lunedì 26 settembre 2016

Attenti ai borseggiatori!


Mi chiamo Mario ed abito a Ostia. Certamente mi dispiace lamentarmi di un episodio accadutomi nella città che io amo moltissimo, la mia Roma. Ma...attenzione ai borseggiatori! A me hanno nuovamente rubato il portafoglio sulla metro B. E dire che si sente continuamente dire che sul bus o sulla metro occorre stare attenti ai borseggiatori. Ora sono io a dirvi di non mettere il portafoglio nella tasca posteriore dei pantaloni, come faccio io, e di tenere sempre sotto controllo borse e portamonete. Alcuni dipendenti del Cotral-Roma, ai quali mi sono rivolto, mi hanno anche consigliato di prestare, per il futuro, particolare attenzione al momento in cui si chiudono le porte della metro, in quanto il particolare avviso immediatamente antecedente alla chiusura può facilitare ladruncoli e borsaioli, che imperversano indisturbati le nostre metropolitane. Che mi hanno rubato il portafogli sulla metro B di Roma, me ne sono reso conto solo quando, uscito dalla metro, mi sono ignaro recato dal mio giornalaio di fiducia. A questo punto, dopo aver saldato il conto in natura -faccio naturalmente dell’ironia- vado a denunciare il furto, come penso farebbe qualunque persona nelle mie condizioni. Tuttavia, nell’ufficio di polizia mi dicono che uno scippo compiuto da ignoti può essere denunciato solo come semplice smarrimento. La denuncia di furto si può fare se il ladro è preso sul fatto. Difatti se non si hanno in quel momento a disposizione corpo del reato e testimoni, non sei altro che uno sprovveduto che si e' perso il portafoglio. Se non ho capito male, quindi,  se ti rubano la borsa o il portafogli devi acchiappare il ladro o almeno sapere come si chiama. Converrete con me, a questo punto, che non è facile ottenere questo, nella stragrande maggioranza dei casi. Ritorno a casa, ancora avvilito per il furto subito questa mattina. Stasera fa freddo fuori, e la metro è di nuovo strapiena. Mentre vengo cullato dal vagone della metro, penso che d’ora in poi dovrò stare più attento per non farmi sorprendere per l’ennesima volta dai borseggiatori e, intanto, con la coda dell’occhio controllo due zingarelle furbe, smaliziate, petulanti e insistenti che chiedono soldi alla gente asserendo che servono per comperare latte in polvere e quant'altro per i loro fratellini e le loro sorelline piccole. Hanno quest’aria di sfida ed un penetrante profumo che punge le narici togliendoti il respiro, ma di elemosina ne ricevono poca, almeno nel mio vagone. All’angolo un giovane parla distrattamente con una sua amica che, anche se è nel fiore della sua giovinezza, mi sembra che gli ispiri sentimenti d’intimorita curiosità medica più che un eccitamento sessuale. Intorno a me ci sono uomini ciarlieri, uomini faceti e uomini arroganti; pettegoli, pensatori, sognatori e disadattati. Ma sembra che, almeno questa volta, non ci sia nessun borseggiatore. Nel frattempo due turiste americane sono sedute vicine ad una studentessa che legge una rivista ed a quattro giovanissimi supporters giallorossi che, raggianti, decantano le grandi imprese calcistiche del Capitano Francesco Totti. Scendo alla fermata della “Piramide” che  è buio e prendo la coincidenza per Ostia. Ormai è ora di tornare a casa. Tanto, i borseggiatori, saranno ancora sulla metro B ad aspettarci domani. Assurdo!  Mario Pulimanti (Lido di Ostia –Roma)

mercoledì 14 settembre 2016

Ma che guaio che é, questo amore!


Ma che guaio che è, questo amore.

 

 

Lavoro troppo, sono sottopagato e socialmente disadattato.

E sono un paranoico ipocondriaco.

Se per caso sento un dolorino al braccio, penso di essere sull’orlo dell’infarto anche se il braccio è quello destro.

Certi disturbi comportamentali non spariscono così, in un amen.

L’amore è un guaio.

Un guaio, sì.

Uno magari trova un equilibrio, una quiete.

Si convince di avere raggiunto un minimo di serenità, che è un traguardo importante.

Poi arriva l’amore, con il suo fantasma di felicità e ti fa sembrare tutto grigio, inutile.

Quello che hai diventa poco, una piccola, inutile meschinità.

La musica, le canzoni, le poesie, il mare, il cielo, il vino, il cibo e l’aria.

Tutto perde senso.

E’ per questo che l’amore è un guaio, un guaio grosso.

Perché quando ce l’hai, lo puoi perdere.

L’amore è un sentimento vigliacco.

E’ come un liquido: pensi di tenerlo in mano e quello ti scivola attraverso el dita.

L’amore è sempre disperato, però ha sempre qualche speranza.

L’amore non si rassegna.

Il tormento non esiste senza l’amore.

L’amore è l’altra faccia.

E’ un grido disperato che ti fa dormire male.

Di notte, o si dorme e si sogna o si è svegli e si sogna ugualmente.

E’ di notte che ci mettiamo di fronte a noi stessi, è di notte che non ci sono scuse.

L’amore è un guaio; eppure c’è di peggio.

Il tradimento è peggio dell’amore.

Improvvisamente un rumore mi allontana da queste meditazioni.

Riesco a recuperare i popcorn dal forno a microonde un attimo prima che si trasformino in un’arma di distruzione di massa, com’è successo la settimana prima. Bevo un sorso di passito.

Vino da meditazione.

Mi avvicino la mia piccola pila di quotidiani e settimanali, dando un’occhiata alla foto di Nicole Kidman.

Ho comprato un pollo in rosticceria.

Ma quando lo guardo, il mio stomaco si rivolta.

Lo metto in frigo per domani, preparando al suo posto un gin tonic bello carico.
Prendo fiato e ne mando giù un sorso.

Mah.

Forse per oggi può bastare

Il mio stomaco non gradisce nemmeno quello, ma il cocktail mi aiuta a eliminare un po’ di tensione.

E infatti quando lo termino mi metto a sbadigliare.

Incoraggiato da questo fausto presagio, mi dirigo in camera da letto.

Mi spoglio, lasciando cadere i vestiti dove capita.

Poi mi infilo sotto le coperte e spengo la luce.

Sospiro, rassegnato a un’altra notte insonne.

Intanto penso.

Ricordi, sensazioni, cose così…

Non so perché.

Collevecchio.

Ripenso a un giorno di primavera.

Mi trovo nell’impossibilità di distinguere la fantasia dalla realtà.

Oltre il Parco della Rimembranza, ai margini del cimitero, il mare delle vette d’albero che ondulavano al vento.

La fragile luminosità pomeridiana s’incupiva e rischiarava sugli occhi di mia madre secondo il passaggio delle nuvole.

E poi, oltre la linea dei campi, il rumore dei trattori che transitavano cigolando a brevi intervalli.

Un altro debolissimo ricordo mi attraversa la memoria, un esile guizzo reminiscente…

Erano i tempi di Jimi Hendrix e Janis Joplin.

Non vedevo l’ora di andare all’università; per quanto mi riguardava, era lì che la vita diventava davvero emozionante, a differenza del noioso e vecchio liceo.

Sacro Cuore dai salesiani, al ginnasio e Socrate, al liceo.

In questi posti mi trattavano ancora come un ragazzino e nessuno si interessava a quello che pensavo del mondo.

All’università sono diventato un vero studente.

Partecipavo alle manifestazioni di GS e a cose di quel tipo.

Ricordo i miei primi giorni di lavoro.

Neoassunto e infimo nella gerarchia.

Con uno zelo da ultimo arrivato profondevo su quelle antiche pratiche settimane di fatica, e ancora mi stavo arrovellando su quali fossero necessarie e quali superflue quando mi chiamarono dalla direzione e mi dissero che c’era un lavoro importante di un collega in malattia.

Io avrei dovuto sostituirlo, il che comportava la piacevole incombenza di redigere relazioni su prestigiosi istituti di ricerca italiani.

No, non devo pensare.

Smetto di farlo.

Devo avere la mente vuota.

E’ quello il trucco.

Se non avessi niente a cui pensare, non ci sarebbe niente che mi tenga sveglio. Immagino un immenso campo di grano, mosso dal vento, circondato da un alto recinto.

Fuori dal recinto ci sono milioni di pensieri: la famiglia, il lavoro, i soldi, eccetera eccetera.

Ma il mio recinto è troppo alto, troppo solido, e io non li lascerei entrare.
Sono proprio sull’orlo del sonno, pronto a caderci dentro senza riserve, quando il telefono squilla.

“Pulimanti.”
“Mario? Vedo che sei ancora sveglio.”

Batto le palpebre per un paio di volte. Per quanto brami il sonno, ci sono cose più importanti.
“Ciao, Ferruccio. Va tutto bene?”

“Va tutto a meraviglia, Mario. Non è che ti ho svegliato vero? So che sei un animale notturno e dopo le ventitré le telefonate costano meno.”

Sbadiglio.

“Sono sveglio. Lo sai che puoi chiamarmi quando vuoi.”

Parliamo del più e del meno.

Parliamo del Milan, la sua squadra del cuore.

Parliamo dell’Atletico de Madrid, la mia squadra del cuore.

Poi riattacca.

Adesso il sonno è lontanissimo.

Ricordo mio padre.

Per poco non mi usciva di bocca una parola che non pronuncio da ventiquattro anni.

La prima in assoluto che ho imparato a formulare, quando ancora non ero nemmeno capace di stare in piedi.

Da quando è morto, nella pasquetta del novantadue, non mi sono più capacitato dal non riuscire più a rivederlo davvero. Papà. Piango, tanto non mi vede nessuno.
Penso a mamma.

Alle diciotto e trenta di un triste pomeriggio di quattro anni fa, domenica 29 luglio 2012, all’Ospedale San Camillo di Roma moriva mia madre.

Ernesta Aloisi.

Moglie di Antonio Valeriano Pulimanti, poeta collevecchiano.

Ah. Ok.

Madre di Antonella.

Madre di Stefano.

E madre mia.

Lei, che mi ha guarito i graffi e le ferite con una carezza magica.

Lei,  un posto caldo dove ho trovato sempre un abbraccio.

Lei, con quell’odore di buono che mi faceva tornare bambino.

Lei,  che mi lasciava andare anche se avrebbe voluto tenermi stretto a sé.

Lei, una canzone nella notte.

Lei, una ninna nanna speciale.

Lei, uno sguardo che non aveva bisogno di parole.

Lei, quella che sapeva, sempre, cosa era la cosa migliore per me.

Lei, quella mano che mi ha tenuto mentre traballando imparavo a camminare.

Lei, il bum bum del cuore che sentivo appoggiando la testa sul suo petto.

Lei,  mamma, una parola: la prima che ho detto.

Lei, mamma, un sorriso: il primo che ho visto.

Lei, mamma, una voce: la prima che ho udito.

Lei, mamma, un sapore: il primo che ho assaggiato.

Lei, mamma, una culla: la prima che ho avuto.

Lei, mamma, che soffrendo mi ha fatto nascere.

Lei, che mi ha parlato nel cuore della notte. Quando tutto il mondo era addormentato. E nessuno, tranne me, udiva le sue parole. E, tenendomi fra le braccia, mi avvolgeva di un amore che aveva una forza inaudita.

Sfoglio un vecchio album di fotografie: qui avevo sei anni.  “Vieni!” sembra dirmi, prendendomi la mano per condurmi a casa.  

Mi manchi, mamma.

Alle madri non dovrebbe essere permesso morire.

Scaccio con decisione quel pensiero dalla mia testa, per evitare di scivolare nella svenevolezza.
Nel frattempo, rientra Gabriele, detto Gabry.

Aspirante Notaio.

Gabriele, il mio primogenito, è nato a Roma all'Ospedale San Giacomo alle 20 e 30 di sabato 18 ottobre 1986. 

Mentre nasceva, la TV stava trasmettendo la sigla di apertura della trasmissione “Fantastico 7” con Pippo Baudo, Lorella Cuccarini, Alessandra Martines, il Trio Lopez-Marchesini-Solenghi e Nino Frassica.

La sigla era “Tutto matto” cantata da Lorella Cuccarini.

Gabriele non ha paura di dire ciò che pensa.

Lui esprime sempre le sue idee.

Però non è uno sconsiderato.

Sostiene che a meno che un individuo non sia particolarmente versato nell’arte della retorica, le parole che pronuncia in un luogo pubblico ben presto volano fuori dal suo controllo, come foglie al vento.

Una verità innocente può essere stravolta in una menzogna fatale.

Ecco perché non parla di politica fuori di casa.

O con estranei poco affidabili.

“Dove sei stato” gli chiedo quando entra in soggiorno con i suoi jeans chiari e una maglietta rossa.

Ha gli occhi un po’ stanchi, ma a parte questo sembra che stia bene.

“Che bella accoglienza” replica.

“Vuoi rispondermi?”

“Se proprio lo vuoi sapere, sono stato alla gelateria di Carletto.”

“Dove si trova?”

“Vicino al Borghetto dei Pescatori”.

“E che succede lì?”

“Non succede niente di particolare. Il gelato è ottimo. La gente lo mangia e si diverte”.

Gabriele è innamorato del borghetto ed è intenzionato a trasferirvisi, appena avrà superato il concorso di Notaio.

Del resto questo potrebbe essere proprio il momento giusto: infatti al Borghetto dei Pescatori di Ostia a due passi dal mare è attualmente in costruzione un complesso residenziale che prevede la costruzione di nuove case ecologiche costituite da appartamenti e villini a schiera.

Esco sul balcone.

Di nuovo, pensieri.

Penso che il bricolage non è adatto a me.

Del resto, così come sul versante femminile, esistono le mani di fata, su quello maschile esistono gli uomini veri, quelli da amaro Montenegro, capaci di salvare cavalli ma anche di aggiustare oggetti, di riparare guasti domestici, di lavare i piatti e di cucinare.

Io, ahimé, come molti altri uomini, non appartengono a questa categoria.

In realtà so fare tante altre cose. Leggo moltissimi libri e me li ricordo.

Credo di cavarmela con la scrittura e malgrado quello che dicono certi miei colleghi, penso di lavorare con impegno e con discreta abilità.

Faccio delle belle fotografie.

E poi quando c’è da bere e da mangiare sono un vero professionista!

Ma, come dice mia moglie Simonetta, in tutto il resto, o quasi, sono un disastro.

E quando dico disastro non esagero.

Perché la mia vita è punteggiata, quotidianamente, da sconfitte imbarazzanti.

Prendiamo la botanica.

Vi dico subito che Simonetta ha il pollice verde.

Ogni pianta che lei mette in casa diventa un baobab.

Io, invece, sono una catastrofe vivente.

Ogni pianta che metto in ufficio muore dopo pochissimi giorni. Sono l’Attila delle azalee, dei ficus e degli oleandri.

Passiamo alla cucina.

Per sintetizzare il mio rapporto con i fornelli sarò esplicito: non so cucinare nemmeno un uovo al tegamino.

Quando prendo in mano una padella divento Fantozzi.

Confondo il sale con lo zucchero.

Mi brucio le mani quando scolo l’acqua della pasta.

E le poche volte che ho provato a cuocere una bistecca i vicini hanno chiamato i pompieri per via del fumo, che ho provocato nel palazzo.

Poi c’è il bricolage. Se c’è da attaccare un quadro mi prendo a martellate da solo.

Se devo bucare una parete col trapano mi ritrovo nel salotto dei vicini di casa.

Non parliamo dei miei maldestri tentativi quando c’è da sturare un water: provoco un maremoto e allago l’appartamento.

Se cerco di aggiustare una presa elettrica faccio saltare la corrente in tutto il quartiere.

Da solo non riesco a mettermi un cerotto al dito.

E se prendo in mano un tubetto di attaccatutto resto per tre giorni con il pollice incollato all’indice. Piuttosto che cambiare una gomma della mia automobile, vendo l’automobile.

Perché potrei restare lì, a combattere col crick, per intere settimane.

Impazzisco quando c’è da registrare qualcosa in Tv.

Se decido di registrare un film mi ritrovo sul decoder un documentario sulla vita delle renne nella Lapponia orientale

Comunque sono un uomo fortunato perché mia moglie, nonostante tutto, è innamorata dei miei difetti e, sempre vigile sul destino dei nostri due figli, Gabriele ed Alessandro, finisce con l’essere lei il vero fulcro della famiglia, anzi ne è l’unica colonna portante.

E, anche se il suo tentativo di trasformare la nostra famiglia in una unità di cui andare socialmente fieri fallisce inevitabilmente, eppure l’amore rimane lo stesso. 

Rientro a casa e trovo Alessandro seduto davanti al computer.

 Alessandro, il mio secondogenito, è nato a Ostia, all'Ospedale Grassi alle 4 del mattino di mercoledì 9 novembre 1994.

Mentre nasceva, la radio stava trasmettendo lo splendido brano di Willie Nelson "Georgia in my mind".

Sono cose che succedono.

Di rado, certo, una volta nella vita, forse due, ma posso assicurarvi che succedono perché è successo a me.

Non ci potevo credere neppure io, eppure ero lì: la mattina del nove novembre all’ospedale Grassi di Ostia, una buona struttura idonea a favorire un trattamento più umano del paziente.

Era il 1994. Il calendario della Chiesa Cattolica Romana, festeggiava Sant’Oreste di Tiana medico morto nel 304 martire in Cappadocia, durante la persecuzione di Diocleziano.

Torturato e martoriato con i chiodi perché non rispettava i principi deontologici della corporazione dei medici pagani, che nella sostanza praticavano la stregoneria facendosi pagare lautamente dai loro pazienti.

Ero appena uscito dall’Ospedale.

Stavo rientrando a casa.

L’autoradio mi stava facendo ascoltare Willie Nelson che cantava “Georgia on My Mind”, la canzone ufficiale dello stato degli  Stati Uniti della Georgia.

Erano le 5 di un mattino piovoso.

Due ore prima era nato Alessandro.

Forte, imbattibile, nulla può ostacolare la sua volontà.

Frequenta il corso di laurea in Lingue, Culture, Letterature e Traduzione.

Con la media del 30 e lode.

Anche a lui chiedo dove è stato.

“Da Anema e Core” risponde.

“Profumi di mare”.

Il ristorante è sulla spiaggia, papà. Si vede il mare. Senti se hai intenzione di   assillarmi in questo modo, me ne vado a letto. Devo andare all’Università domani, non te lo ricordi?”

E con questa ultima frase Alex va a passi pesanti nella sua stanza.

Faccio per andargli dietro, ma poi ci ripenso.

Per quanto sia agitato, capisco che non è il caso di intraprendere una lunga discussione con mio figlio. Me la vedrò con lui domani.

Lo sento fare rumore in cucina, tirare l’acqua del bagno e chiudere la porta della sua camera da letto.

Ormai è impossibile tornare a dormire, malgrado la stanchezza.

Se avessi un cane lo porterei a spasso.

Mi alzo.

Mi verso un dito di cognac.

Nella stanza accanto tutto tace.

Forse con Gabry e Alex ho sbagliato. Ricevuto. Sono stato inescusabilmente malaccorto.

Chiaramente.
Vado in bagno.

Decido di uscire, anche se è molto tardi.

Esamino mentalmente il mio guardaroba.

Il vestito migliore è di Armani.

Normalmente non posso permettermi abiti firmati, infatti questo l’ho comprato in un outlet.

Quello di Ponzano Romano.

Il prezzo era comunque alto, nonostante lo sconto, però quando lo indosso mi sento molto più sicuro di me.

Poi ci ripenso, e torno a letto.

Quando finalmente arriva il sonno, arrivano anche gli incubi.

Ma che guaio che è, questo amore.

 

 

Mario Pulimanti (Lido di Ostia –Roma)

martedì 13 settembre 2016

Rinnovare i contratti pubblici e privati, aumentando i salari


Rinnovare i contratti pubblici e privati, aumentando i salari

Ritengo sia necessario intervenire al più presto sui livelli salariali. infatti, in questo modo si darebbe un rinnovato slancio alla nostra economia.
 Del resto l’incremento delle retribuzioni contrattuali orarie di questi ultimi mesi è stato il più basso degli ultimi quarant’anni.
Una inversione di tendenza è dunque necessaria, rinnovando quindi subito i contratti nazionali pubblici e privati in scadenza o scaduti e favorendo investimenti nell’economia reale.
Tutto ciò riducendo, contemporaneamente, le tasse su imprese e lavoratori.
Così come è fondamentale aumentare gli investimenti in ricerca e innovazione per costruire una politica industriale capace di creare fatturato per gli imprenditori e, cosa più importante, occupazione, stabilità e reddito per i lavoratori.
È giunto il momento di compiere una scelta di equità e giustizia sia economica sia sociale: rinnovare i contratti collettivi di lavoro e lavorare insieme per disegnare una nuova politica industriale.

Mario Pulimanti (Lido di Ostia –Roma)

lunedì 12 settembre 2016

REAZIONE CILENA ALL'INTRALCIO GRILLINO


Reazione cilena all’intralcio grillino

Sempre più frequentemente negli ultimi tempi mi sto domandando se sia possibile un'amministrazione della cosa pubblica che non risponda agli interessi dei gruppi imprenditoriali e di potere consolidati.

È una domanda che investe tutta la sfera della politica, perché in fondo anche il governo nazionale è ormai un “ente locale” nella gerarchia dei poteri amministrativi concentrati nell'Unione Europea.

Lo è a partire dalla “cessione di sovranità” per cui la più importante legge dello Stato  (la legge finanziaria, ora chiamata legge di stabilità)  è sub judice della Commissione Europea.

Controllo rafforzato dall'obbligo al pareggio di bilancio, dai trattati relativi alle questioni economiche (Fiscal Compact, Six Pack, Two Pack, ecc) e dal progetto di un esercito europeo.

Esiste insomma una gabbia che va da Bruxelles fino all'ultimo comune di montagna, per cui ogni decisione gestionale deve avvenire all'interno del cosiddetto patto di stabilità.

Certamente da un lato la stretta dell'austerità riduce i margini di manovra e di spesa, quindi anche le risorse pubbliche conquistabili dalla corruzione; dall'altra le vecchie consorterie di potere aumentano la competizione per accaparrarsi quel poco di grasso pubblico che ancora resta.

La situazione è insomma apparentemente senza via d'uscita.


I gruppi di potere meno potenti rovistano nei sottoscala, nella gestione degli appalti, delle grandi opere o delle concessioni su reti costruite dal pubblico, delle occasioni di crescita fornite da qualche grande evento (Olimpiadi, Expo, ecc).

Ciò che rimane assolutamente fuori dalla possibilità di farsi valere sono gli interessi della stragrande maggioranza della popolazione, che di questo s'è accorta ormai da tempo.

La fuga dalla partecipazione politica e dalle urne ne è una testimonianza, così come l'investimento su qualsiasi raggruppamento nuovo prometta di cambiare radicalmente le cose.

Questo fenomeno, chiamato populismo, investe ormai tutto il pianeta (Trump è solo l'ultimo esempio) e segnala il distacco progressivo tra establishment capitalistico e popolazioni, tra business e consenso politico.

Un voto da ultima spiaggia, per la democrazia parlamentare occidentale, oltre cui nessuno osa guardare e che motiva ovunque scelte istituzionali verticistiche, elitarie, oligarchiche, in modo più o meno esplicito.

A mio avviso i Cinque Stelle, in Italia, sono i beneficiati temporanei di questa radicalità senza progetto di cambiamento sociale, secondo cui basterebbe gestire onestamente la macchina amministrativa e il business perché tutti ne traggano un grande beneficio.

E’ una idea che seleziona un quadro militante piuttosto eterogeneo, con competenze specifiche magari anche alte (informatici, ingegneri, avvocati, tecnici ambientali ecc), ma senza molte cognizioni sul funzionamento vero della società attuale.

Ovviamente, alla prova dell'amministrazione concreta di grandi città questa nuova classe dirigente arriva un po’ impreparata.

Tutto previsto, come anche la reazione feroce del potere vero a questo intralcio. Reazioni cilene.

Per ora c’è stata solo la scimmiottatura delle inchieste giudiziarie all'incontrario, con mail e telefonate allegramente passate da uffici tribunalizi e questura sui tavoli dei media controllati dai boss del business capitolino e governativo.

Non mi stupirei di vedere presto anche qualcosa di equivalente ai camionisti cileni, ovvero corporazioni reazionarie in grado di paralizzare o riempire di rifiuti la città. Basti ricordare che in Gran Bretagna è stata sacrificata addirittura una deputata laburista pur di sbarrare il passo alla Brexit.

Altro potrà avvenire pur di eliminare quanto di incontrollabile ci può essere in un'amministrazione grillina.

Che questo avvenga facendo fallire completamente una giunta (non solo a Roma, ovviamente), oppure epurando i puristi e facendola così rientrare nella normalità del business non si può ovviamente dire.

I Cinque Stelle sono comunque una ancora troppo flebile perturbazione negli equilibri di potere, una finestra di incertezza attorno a cui si affannano i conservatori, per richiuderla.

A questo punto riterrei opportuna una mobilitazione di tutte le forze antagoniste e democratiche per cercare di bloccare con il NO al referendum la controriforma costituzionale, ben sapendo comunque che la macchina del fango del potere si attiverebbe anche contro questo schieramento.

Si tratterebbe di unificare tutti i malesseri sociali innescati da una serie ormai lunghissima di stravolgimenti della nostra Costituzione.

Infatti Jobs Act, pensioni, sanità, scuola, casa, ammortizzatori sociali, avventure militari, sono temi decisamente più importanti che non la discussione sul Senato.

 Mario Pulimanti (Lido di Ostia –Roma)

venerdì 9 settembre 2016

Podemos deve ridare voce agli indignados


Podemos deve ridare voce agli indignados

 

È indubitabile che le destre, in particolare il Pp di Rajoy, abbiano vinto le elezioni spagnole. Il mancato sorpasso di Unidos Podemos sul partito socialista a mio parere dipende dal fatto che l’ Europa è attratta da una destra più dura, decisionista e ancora più liberista, una destra che risponde all’insicurezza, seminata anche dal terrorismo (basti pensare alla vittoria del Brexit, all’insicurezza diffusa ed alla prevalente reazione razzista alla crisi migratoria). Tutto ciò rende più chiari i limiti di espansione di ciò che viene considerata la positiva diversità spagnola e cioè l’essere, dopo la Grecia, l’unico paese europeo in cui la protesta non ha prodotto né il ritorno a nazionalismi, né a generici populismi e antipolitica, ma un movimento come quello degli indignados, da cui è partito Podemos. L’energia di questo movimento e la sua capacità di modificare i rapporti di forza nella società spagnola è stata oggi sopravvalutata da chi ha pensato che Unidos Podemos sarebbe stato il partito più votato della sinistra e per questo in grado di trascinare il Psoe in un governo di sinistra. Podemos sicuramente ha cambiato nel profondo la Spagna, ma quel vento di cambiamento non è riuscito a incidere nelle province, non ha scalfito la rete clientelare su cui il PP, ma anche il Psoe, perpetuano da sempre il loro consenso. Il successo elettorale spingerà Rajoy, o chi per lui, a confermare che la Spagna proseguirà con la legge sul lavoro che ha consegnato alla precarietà un’intera generazione, continuerà a privilegiare un vecchio modello energetico fossile che espone alle conseguenze del cambio climatico, riprenderà l’attacco all’autodeterminazione delle donne. La risposta più efficace al parziale insuccesso elettorale di Podemos  è far vivere dall’opposizione il programma di trasformazione della Spagna. Una sfida credibile se alla delusione del risultato subentrerà anche la consapevolezza che avere raccolto il consenso di oltre cinque milioni di persone è comunque un risultato straordinario da cui questa sfida può partire. In ogni caso Podemos è davvero il risultato di uno sforzo iniziato da un gruppo di idealisti non ortodossi per ottenere un cambiamento, gruppo che unisce la convinzione giovanile con il desiderio di sperimentare le proprie idee nel mondo reale. Ora però Podemos deve ridare voce agli indignados: El pueblo unido jamas será vencido.

Mario Pulimanti (Lido di Ostia -Roma)

mercoledì 7 settembre 2016

Diffusa o concentrata, l’accoglienza dei migranti va migliorata


Diffusa o concentrata, l’accoglienza dei migranti va migliorata

L’Italia sta accogliendo sempre di più le persone che fuggono dalla guerra, dalla repressione militare e poliziesca, da situazioni di violenza generalizzata e diffusa, con la conseguenza di trovarci oggi a far fronte ad un’ondata migratoria che ha messo in crisi le nostre leggi per il governo dell’immigrazione. Infatti, considerato che il fenomeno dell’immigrazione ha assunto un carattere strutturale e permanente, l’arrivo di un consistente numero di migranti impone quindi la necessità di approntare un sistema di accoglienza in grado di rispondere in maniera efficace all’arrivo di migranti, nel rispetto delle norme internazionali, assicurando azioni concertate e massima solidarietà. In ogni caso si deve evitare la strategia dell’accoglienza diffusa, (cioè distribuire gli stranieri in piccoli gruppi e in micro-residenze tra le comunità locali italiane). Questa rete di accoglienza, chiamata appunto diffusa, è preferita dal governo per due motivi. Perchè evita concentrazioni più difficili da gestire sia sul piano organizzativo sia su quello dell’ordine pubblico e perchè “spalma” sul territorio la presenza di profughi, riducendone l’impatto anche dal punto di vista mediatico. Il problema di fondo però è un altro: prima avremmo forse dovuto decidere quanti rifugiati siamo in grado o disponibili ad accogliere in Italia e come intendiamo regolarci con le migliaia di immigrati che non hanno lo status di profugo e non avrebbero quindi nessun diritto di restare in territorio italiano, ma che qui sono e qui sembrano destinati a restare. In mancanza di ciò ogni risposta si rivelerà, prima o poi, inefficace e insostenibile. Più di quanto già accada ora. Diffusa o concentrata l’accoglienza può infatti essere gestita solo all’interno di una strategia di compatibilità, che oggi non pare esserci. Aumentare dopo ogni sbarco le quote che ciascuna regione deve accogliere non è una risposta politica, è passiva accettazione. Che rischia di innescare sul medio termine conflitti laceranti sul piano sociale ed economico. L’obiettivo, ampiamente condiviso dagli attori pubblici e privati coinvolti, è quello di promuovere il coinvolgimento dei migranti in attività volontarie di pubblica utilità svolte a favore delle popolazioni locali e finalizzate ad assicurare maggiori opportunità di integrazione nel tessuto sociale. Il percorso ipotizzato, fondato su una piena volontarietà dell’adesione, consente di sviluppare nei migranti il senso di partecipazione e impegno civico e facilita, grazie al contatto diretto con la popolazione residente, l’apprendimento della lingua italiana e le regole del mondo del lavoro. In tal modo si perseguirebbe il duplice scopo di favorire da un lato una reale integrazione sociale dei migranti e, al contempo, di assicurare una positiva ricaduta nel territorio regionale.

 

Mario Pulimanti (Lido di Ostia –Roma)

martedì 6 settembre 2016

La vergognosa vignetta di Charlie Hebdo


La vergognosa vignetta di Charlie Hebdo

La vignetta di Charlie Hebdo sul terremoto in Italia non fa affatto ridere perché denota un'assenza totale di umano rispetto e un cinismo senza confini. Infatti offende chi è morto e chi è riuscito a salvarsi e adesso piange con dignità, offende chi ha perso tutto. Non è una bufala, purtroppo Charlie Hebdo con quel fumetto si prende davvero gioco delle trecento vittime del terremoto che ha colpito il Centro Italia. Penne al pomodoro, penne al gratin, lasagne ma nella vignetta non ci sono i primi piatti, sotto la scritta Sèisme a’ l’italienne ci sono un uomo e una donna insanguinati, uno accanto all’altra; le lasagne sono i nostri morti sotto le macerie. Quale mente può appuntire la matita e disegnare questo orrore? Inoltre tutti ricordiamo la grande solidarietà che avvolse il giornale satirico francese quando venne colpito dai terroristi. Ora, che la comunità di Charlie Hebdo, di fronte al dramma del terremoto che ha colpito il centro Italia, non abbia sentito il dovere della reciprocità, ma anzi abbia voluto infierire con tanta volgarità sulla tragedia e il dolore di Amatrice, lascia davvero senza parole. Ma sarebbe sbagliato cedere alla tentazione di censure. Rischieremmo di trasformare in vittime dei cretini patentati alla ricerca di briciole di celebrità a qualsiasi costo. Lasciamoli fare e ignoriamoli, diano pure sfogo a tutta la loro disumana volgarità. In questo modo dimostreremo loro di avere a cuore, sul serio e sempre, la libertà e la dignità umana. A tal punto da garantire il diritto di espressione anche a degli inqualificabili imbecilli. No, non siamo più tutti Charlie, questa volta non la difendiamo la libertà d’opinione e la libertà di stampa perché c’è un limite a tutto.

Mario Pulimanti (Lido di Ostia –Roma)

lunedì 5 settembre 2016

DIPENDENZA DA INTERNET


Dipendenza da Internet

Internet è forse il più affascinante mezzo di comunicazione che l’umanità abbia mai inventato. Il web, se usato correttamente, ci permette di leggere giornali, informarsi, prenotare visite mediche, comunicare con persone vicine e lontane, pubblicare le nostre storie e promuovere il nostro lavoro, consultare guide e libri digitali. Se usato però senza adeguato senso critico, internet può rappresentare un grande pericolo: si pensi alla pubblicazioni di foto o video compromettenti, di post che potrebbero essere diffamanti e che potrebbero procurarci il licenziamento, oppure in riferimento a bambini e adolescenti, si pensi a quanto potrebbe essere pericoloso un uso inconsapevole di chat e social network e quanto potrebbe esporli a pericoli come gli adescamenti, oppure più semplicemente, ma non meno grave, esporli all’abuso delle tecnologie. Del resto in ogni epoca c'è un potere che minaccia la libertà. Oggi questo potere è rappresentato dalla rete e dal suo utilizzo. È un potere sfuggente e impalpabile ma non per questo meno insidioso. Ma una delle grande sfide che abbiamo di fronte è impedire che questo potere possa operare e condizionare le nostre vite. Infatti Internet e' uno straordinario spazio aperto di libertà, di confronto, di contatto e di sviluppo. Ma è anche un mondo straordinariamente complesso e insidioso dove i tradizionali concetti di privacy, di libertà di parola e di espressione sono messi a dura prova. In questa realtà senza confini e senza limiti ciascuno può dire la sua incurante di tutto e di tutti. E ogni opinione, per quanto strana sia, può venire amplificata e diffusa a livello globale attraverso i social network. Manipolazioni e operazioni di disinformazione sono dunque all'ordine del giorno. E, paradossalmente, benché internet sia un mondo dove gli utenti sono catalogati e vivisezionati nei loro comportamenti e nelle loro abitudini, risalire agli autori di queste azioni di disinformazione si rivela spesso un'operazione complessa. Ma questa è solo una delle molte criticità che lo sviluppo portentoso del mondo web ha fatto emergere in tutto il mondo. Ciononostante in molti sono convinti che regolamentare Internet sia non solo impossibile ma anche sbagliato, perché contrario alla natura stessa della rete. Mi sembra una posizione sempre più difficilmente sostenibile.

Mario Pulimanti (Lido di Ostia –Roma)