Diciamolo francamente, in confronto ad Ostia, il resto del mondo è un borgo di capre. A questo punto, cari lettori, mi sembra già di sentirvi chiedere sconcertati: “Mario, ma cosa stai dicendo? Del resto non sei una persona a cui fare affidamento nei momenti di bisogno. Tu, vile marione, sminuisci i problemi altrui! Sei solo un uomo di neve….” Tranquilli: certamente non sono un serioso filosofo stoico, di quelli che predicano come ci si deve prendere cura della cosa pubblica, partecipare agli eventi politici e prodigarsi per il bene della comunità. Niente affatto! Aderisco, invece, alla dottrina del saggio Epicuro, la cui principale raccomandazione è la ricerca della felicità, che si trova ovunque, nell’equilibrio interiore, nel distacco delle passioni, nella capacità di godere dei piaceri anche minimi, nell’assenza della paura, nella dolcezza di un paesaggio, nel sapore di un frutto, nelle braccia di una donna, nella conversazione di un amico, nelle pagine di un libro. Ovunque, salvo che nei corridoi degli uffici, fitti di intrighi, tradimenti e delitti. Che ci faccio io allora in questi corridoi, gravato della responsabilità del lavoro, anziché a Ostia, intento a mostrare la mia collezione di farfalle alle donne più affascinanti del litorale? Ma intanto continuo a correre a perdifiato, con l’immagine del mio mare nel portafoglio. Giù le mani dal mare di Ostia! Mario Pulimanti (Lido, di Ostia –Roma)

giovedì 23 agosto 2012

LA LUNGA OASI

LA LUNGA OASI
Mi chiamo Neferkheperura Waenra Amenhotep. Dopo trentasette anni di esilio, torno alla mia Tebe, favolosa città dalle cento porte, capitale dell’alto e del basso Egitto. Finalmente sono riuscito ad uccidere il mio nemico, Thutmosis. Lui mi aveva condannato all’esilio. Lo ucciso con un micidiale veleno e poi ho arso il suo cadavere, disperdendone le ceneri ai quattro venti. L’ira di Amon è placata! Però, le parole non possono lo stesso compensare i baci perduti e il rimpianto delle scelte sbagliate. Questa una sensazione con cui ho imparato a convivere. Stavo provando le stesse sensazioni che prova un'anima quando si stacca dal proprio corpo, vedendo la sofferenza dei propri cari senza poter fare nulla per consolarli, quando ho incontrato lei, sulla strada per Tebe. Lei, Maatkara Hatshepsut, figlia di Anekh-Sheshong. Lei, Maatkara Hatshepsut, devota ad Iside. Iside, la dea Fortuna. Immediatamente ho ringraziato con una preghiera Aton, il disco solare. “Servi il tuo dio, che egli possa proteggerti.” Del resto, accade a volte che i Numi annoiati -non c’è granché da fare sull’Olimpo, nettare e ambrosia a parte- intervengano nelle faccende spicciole dei mortali, vuoi per favorirli, vuoi per avversarli. Non c’è bisogno di dire che, nel mio caso, il cielo si è mosso in mio sostegno, inviando sulla terra Maatkara, dea celestiale con il suo fascino sfolgorante. Non male, ho subito pensato, convincendomi che la Dea Fortuna non era ancora risoluta ad abbandonarmi. “Servi i tuoi fratelli, che tu possa avere buona reputazione.” Lo confesso, c’è voluto un nano secondo prima che mi innamorassi della dolce Maatkara. Del resto é una ninfa, una dea. Bastet, la Dea Gatto. Ed io un semplice scriba. Un racconta fiabe. “Servi un uomo saggio, che egli possa servire te.” Nella mano destra tengo un calamo appuntito. Nella sinistra un rotolo di papiro. E nel cuore, tengo lei. Pensare a lei mi fa scorrere il sangue nelle vene come se avessi mandato giù tutto d’un fiato un intero calice di shedu. Ho sognato di cavalcare con lei nel deserto. Cavalcare nel deserto, che idea bizzarra! mi dico, ma non posso impedirmi di immaginare i suoi splendidi capelli volare sciolti al vento, le sue gambe nude strette al ventre dell’animale, le sue natiche che si alzano ritmicamente, il suo sorriso mentre si volta a guardarlo. E le dune, e il tuo corpo flessibile inarcato sulla sabbia della lunga oasi. E il suo seno schiacciato sotto il mio peso, e le sue unghie appuntite sulla mia schiena e il grido roco delle sue belle labbra, perso come un’eco nella notte silenziosa. “Servi colui che ti serve.” Basta! Mi impongo. Devo por fine alle suggestioni, per quanto fascinose, e badare al sodo, pena il naufragare in un mare di fantasie troppo fervide ed esuberanti. Vabbé, lo ammetto: da quel momento non faccio che correre a perdifiato verso il suo profumo. Verso i suoi occhi, irresistibile invito all’amore. “Servi ogni uomo, che tu possa averne profitto.” A volte mi sembra di sentire delle voci perplesse sussurrarmi “Ti costerà parecchio questo amore, più ansia che gioia”. “Via, sciò, levatevi dai piedi, menagrami. Non mi impauriscono le vostre macumbe, incantesimi e strani rituali. Pagherò fino all’ultima dracma, per difendere il mio amore!” Del resto come potrei cercare amori altrove, dopo aver conosciuto lei la regina del mondo? “Servi tuo padre e tua madre, che tu possa procedere e prosperare.” Ma cosa ho fatto per farla innamorare di me? Semplice: le ho fatto bere una pozione magia. Gli ingredienti? Questi: Malemonio, dauco, rosa canina, gelotiphyllis,. Basilico, veleno d’aspide, giusquiamo, acconito, sangue secco di impiccato. Assenzio, meconio, semi di belladonna. Grani di terra in cui è stato sepolto un parricida, lingua essiccata di lucertola, olio essudato da una mummia reale….e una buona dose di oppio è indispensabile! Betonica, lisimachia, issopo del monte Soratte. “Esamina ogni cosa, che tu possa comprenderla. Sii gentile e paziente, e il tuo cuore sarà bello.” Passeggio con lei sulla riva del Nilo, a destra della lunga oasi. Lei ha sul corpo numerosi amuleti. In particolare, sotto la testa, ha un amuleto che reca la riproduzione del dio Osiride. Baciandola intensamente, le canto una lirica d’amore: “Tu, Maatkara Hatshepsut. che splendi di perfezione, con gli occhi belli quando guardano, con le labbra dolci quando parlano, per la quale non c'è discorso superfluo; tu, che lungo hai il collo, il petto luminoso, con una chioma di vero lapislazzuli, le tue braccia superano lo splendore dell'oro, le tue dita sono come calici di loto; tu, che hai languide le reni, strette le anche, le tue gambe difendono la bellezza, il tuo passo è pieno di nobiltà quando posi i piedini sul suolo, con il tuo abbraccio mi prendi il cuore.” Maatkara, mia dea. Maatkara, l'unica, l'amata. Maatkara, la senza pari, la più bella di tutte. Maatkara, guardandoti sei come la stella fulgente all'inizio di una bella annata. Maatkara, possiedi i venti nell’isola della gioia. Maatkara, detieni il remo del comando della barca del mio cuore. Maatkara, con te realizzerò il sogno dell’immortalità. Maatkara, l'amore che ho per te è diffuso nel mio corpo come il sale si scioglie nell'acqua, come il frutto della mandragola si impregna di profumo, come l'acqua si mescola al vino! Maatkara, io sono il tuo amato, sono tuo come il pezzo di terra che ho seminato di fiori per te. Maatkara, il mio corpo è felice, è in gioia il mio cuore per il nostro camminare insieme. Maatkara, è dolce come mosto udir la tua voce, vivo quando la odo, se ti vedo è meglio ogni tuo sguardo per me che mangiare e che bere! “Fluisce per me un’ora dall’eternità, da quando giaccio con te” Mario Pulimanti (Lido, di Ostia –Roma)

mercoledì 22 agosto 2012

Orrore e incredulità





Arggg!



Orrore e incredulità.



Brianna.



Lei, una femmina appena fuori dall’adolescenza, che non aveva mai partorito.



Uccisa.



Nel quartiere ebraico



Colpita una volta, poi due, poi tante.



Colpita finché non ha smesso di vivere.



Per un litigio da nulla, per una bagatella, uno sciocco battibecco tra ragazze che, innamorate dello stesso uomo, in un momento di stizza si lasciano andare a qualche parola in più.



Niente più cavalli scalpitanti per lei.



Niente più deserto.



Niente più notti stellate.



Niente più sogni.



Niente più follie.



Niente di niente.



Solo un corpo senza vita come tanti altri.-



Un involucro marcescibile.



Un cadavere.



Una carogna.



Lei era come una falena attratta dalla luce verso tutto ciò che le sembrava azzardato, insolito o bizzarro.



Lei, stupenda.



Perfetta, una Immortale discesa dall’Olimpo, l’avvenenza fisica e la prontezza mentale incarnate….



Lui, Kevin , era soltanto uno dei molti uomini capaci di incarnare i suoi sogni di gloria.



Ma, a differenza di tutti gli altri, avrebbe onorato l’amante di una sola notte con un regalo inestimabile, per ringraziarla di avergli fatto avvertire, nello spazio di un brevissimo istante, il sentore inebriante dell’immensità: avrebbe offerto in dono la vita dell’assassina alla sua ombra inquieta, perché, sazia di vendetta, potesse infine riposare in pace.



E poi sarebbe stata libera di vivere negli alberi, ondeggiando alla brezza senza più canapi, respirando nelle foglie e cantando al vento, disse tra sé e sé rivolta all’ombra di Brianna.



Splendida driade, e non più mero cibo da vermi.



Shalom aleichem.





Mario Pulimanti (Lido, di Ostia –Roma)

martedì 21 agosto 2012

Nuove ricette per i farmaci

Nuove ricette per i farmaci





Il governo Monti ha introdotto nuove ricette per i farmaci.



In base a tale norma, che è entrata a far parte del pacchetto di provvedimento della spending review, i medici non devono più scrivere il nome commerciale del farmaco, ma quello del principio attivo.



E, anche se alcuni farmaci potrebbero essere difficilmente sostituiti, tale norma in fin dei conti ci farà risparmiare.



Infatti, grazie all'introduzione della nuova norma, sulla ricetta rossa (quella che per cui è previsto il rimborso del SSN) dovrà cioè comparire il nome della sostanza, contenuta nel farmaco, che possiede proprietà terapeutiche.



Questo è già sufficiente perché la ricetta sia valida e possa essere presentata dall'assistito in farmacia, dove il farmacista gli consegnerà il farmaco dal prezzo più basso contenente quel principio attivo.



La ratio del governo è di incentivare la diffusione di farmaci più economici dei griffati, che se anche non vengono totalmente passati dal servizio sanitario nazionale costano meno al cittadino.



Il vantaggio dunque è evidente, tanto per lo Stato che per gli utenti.



Il primo per garantire la stessa cura ai cittadini paga di meno, i secondi non devono versare ticket aggiuntivi previsti oggi per molti medicinali di marca.



In questo modo si prevede che verranno risparmiati molti milioni di euro, da usare per migliorare il nostro sistema sanitario.



Addio farmaci con la griffe!





Mario Pulimanti (Lido, di Ostia –Roma)

venerdì 10 agosto 2012

SOTTILI STUPORI

SOTTILI STUPORI




Mi alzo, sudato.

Vado in cucina.

Mi siedo a riflettere davanti a un bicchiere d’acqua.

Prendo del ghiaccio per raffreddarla, altrimenti mi sembrerebbe tiepida come urina di cane.

Pochi passi e sono nell’altra stanza.

Sul tavolo c’è una rivista di Alessandro, “Storia Illustrata”. La sfoglio, distrattamente.

Cavolo, la storia del Minotauro, del labirinto e del filo di Arianna.

Secondo il mito, il Minotauro venne concepito da Pasifae, moglie di Minosse re di Creta, che per accoppiarsi con il toro di cui si era invaghita entrò nel simulacro di una vacca, costruito appositamente per lei dall’architetto Dedalo.

Rinchiuso nella camera segreta di un impenetrabile labirinto, il frutto di quella unione bestiale –un mostro dal corpo umano sormontato da una testa di toro- pretendeva ogni nove anni in sacrificio sette fanciulli e sette fanciulle greci.

A ucciderlo fu infine Teseo, che uscì indenne dal labirinto grazie al filo di cui lo aveva provvisto Arianna, la figlia del re che dell’eroe si era perdutamente innamorata.

Già, l’amore!

Bella storia!

Esco in balcone.

Gli attori ci sono tutti, penso.

La commedia può cominciare.

Sto prendendo coscienza della vulnerabilità e della fragilità dell’essere umano al cospetto di una natura rigogliosa e brulicante di insidie.

Sottili stupori.

Normalmente sono risoluto a vedere il bicchiere mezzo pieno anche quando altri lo avrebbero trovato quasi vuoto.

A volte, però, il Fato capriccioso si diverte a far cadere sull’ottimismo la mannaia pesante di un colpo inatteso.

Soprattutto se c’è qualcuno che mi trama contro alle spalle.

Maledetto lestofante! grido furioso.

Puah, niente attenuanti.

Stavolta ti spello.

Ti metto in croce.

Ti inchiodo al remo.

Ti faccio a fette.

Ti affondo nelle miniere di sale.

Ti getto in pasto ai coccodrilli.

Ti lapido.

Proprio così!

Poi esco di casa e mi avvio tutto triste sulla spiaggia, lasciandomi inghiottire dal mare.

Ave atque vale: ciao e stammi bene!



Mario Pulimanti (Lido di Ostia -Roma)