venerdì 28 giugno 2013

Ruby e Berlusconi

Ruby & Berlusconi




La sentenza emessa dal tribunale di Milano contro Berlusconi mi è sembrata un po’ esagerata, non solo in rapporto ai fatti contestati ma per la semplice ragione che il collegio giudicante è andato oltre anche le richieste dell'accusa che aveva proposto una condanna a sei anni.

Inoltre mi sembra strano che persone riconosciute colpevoli di omicidio colposo siano state condannate a una pena inferiore a quella comminata a Berlusconi a conclusione del processo Ruby.

Può darsi che per qualcuno, forse più interessato ai destini politici di Berlusconi che alla credibilità della giustizia italiana, questo non rappresenti un problema.

A me pare lo sia.

Sette anni per una concussione del genere non si vedono neanche in Corea del Nord.



Mario Pulimanti (Lido di Ostia –Roma)

OGM




Ecco: sto scrivendo perché mi sono spaventato nel leggere che la trippa e la polenta sono cancerogeni.

Il pesto anche, immagino, invece, che il cous cous sia sanissimo.

Che tristezza!

I fautori degli Ogm e del cibo Frankenstein sembrano voler cancellare persino i piatti simbolo della storia gastronomica italiana, avvelenare (con la paura, l’ansia, la minaccia) il grande gusto della tradizione, in un tentativo di sradicamento che, peraltro, tocca numerosi altri ambiti.

Occorrerebbe protestare per questi attentati, non solo al buongusto, ma anche al nostro palato!

Protesta, infatti, l’associazione Slow Food, che ha lanciato nei giorni scorsi un appello: “Più biodiversità, meno Ogm”, perché davvero non può essere vero che il cibo delle nonne faccia male e quello geneticamente modificato renda invece più giovani e aitanti.

Alla mobilitazione hanno risposto molti ristoranti sparsi in tutta Italia. Un tuffo nella sana tradizione italiana, alla faccia di chi, forse, ci vorrebbe tutti a fare la fila da Mc Donald’s.

Lo sforzo è necessario, mentre si moltiplicano i tentativi di propagandare gli alimenti geneticamente modificati come più sicuri e buoni.

Serve, invece, grande chiarezza, corretta informazione, difesa dei prodotti tradizionali e di chi li coltiva, rispetto dell’ambiente e della salute dei consumatori.

Sono molti ormai gli Enti locali (tra Regioni, Province e Comuni) che hanno già promulgato norme per dichiararsi “Ogm-free”, liberi da Ogm.

Anche io vorrei, oggi idealmente schierarmi su questo fronte sempre più vasto, armandomi... di buon appetito.



Mario Pulimanti (Lido di Ostia –Roma)

mercoledì 26 giugno 2013

Blocco dei contratti pubblici

Blocco dei contratti pubblici




E’ necessario riaprire la stagione contrattuale per salvaguardare il potere di acquisto delle retribuzioni dei lavoratori pubblici.

Andrebbe quindi modificato il decreto concernente la proroga del blocco della contrattazione nazionale e integrativa, in modo da rinnovare i contratti relativi al triennio normativo ed economico 2013-2015.

Ritengo, inoltre, che andrebbero eliminati gli sperperi esistenti nella P.A., a partire dalle consulenze che possono esser sostituite con le professionalità già presenti nelle amministrazioni, al fine di individuare le risorse per finanziare il miglioramento dell’efficienza delle stesse e contemporaneamente valorizzare chi ci lavora.

Credo inoltre che andrebbero urgentemente affrontati dal nuovo Governo -oltre le questioni concernenti le modifiche alla riforma e al blocco dei salari individuali- anche il problema dei precari nonché i quesiti inerenti le tante differenze normative fra pubblici e privati (malattia, età pensionabile per le donne, scomparsa dell’equo indennizzo, diversa contribuzione sul Tfr, mancanza della detassazione del salario di produttività).



Mario Pulimanti (Lido di Ostia –Roma)





martedì 25 giugno 2013

Anoressia: pericolo di morte

Anoressia: pericolo di morte




L’anoressia è una vera e propria malattia, che però salta agli onori delle cronache solo quando muore una modella anoressica e poi, di nuovo giù nel dimenticatoio.

E’ una malattia caratterizzata da una dieta ossessiva, accompagnata da esercizio fisico compulsivo. A volte può essere associata ad abuso di lassativi o a vomito auto-indotto.

Tutto ciò provoca una progressiva perdita di peso che può causare gravissimi problemi alla salute. Troppi restano abbagliati da una società che produce modelli sbagliati (si pensi a certe top-model), ma non insegna i valori veri della vita.

Spinge al consumo, ma non spiega che occorre una alimentazione corretta.

I mutamenti della società incidono sui giovanissimi, la mancanza di affetto spinge verso eccessi che non raramente passano attraverso l'odio per il cibo o l'eccessivo attaccamento al cibo.

È un male sociale, terribile perché porta spesso alla morte.

La malattia è più diffusa di quanto si creda.

Agisce in maniera subdola, nascondendosi.

Poi esplode all’improvviso.

Spesso quando chi sta attorno se ne rende conto, è già difficile per intervenire, talvolta è troppo tardi.

Il recupero è difficile, faticoso e lento.

Sicuramente l'attenzione della famiglia è indispensabile, non raramente è la scuola la prima ad avvertire il disagio e a informare i familiari.

Da qualche tempo la stessa scuola prova a lanciare l'allarme, da una parte facendo prendere coscienza agli alunni degli effetti devastanti della malattia, dall’altra parte insegnando ai giovani che una sana alimentazione è la prima regola per vivere in armonia con il proprio corpo.

Difatti fare poca attenzione al cibo e’ un grave problema.

Tanto è vero che i medici consigliano spesso ai loro pazienti di seguire delle linee guida alimentari e salutistiche, come la dieta mediterranea -recentemente nominata patrimonio dell’Unesco- a base di cereali, frutta verdura e olio d’oliva, che è appunto perfetta per un adolescente alle prese con i piccoli e grandi cambiamenti della sua età.

Ma tutto questo, per quanto utile, ancora non basta, dato che la scuola non può svolgere tutte le funzioni richieste a una società distratta nei confronti dei giovani (educazione stradale, educazione sessuale, lotta alla droga, all'alcol, al cattivo uso del cibo, all'integrazione tra popoli, alla necessità di far convivere religioni diverse ecc.).

Ritengo quindi che, oltre alla scuola, anche la famiglia e gli amici dovrebbero aiutare una persona anoressica da quest'incubo, studiando con un medico specifico il percorso da effettuare per ricominciare a vivere un'esistenza normale.



Mario Pulimanti (Lido di Ostia –Roma)

lunedì 24 giugno 2013

Iosefa Idem dovrebbe dimettersi

Iosefa Idem dovrebbe dimettersi Iosefa Idem, l'ex campionessa, oggi ministra, ha evaso le tasse non pagando Ici e Imu. Perché mal consigliata o per disattenzione: in ogni caso, pagando meno di quanto previsto dalla legge, ha commesso un illecito. La Idem ha detto che pagherà come tutti i cittadini. Però lei, non essendo una semplice cittadina ma un ministro, non può pensare di cavarsela con una semplice multa, perciò a mio parere dovrebbe dimettersi. Mario Pulimanti (Lido di Ostia –Roma)

mercoledì 19 giugno 2013

Giù il cuneo fiscale!

E' una situazione difficile e pesante quella in cui versa l'economia nazionale. Perciò andrebbe ridotto il cuneo fiscale, ora troppo oneroso. Infatti l’eccessivo cuneo fiscale -cioè la differenza tra quanto pagato dal datore di lavoro e quanto incassato effettivamente dal lavoratore, essendo il restante importo versato al fisco e agli enti di previdenza e pensionistici tramite imposte contributive- penalizza tanto le imprese, che hanno un costo del lavoro più elevato dei loro concorrenti europei, tanto i lavoratori che, pur costando più dei loro colleghi tedeschi o francesi, guadagnano meno. Quindi per rimettere in moto l'economia occorre immettere liquidità nel sistema produttivo e mettere più soldi in mano alle famiglie, in modo da riattivare i consumi interni. Difatti solo rilanciando la domanda interna ed aumentando la competitività si uscirà dalla crisi. E si deve dare più potere d’acquisto alle famiglie italiane, tagliando il cuneo fiscale, anche se questo comporterà certamente un costo elevato per le casse dello Stato perché, non differentemente da quanto accade per l'Iva e l'Imu, occorrerà poi trovare il modo di compensare le mancate entrare fiscali che deriveranno da questo intervento. Perciò, giù il cuneo fiscale! Mario Pulimanti (Lido di Ostia –Roma)

lunedì 17 giugno 2013

A cena da Marco Rea e Rita Miani

A cena da Marco Rea e Rita Miani 


Mi chiamo Mario. Mario Pulimanti. Ma molti ultimamente hanno preso a chiamarmi Mariolino Paperino perché, a loro dire, somiglio a Paperino. Sì proprio lui, Paolino Paperino, il simpatico, ma impacciato papero disneyano. L’antieroe per eccellenza. Paperino è un pasticcione, combinaguai, dispettoso, irascibile, testardo, pigro, fifone, ma si ingegna sempre nel trovare una soluzione che gli eviti un po' di fatica, a volte ci riesce, ma altre volte va incontro ad un mare di guai, complicandosi la vita per una sciocchezza, soprattutto perché è perseguitato da una tremenda e proverbiale sfortuna. Proprio come me. Infatti, così come, sul versante femminile, esistono le mani di fata, su quello maschile esistono gli uomini veri, quelli da amaro Montenegro, capaci di salvare cavalli ma anche di aggiustare oggetti, di riparare guasti domestici, di lavare i piatti e di cucinare. Io, ahimé, come molti altri uomini, da buon Paperino, non appartengo a questa categoria. In realtà so fare tante altre cose. Leggo moltissimi libri e me li ricordo. Credo di cavarmela con la scrittura e malgrado quello che dicono certi miei colleghi, penso di lavorare con impegno e con discreta abilità. Faccio delle belle fotografie. E poi quando c’è da bere e da mangiare sono un vero professionista! Ma, come dice mia moglie Simonetta, in tutto il resto, o quasi, sono un disastro. E quando dico disastro non esagero. Perché la mia vita è punteggiata, quotidianamente, da sconfitte imbarazzanti. Prendiamo la botanica. Vi dico subito che Simonetta ha il pollice verde. Ogni pianta che lei mette in casa diventa un baobab. Io, invece, sono una catastrofe vivente. Ogni pianta che metto in ufficio muore dopo pochissimi giorni. Sono l’Attila delle azalee, dei ficus e degli oleandri. Passiamo alla cucina. Per sintetizzare il mio rapporto con i fornelli sarò esplicito: non so cucinare nemmeno un uovo al tegamino. Quando prendo in mano una padella divento Fantozzi. Confondo il sale con lo zucchero. Mi brucio le mani quando scolo l’acqua della pasta. E le poche volte che ho provato a cuocere una bistecca i vicini hanno chiamato i pompieri per via del fumo, che ho provocato nel palazzo. Poi c’è il bricolage. Se c’è da attaccare un quadro mi prendo a martellate da solo. Se devo bucare una parete col trapano mi ritrovo nel salotto dei vicini di casa. Non parliamo dei miei maldestri tentativi quando c’è da sturare un water: provoco un maremoto e allago l’appartamento. Se cerco di aggiustare una presa elettrica faccio saltare la corrente in tutto il quartiere. E pensare che ero stato sul punto di rifarmi da solo l’impianto elettrico di casa. Già, prima che i miei, saputolo, fuggissero in una sperduta isola dell’Oceano Indiano. Un ottimo motivo per cambiare subito idea e chiamare l’elettricista di fiducia, certo! Da solo non riesco a mettermi un cerotto al dito. E se prendo in mano un tubetto di attaccatutto resto per tre giorni con il pollice incollato all’indice. Piuttosto che cambiare una gomma della mia automobile, vendo l’automobile. Perché potrei restare lì, a combattere col crick, per intere settimane. Impazzisco quando c’è da registrare qualcosa in Tv usando il timer. Se decido di registrare un film mi ritrovo sul nastro un documentario sulla vita delle renne nella Lapponia orientale! L’atro giorno sono andato a trovare mia suocera a Collevecchio, un delizioso borgo collinare, immerso nel verde della Sabina. Ho fatto tutto quello che c’era da fare: zappare, potare, ripulire, non dovevo avere rimorsi di essere accusato di stare seduto con le mani in mano. Senza scompormi, vi avviso che mi sono tagliato un dito. Ho acceso il fuoco nella sala da pranzo: è stato purtroppo necessario l’intervento della Protezione Civile. Ho sbagliato, a quanto pare. E a Simonetta che mi inseguiva facendo dondolare pericolosamente l’accetta che teneva in mano, fischiettando allegramente le ho fatto presente che doveva, invece, premiare il mio piccolo sfoggio di zelo. Anche se, tuttavia, non è passato inosservato e ha fatto qualche danno. Vero, posso però dire che mi sento più a mio agio con penne e matite. In fin dei conti, nessuno è perfetto! Sono uno scrittore oppure solo uno che scrive? Forse sono uno che finge ideali inesistenti. Amo il mio libero arbitrio, il jazz e le mie infinite miserie. Non sono tipo da ansie, non mi consumo per beffe annunciate. Ok, veniamo al dunque: accusare la famiglia di non sapere più fare il proprio dovere e incapace di esercitare il proprio ruolo é un alibi per scaricare responsabilità che stanno fuori dalla famiglia. Dl resto in questi anni non è stato fatto molto per consentire ai genitori, che spesso lavorano entrambi al contrario di quanto accadeva un tempo, di fare meglio il proprio mestiere di madri e padri. Basta vedere le poche scuole d'infanzia aziendali che ancora ci sono in Italia, i costi spesso proibitivi degli asili nido, una scuola spesso intesa come area di parcheggio. E non sempre per colpa dei genitori. Non tutte le cose che vedo sono spettacolari. Garbatella: casa di mamma. La Garbatella a me piace così, con le facciate di alcuni palazzi che si sgretolano e sui marciapiedi cadono i gusci degli anni ormai andati. Sento l’odore della mia infanzia, mentre guardo un album di vecchie foto. L’album dei sogni. Ci sono mamma e papà, prima che si trasferissero sull’arcobaleno. Bevo un caffè. E’ nero e scuro come l’interno di un sarcofago. Intorno a me, silenzio. L’unico suono che sento è il pulsare delle mie tempie, il battito del mio cuore. Sudo mentre sfoglio pagina dopo pagina. Il sudore mi scorre sulla fronte, sulle tempie, mi entra negli occhi mentre me ne sto seduto, chino sul libro, senza più riuscire a distinguere il sudore dalle lacrime. All’esame della scuola per mimi, l’allievo fece scena muta. Su, meno stronzate, facciamo in fretta. Non ci sono più i bravi illusionisti di un tempo. Sono tutti spariti di scena. Sono nato in una casa umile di Testaccio. Adesso è cambiato tutto, adesso lì ci vivono poeti che ogni anno vincono premi letterari, artigiani che fabbricano ancora ombrelli e bastoni artigianali di alta fattura: oggetti unici e ricercati diventati famosi per design e qualità e pittori di pesci morti. Le case del Testaccio sono di moda perché si vede che in esse si trova lo spirito del popolo romano, in attesa che qualcuno lo colga. Ma ai miei tempi da lì uscivano solo le urla delle partorienti i cui mariti avevano sbagliato numero nel chiamare l’ambulanza. Gli strilli dei bambini. Le scoregge dei pensionati. Le manganellate regolamentari della polizia. Era un mondo spietato, con le tavole vuote e le condutture intasate. Che pensieri: sono così sconvolto che sento persino qualcosa di miracoloso, una specie di eccitazione sessuale. Ma l’unica cosa che riesco a dire è “Tutto questo è assurdo. Sto diventando matto!” Era un calciatore sciatto e impreciso. Lavorava con i piedi. Ora capisco. Sto per morire. Davanti al giudice, i due pianisti trovarono un accordo amichevole. E’ un modo di dire. Non credo che abbia particolare importanza. Ma mi ha scombinato un po’ la vita. Adoro il mare. Ostia, al mattino. Voglio riaprire la finestra dell’arcobaleno. Datemi le chiavi. Non mi fate perdere la pazienza! Cavolo, un milione di cose mi impediscono di aprire quella finestra, un milione di cose su cui non si deve ragionare, né calcolare, né fermarsi a vedere. Solo sentire. Un milione di cose che non stanno da nessuna parte, ma che sono comunque nell’aria. Ovunque, tranne che nei tuoi occhi. Fino a tal punto arriva il tuo disprezzo? Sì. Non mi offendo. E’ successo tutto in fretta: più in fretta di quanto cerchi di ricordare. Solo in qualche occasione mi è sembrato di perdere l’equilibrio. Solo in rari istanti ho avuto dei dubbi, mi sono chiesto se la realtà sia davvero come la sto vivendo. Assomiglio sempre più a mio padre. Passo il tempo pensando a cose basilari. E’ lunedì e ho i postumi di una sbronza. Tre ore di sonno, dopo una giornata a casa di mio fratello guardando partite di calcio e bevendo whisky torbato. Una figata. Sì, si dice così a Roma, o no? Sì, si dice così. A volte si fanno delle scelte che non si sanno spiegare, io ho la capacità di cambiare i miei piani, di voler vedere le conseguenze delle cose. Stefano, mio fratello, definisce questo mio modo di fare dicendo che voglio sempre portare le cose all’estremo. Ho sempre sentito dire che i soldi sono soldi. E che molti soldi sono potere. E che moltissimi soldi siano il massimo. Sarò sincero. Intuisco il tuo disprezzo. Me lo soffi in faccia. Accendo un sigaro d’alta classe. Lo lascio morire acceso e con dignità. Penso a sabato sera: cena a Torvaianica. Verbene colorate, surfinie, gerani. A casa di Marco e Rita, genitori di Francesca. Sì, Gabry ha una ragazza. Francesca. Rea. Molto attraente. Dall’aspetto fragile e delicato. Sembra la reincarnazione di un tenero bocciolo di rosa. Voce soave ed una risata cristallina. E canta. Meglio di Laura Pausini. Figlia di Marco e Rita. Marco: persona pacata, gentile e dotata di self control. Denti perfetti e uguali; bianchissimi e lucidi. Un uomo di carattere. Rita: capelli ricci, lunghi e biondi. Occhi azzurri; naso regolare; pelle chiara. Trucco leggero. Allegra, amante della danza. Proprietari di una delle ottiche più importanti di Ostia.. L’Ottica Rea. Di Viale Capitan Casella. “Dal 1964 l’Ottica Rea è a vostra disposizione per soddisfare qualsiasi esigenza nel campo degli occhiali da vista e delle lenti a contatto con estrema professionalità”. Oltre a noi, c’erano anche Marco e Rossella. Con Simone. La cena di Rita. Maccheroni con Spada e Gamberi. Finta pizza di pesce. Gamberoni al vino bianco. Gelato. Le grappe di Marco. Domens. Castagner: la "torba nera": profumata e fruttata.. Berta: la "tre soli tre", grappa di Nebbiolo invecchiata otto anni. Ampia, avvolgente, con grande personalità. Infine, una grappa di Serafino Levi: una volta versata nel bicchiere, prima di berla ne ammiro il colore granato, quasi rosso. E’ successo tutto in fretta, ho pensato, degustando la mia grappa, soffice. Prodotta con uve delle Langhe e del Monferrato. Profumatamente morbida: estremamente delicata. Serata indimenticabile! Quando penso di essere vicino alla verità sento che ogni fibra del mio corpo è vicina al nucleo dell’arcobaleno, alla sua nuda e pura essenza. Non riesco mai ad arrivare alla fine, non vado mai oltre questo punto. E i sogni continuano. Ernesta Aloisi. Moglie di Antonio Valeriano Pulimanti, poeta collevecchiano. Ah. Ok. Madre di Antonella. Madre di Stefano. E madre mia. E’ morta domenica 29 luglio, all'Ospedale San Camillo di Roma. Alle diciotto e trenta di un triste pomeriggio. Il rito funebre è stato celebrato a Testaccio, nella Chiesa di Santa Maria Liberatrice. Il feretro, al termine del funerale, è stato portato al cimitero storico di Collevecchio, in provincia di Rieti. Qui mamma è stata seppellita a mezzogiorno del secondo giorno di agosto. Mi chiedo se sento qualcosa, sollievo, rabbia. Non credo. Provo solo dolore. Questo tipo di cose ti divora dall’interno. Sono passati undici mesi. Ora mi trovo a Testaccio con Antonella e Stefano. Ad un bar, sotto casa loro. Durante il caffè e le conversazioni su argomenti leggeri, ciò che è accaduto a mamma è presente, ma nessuno di noi la menziona a voce alta. Forse è bello non parlare delle circostanze che hanno portato alla morte di qualcuno, ma parlare delle cose belle, dei ricordi e di ciò che ci mancherà, ma la verità su mamma, su tutti noi, cresce dentro di me. Dentro di noi. So cosa vuol dire. Abbiamo mai avuto dubbi? Portarla al San Camillo é stata la cosa giusta da fare? Certe cose fanno male. Fa male la morte di chi si ama. E’ qualcosa a cui non si smette mai di pensare. E’ stata una brava mamma. Sì. E’ vero. Torno a casa. A Ostia. Ora sono seduto su una panchina del Pontile, terrorizzato dallo scorrere del tempo, dagli istinti. Dal fatto di non avere il controllo di essi. Da ogni piccola scheggia di tempo, la trasformazione di un infinito numero di cellule. Dall’aria che cambia, il mare di fronte a me che è la stesso ma nello stesso tempo non lo è, da mio fratello Stefano che è invecchiato, io che sono invecchiato, impercettibilmente ma inevitabilmente invecchiato, e dal fatto che, in qualsiasi momento, può crollarmi qualcosa in testa dall’alto, e distruggermi. La verità può arrivare tramite un dettaglio, il tempo delle rivelazioni può arrivare e cogliermi impreparato, di sorpresa. Non appena mi sono assicurato che tutto è a posto, che ho io il controllo, questa sensazione lascia il posto a una nuova scheggia, anch’essa insicura, fugace, pericolosa, e come si fa a vivere una vita che appare così effimera, così temporanea? E costantemente quella sensazione di solitudine, nonostante la famiglia, la condivisione. Simonetta, mia moglie. Gabriele, mio figlio. Ventiseienne. Alessandro, l’altro mio figlio. Diciottenne. Loro sembrano pensare che quello che è successo non abbia toccato solo me, ma anche loro, forse nel tentativo di alleggerirmi il peso. La morte di mamma, quella perdita che conosco solo io e nessun altro, colora tutti i miei giorni, a parte qualche breve, quasi euforico, istante di oblio. Ed è di nuovo qui, come un peso. E’ come se mi avessero diagnosticato una malattia mortale e io tenessi la diagnosi per me, perché non ce la farei a sopportare le espressioni dei loro visi se lo dicessi. Certo, lo ripeto, dal 29 luglio la mia famiglia mi sta vicino. Questo mi trasmette una strana sensazione di sicurezza, di innocenza, ma le notti sono terribili. Mi sveglio con il cuore che batte talmente forte che ho paura che stia per fermarsi, che non ce la faccio più, che morirò. Sì, spesso la notte mi sveglio senza fiato. Mi alzo e mi siedo davanti alla tivvù, tiro fuori il vecchio videoregistratore dall’armadio e cerco i filmati registrati dai miei genitori quando eravamo piccoli. Tengo il volume basso e la luce spenta. Mia madre e mio padre si passano la telecamera, e la famiglia fa cose da tipica famiglia. Filmano me e Stefano che giochiamo con il pallone. Io e Antonella che corriamo al Parco della Rimembranza di Collevecchio. Io e mio padre che giochiamo a ping-pong, mentre mio fratello impara a camminare. Mia madre che fa un filmino di prova con mio padre, hanno appena comprato la videocamera. Cinquant’anni fa. Sembra così giovane, assomiglia a me. E io cerco qualcosa, un filo conduttore o un dettaglio nella mia storia, che possa spiegare ciò che è successo, perché è andata così, ma niente. Non trovo niente. Niente che possa giustificare la morte di una madre. Ciò che mi fa paura è il silenzio. Non poterle più parlare. Vorrei avere almeno un attimo, mamma, anche solo per dirti ciao. Me ne vado presto dal Pontile, per camminare verso casa. La morte di mamma mi fa ancora male. Credo di essere un po’ depresso. A volte mi viene da piangere nelle situazioni più strane, e vorrei essere in cattiva salute, vorrei stare per morire. Forse domani, forse non prima di altri cinquant’anni, ma prima o poi il mio corpo cambierà direzione, inizierà l’atterraggio. A parte qualche mal di testa e il fatto che sono ancora un po’ sovrappeso, fisicamente sto bene. Non mi sto spellando in maniera preoccupante, non mi sento raschiare quando respiro, i miei organi interni, il fegato, i reni, tutti eseguono le loro funzioni biologiche come dei bravi lavoratori obbedienti. Mi sembra uno spreco. Non finirò mai di ringraziare i miei genitori, che mi hanno insegnato fin da piccolo l’importanza di poter essere ciò che si è e di trattare gli altri con rispetto e dignità. Sono stati fantastici. Comunque, appena mi muovo un po' ho subito il fiatone. Cavolo, inizio a invecchiare. A volte sogno una cassa da morto ad assi povere con dentro un salma. La mia. Ma, proprio quando cerco di compatirmi un po’, la memoria mi fa strani scherzi e comincia un viaggio a balzelloni tra episodi della mai vita che io vorrei dimenticare, ma che la memoria, appunto, mi rimbalza indietro, pam, pam, pam, come un muro con un palla da ping pong! Pam: io dai salesiani del Testaccio. Pam: io alla Chiesa del Giglio che sposo Simonetta, la sabina. Pam: io, che cullo Gabry, ascoltando Bob Dylan. Pam: io, che cullo Alex, ascoltando Bruce Springsteen. Pam: io che mi laureo. Pam: io che lavoro alle Poste di Fiumicino. Pam: io che lavoro al Comune di Roma. Pam: io che lavoro al Ministero dell’Agricoltura. Pam: io che piango nonno Angelino, nonna Leonella, nonna Jole. E zia Valeria. Pam: io che seppellisco papà Valeriano. Pam: io che seppellisco mamma Ernesta. Pam: io, over the rainbow. Mi sembra di muovermi lateralmente, sempre più lontano dalla vita che mi sarebbe piaciuto fare, sospinto –dal destino o dalla incapacità do prendere decisioni giuste, che importa?- su terreni sempre più paludosi nei quali la virtù e le qualità che mi si riconoscono (ritengo di essere un uomo sensibile, discretamente colto, con un certo senso dell’umorismo, fondamentalmente buono) non servono a niente e i difetti di cui mi accuso (so di essere distratto, timoroso, poco determinato, persino ingenuo) finiscono col farmi affondare sempre di più. Dite che sto parlando a coda di porco, intorcinata, non in forma esplicita? Vabbè, ok. Arrivo a casa. Mi siedo sul divano, di fronte al mare. Ascolto Bob Dylan, a luci spente. Mi inganna l’oscurità. Sono un mercante di libri maledetti. Fuori dal tempo. Forse, non ho capito nulla. Né qui, né altrove. E morirò. In terre lontane? A Collevecchio? A Ostia? Sicuramente, sotto una cupola stellata. Alle radici del cuore. Addio arcobaleno, ciao. Con un sospiro, mi raggomitolo sul divano e rimango ad ascoltare il mare. Mario Pulimanti (Lido di Ostia –Roma)

venerdì 14 giugno 2013

51 racconti brevi di Mario Pulimanti

51 racconti brevi di Mario Pulimanti 1) ALESSANDRO Alessandro, il mio secondogenito, è nato a Ostia, all'Ospedale Grassi, alle 4 del mattino di mercoledì 9 novembre 1994. Mentre nasceva, la radio stava trasmettendo lo splendido brano di Willie Nelson "Georgia in my mind". Sono cose che succedono. Di rado, certo, una volta nella vita, forse due, ma posso assicurarvi che succedono perché è successo a me. Non ci potevo credere neppure io, eppure ero lì: la mattina del nove novembre all’ospedale Grassi di Ostia, una buona struttura idonea a favorire un trattamento più umano del paziente. Era il 1994. Il calendario della Chiesa Cattolica Romana, festeggiava Sant’Oreste di Tiana medico morto nel 304 martire in Cappadocia, durante la persecuzione di Diocleziano. Torturato e martoriato con i chiodi perché non rispettava i principi deontologici della corporazione dei medici pagani, che nella sostanza praticavano la stregoneria facendosi pagare lautamente dai loro pazienti. Ero appena uscito dall’Ospedale. Stavo rientrando a casa. L’autoradio mi stava facendo ascoltare Willie Nelson che cantava “Georgia on My Mind”, la canzone ufficiale dello stato degli Stati Uniti della Georgia. Erano le 5 di un mattino piovoso. Due ore prima era nato Alessandro. Mario Pulimanti (Lido di Ostia –Roma) 2) GABRIELE Gabriele, il mio primogenito, è nato a Roma, all'Ospedale San Giacomo, alle 20 e 30 di sabato 18 ottobre 1986. Mentre nasceva, la TV stava trasmettendo la sigla di apertura della trasmissione”Fantastico 7” con Pippo Baudo, Lorella Cuccarini, Alessandra Martines, il Trio Lopez-Marchesini-Solenghi e Nino Frassica. La sigla era “Tutto matto” cantata da Lorella Cuccarini. Gabriele non ha paura di dire ciò che pensa. Lui esprime sempre le sue idee. Però non è uno sconsiderato. Sostiene che a meno che un individuo non sia particolarmente versato nell’arte della retorica, le parole che pronuncia in un luogo pubblico ben presto volano fuori dal suo controllo, come foglie al vento. Una verità innocente può essere stravolta in una menzogna fatale. Ecco perché non parla di politica fuori di casa. O con estranei poco affidabili. Mario Pulimanti (Lido di Ostia –Roma) 3) PORNOGRAFIA PESANTE Ciao, mi chiamo Mario. Mario Pulimanti. Negli ultimi tempi fluttuo in un mare di dolori fantasma e sensazioni fasulle, create dal cervello per tormentarmi e confondermi. Sento il solletico di una mosca anche se non c’è nessuna mosca. Sono sempre più distratto. Non avverto nulla e mi rendo conto in ritardo al bar che una tazza di caffè bollente mi si è rovesciata addosso e mi sta ustionando. Sarà perché ho 56 anni? Comincio a analizzare ogni mio pensiero, cercando qualcosa di anormale o di alterato. Mi costringo a star sveglio di notte perché ho paura dei miei sogni. I sogni sembrano reali e non lo sono, e mi rendo conto che sono molto vicini alla pazzia. E poi, a casa sono un disastro. Così come, sul versante femminile, esistono le mani di fata, su quello maschile esistono gli uomini veri, quelli da amaro Montenegro, capaci di salvare cavalli ma anche di aggiustare oggetti, di riparare guasti domestici, di lavare i piatti e di cucinare. Io, ahimé, come molti altri uomini, non appartengono a questa categoria. In realtà so fare tante altre cose. Leggo moltissimi libri e me li ricordo. Credo di cavarmela con la scrittura e malgrado quello che dicono certi miei colleghi, penso di lavorare con impegno e con discreta abilità. Faccio delle belle fotografie. E poi quando c’è da bere e da mangiare sono un vero professionista! Ma, come dice mia moglie Simonetta, in tutto il resto, o quasi, sono un disastro. E quando dico disastro non esagero. Perché la mia vita è punteggiata, quotidianamente, da sconfitte imbarazzanti. Prendiamo la botanica. Vi dico subito che Simonetta ha il pollice verde. Ogni pianta che lei mette in casa diventa un baobab. Io, invece, sono una catastrofe vivente. Ogni pianta che metto in ufficio muore dopo pochissimi giorni. Sono l’Attila delle azalee, dei ficus e degli oleandri. Passiamo alla cucina. Per sintetizzare il mio rapporto con i fornelli sarò esplicito: non so cucinare nemmeno un uovo al tegamino. Quando prendo in mano una padella divento Fantozzi. Confondo il sale con lo zucchero. Mi brucio le mani quando scolo l’acqua della pasta. E le poche volte che ho provato a cuocere una bistecca i vicini hanno chiamato i pompieri per via del fumo, che ho provocato nel palazzo. Poi c’è il bricolage. Se c’è da attaccare un quadro mi prendo a martellate da solo. Se devo bucare una parete col trapano mi ritrovo nel salotto dei vicini di casa. Non parliamo dei miei maldestri tentativi quando c’è da sturare un water: provoco un maremoto e allago l’appartamento. Se cerco di aggiustare una presa elettrica faccio saltare la corrente in tutto il quartiere. E pensare che ero stato sul punto di rifarmi da solo l’impianto elettrico di casa. Già, prima che i miei, saputolo, fuggissero in una sperduta isola dell’Oceano Indiano. Un ottimo motivo per cambiare subito idea e chiamare l’elettricista di fiducia, certo! Da solo non riesco a mettermi un cerotto al dito. E se prendo in mano un tubetto di attaccatutto resto per tre giorni con il pollice incollato all’indice. Piuttosto che cambiare una gomma della mia automobile, vendo l’automobile. Perché potrei restare lì, a combattere col crick, per intere settimane. Impazzisco quando c’è da registrare qualcosa in Tv usando il timer. Se decido di registrare un film mi ritrovo sul nastro un documentario sulla vita delle renne nella Lapponia orientale! A Pasqua sono andato a trovare mia suocera a Collevecchio, un paesino di campagna. Ho fatto tutto quello che c’era da fare: zappare, potare, ripulire, non dovevo avere rimorsi di essere accusato di stare seduto con le mani in mano. Senza scompormi, vi avviso che mi sono tagliato un dito. Ho acceso il fuoco nella sala da pranzo: è stato purtroppo necessario l’intervento della Protezione Civile. Ho sbagliato, a quanto pare. E a mia moglie che mi inseguiva facendo dondolare pericolosamente l’accetta che teneva in mano, fischiettando allegramente le ho fatto presente che doveva, invece, premiare il mio piccolo sfoggio di zelo. Anche se, tuttavia, non è passato inosservato e ha fatto qualche danno. Vero, posso però dire che mi sento più a mio agio con penne e matite. In fin dei conti, nessuno è perfetto! Arrivo a Ostia. Entro in una libreria. Acquisto “La regina di Pomerania e altre storie di Vigàta” di Andrea Camilleri e “Le Beatrici” di Stefano Benni. Poi,incuriosito dalla copertina acquisto anche un racconto pornografico di Tinto Brass “Elogio della donna erotica” . Prendo il bus. Arrivo al portone. Entro. Salgo le scale. Incontro Alex. Vicino a lui, una coppia di condomini. Li saluto. Poi Alex ed io entriamo a casa. Chiudo bene la porta d’ingresso. “Che cos’hanno quei due che non va?” chiede Alex. “Niente di nuovo, no?” dico io. “Quasi non si rivolgono la parola”. “Tutte le coppie sposate prima o poi finiscono così”. “Ma una volta era diverso”. “Bé, tu non sei di grande aiuto”: “Neanche tu”. “Cosa vuoi dire?”. “Ma sta’ zitto!”. “Sei un idiota papà”. In questo periodo le conversazioni tra di noi di rado durano più a lungo. Sarà per colpa dell’età dello sviluppo… Faccio una doccia. Bevo un bicchiere di cognac. Poi la grande decisione. Debbo dedicarmi al bricolage domestico. Mi sento felice, più felice di quanto non mi sia sentito da molti giorni e molte ore. Non so cosa mi spinga, dopo sei mesi di buoni propositi e tergiversazioni, a riparare il buco sbrindellato sopra la porta della cucina nel punto in cui l’elettricista ha portato i fili per un nuovo allacciamento. Comunque, va tutto per il verso sbagliato sin dal primo momento. Lo stucco in polvere, comprato quasi due anni prima, si è indurito come un blocco di cemento e la rudimentale scaletta che ho in casa non è mai stata stabile sulle sue gambe traballanti. Ma qualunque sia stato il motivo del mio improvviso bisogno di riempire quel maledetto buco, sprofondo in verticale dalla cima della scala, come un paracadutista in caduta libera. Cado sul piede destro con dolore lancinante, resto a terra per un paio di minuti con un senso di nausea, asciugandomi il sudore freddo che mi si forma sulla fronte, e finalmente zoppicando riesco a raggiungere la sala da pranzo dove, con il fiato grosso, mi siedo sul divanetto. Dopo un po’ il male si attenua e mi sento alquanto rassicurato, ma mezz’ora più tardi compare il gonfiore mentre fitte strazianti e improvvise mi tormentano il collo del piede. Riuscirò a guidare? So che è assurdo solo provarci. Sono le sette di sera di mercoledì 18 aprile. C’è solo una cosa da fare. Arrancando e barcollando raggiungo il telefonino e chiamo Gabry. E, nel giro di mezz’ora, mi ritrovo a sedere sconsolato nella sala d’aspetto del pronto soccorso dell’Ospedale Grassi di Ostia, in attesa dell’esito delle lastre. Mi sento un po’ depresso. Sta pure piovendo. Alla fine sono visitato da un medico giovane che contempla le mie lastre con tutto l’interesse di un invitato annoiato che dà un’occhiata fuggevole alle diapositive delle vacanze del suo ospite. “Niente di rotto”. Mi prescrive un bendaggio e le stampelle fornite dall’ospedale. Esprimo la mia gratitudine nei confronti del medico e, vacillando esitante, torno da Gabry che mi aspetta. “Lei” mi grida il medico da dietro le spalle. “Lei, Pulimanti. Due giorni niente lavoro. Riposo. Ok?” “Non si preoccupi, grazie” dico. “Lei, Pulimanti. Vuoi guarire, eh? Niente lavoro. Due giorni. Riposo. Ok?” “Ok”. Oh, Signore! Ritorno a casa. Dopo che Gabry se ne è andato, resto a sedere con le mani congiunte davanti alla faccia, le punte delle dita che si toccano e gli occhi chiusi, come se pregassi una benevola divinità di gettare una luce sul mio sentiero oscuro. Ma, sia pur senza volerlo, ho da tempo fatto la tara all’idea che esista un qualsivoglia agente sovrannaturale. Sto solo pescando con pazienza nelle acque torbide della mia mente. “Dunque?” dice Simonetta appena mi vede. “E’ molto, molto doloroso. Per via delle terminazioni nervose o qualcosa del genere. Ma in fin dei conti è solo una contusione” rispondo io. “Bè, anche se non te lo meriti, vado a preparare la cena”. Mica male, tonnarelli al tartufo, accompagnati da un Chiaranda del Merlo, fermentato in rovere ed affinato in bottiglia! Mangio con gusto. Simonetta risponde al cellulare. Poi si gira lentamente sui tacchi e se ne va. E mentre sto seduto in cucina con lo sguardo fisso sulle piastrelle bianche mi sento travolgere da un sentimento di disprezzo per me stesso, di solitudine e infelicità. Sta facendo buio quando finalmente esco di casa. Salgo sulla mia Ford, esco dal cortile, nel quale le pozzanghere sono ormai quasi asciutte, e giro a sinistra per immettermi a Corso Duca di Genova diretto al teatro Manfredi. Mentre supero la rotatoria vicino alla posta centrale vedo due persone accanto alla strada con il pollice alzato. Una di loro è una ragazza, una ragazza carina, per quel che posso giudicare. Forse anche l’altra è una ragazza. Difficile dirlo. Le sorpasso. Costeggio Regina Pacis. Parcheggio la macchina. Ed entro al teatro. Come dice Giorgio Albertazzi: “Il cinema è bello, ma se lui è la pelle, il teatro è lo spirito”. Mio padre, il poeta Antonio Valeriano, usava spesso dirci: “Amo l’arte e il bello in generale. Amo il mare e il suo profumo. Mi piace osservare le stelle. Adoro la campagna dolce di Collevecchio. Amo il cinema. Ma più di tutto amo il teatro, da quando ho memoria”. E lui, che aveva iniziato scrivendo opere teatrali, ci confessava che il teatro lo attraeva molto, reputandolo una forma letteraria più completa rispetto al racconto e anche allo stesso romanzo. A mezzanotte sono di nuovo a casa. Non c’è ancora nessuno. Vado a letto. Non riesco a dormire. Per tutti gli dei, l’unica soluzione è alzarsi e provare a fare qualcosa per distrarmi. Non ho intenzione di camminare per casa a questa ora del mattino, così accendo l’abat-jour, prendo il libro di Tinto Brass dal comodino e mi appoggio con la schiena sui cuscini per leggere. Quando la pallida luce dell’alba comincia a diffondersi su Ostia, il libro ormai mi è caduto sul petto e io sonnecchio tranquillo, immerso in un sonno privo di sogni. Mario Pulimanti (Lido di Ostia –Roma) 4) PROFONDO COME IL MARE Lunedì mattina Giovanni sente i postumi dell’alcol. E’ un uomo con la barba, un modo di fare spigliato, cinque figli piccoli e un occhio attento alle signore. Alle 12 ha una importante riunione e sta riguardando gli appunti sulla sua relazione con angoscia crescente. Alle nove Fiorella gli ha portato una tazza di caffè nero e bollente: lei lo capisce sempre e di solito glielo fa notare. E’ in piedi dalle sette, ha preparato la colazione ai ragazzi, lavato camicie e camicette, rifatto i letti, passato l’aspirapolvere nelle camere e in questo momento si sta infilando il cappotto nell’ingresso. Sporge la testa nello studio. “Tutto bene?”. Giovanni s’infastidisce a sentirselo ricordare. “Devo prenderti qualcosa al supermercato?” Sembrano vivere in un perenne stato di belligeranza, fissandosi l’un l’altra dai due lati di un confine che da tempo è oggetto di dispute. Fiorella! Fiorella! Quanto vorrebbe poterle parlare. “No. Niente, grazie. Senti, Fiorella, tra poco esco anch’io. Puoi aspettare cinque minuti?”. “No. Devo andare. Ci sei a pranzo?”. A che cosa serve? “No. Mangio qualcosa fuori”. Sente la porta sbattere fragorosamente e la guarda camminare spedita fino alla fine della strada e sparire alla sua vista. Va in cucina, si riempie un bicchiere d’acqua fresca e vi lascia cadere dentro due compresse di aspirina solubile. Poco dopo sale in macchina, pronto per la sua riunione. Sono le sei del pomeriggio quando esce dall’ufficio. Il traffico sta diminuendo e il viaggio verso casa è scorrevole. Apre al porta e appende il cappotto. Che strano odore. Gas? “Fiorella?”. Lascia la sua valigetta nello studio. “Fiorella?”. Si dirige verso la cucina. Adesso l’odore del gas è più intenso. Giovanni ha la bocca completamente secca e la sua voce tradisce il panico. “Fiorella!”. La porta della cucina è chiusa. La apre. L’odore nauseabondo del gas lo colpisce con un urto quasi materiale. La testa di Fiorella è appoggiata sullo sportello del forno. Apre la finestra. L’odore è ancora fortissimo e nauseante e sente il vomito salirgli in gola. In quel momento capisce che è morta. Sul tavolino c’é una lettera indirizzata a lui. La prende e apre la busta con delicatezza. “Caro Giovanni, quando leggerai questa lettera io sarò morta. So che cosa significherà questo per te e per i ragazzi, ma ormai ho deciso di farla finita. Ripenso ai primi tempi, quando eravamo così felici. Niente e nessuno potrà portarceli via. Stai vicino ai ragazzi. Spero che tu possa perdonarmi. Fiorella”. Giovanni legge la lettera. La sua disperazione non può raggiungere un abisso più profondo. E’ un uomo spezzato, distrutto. E’ un dolore profondo il suo. Profondo come il mare. E’ una notte scura e la luna è lontana, coperta da nuvole sempre più basse. Rettangoli di luce attenuata dalla tende risplendono in gran parte delle stanze che danno sulla strada e in molte scorge la luce azzurra degli schermi televisivi. Guarda in particolare la casa di fronte. Alza lo sguardo verso il cielo. Sale sul parapetto del davanzale. Si getta di sotto. Muore, stringendo sul petto la foto di sua moglie. Quando i soccorritori gli si avvicinano, sulla fotografia spiccano ancora le tracce delle sue lacrime. Mario Pulimanti (Lido di Ostia –Roma) 5) COME SASSO NELLA CORRENTE Tento di aprire gli occhi aiutandomi con le dita, ma le palpebre sembrano incollate. Raddoppio gli sforzi, ansimando, incapace di strapparmi dal sogno. Poi, in un attimo, mi sveglio. I miei occhi sono spalancati, le mani tremanti appoggiate al bordo del letto. Balzo in piedi, rendendomi conto che ho dormito o comunque ho indugiato sui confini del regno del sonno. Ho la sensazione che le mie gambe siano rigide come pezzi di legno. Barcollando, mi dirigo verso il bagno. Accendo la luce. Accecante. Mi avvicino al lavandino. Mi spruzzo in viso. Avverto con piacere il contatto con l’acqua fresca. A questo punto, ricomincio a sentirmi umano, per quanto debole. Vorrei camminare, con lo sguardo fisso sulla luce del sole che si rispecchia sul mare. Una mano sulla spalla mi risveglia da questi dolci pensieri. E’ Gabriele. Gabriele non ha paura di dire ciò che pensa. Lui esprime sempre le sue idee. Però non è uno sconsiderato. Sostiene che a meno che un individuo non sia particolarmente versato nell’arte della retorica, le parole che pronuncia in un luogo pubblico ben presto volano fuori dal suo controllo, come foglie al vento. Una verità innocente può essere stravolta in una menzogna fatale. Ecco perché non parla di politica fuori di casa. O con estranei poco affidabili. “Stai bene, papà?” Traggo un profondo respiro. “Sì”. “E’ colpa di questa umidità terribile e innaturale. E’ come un castigo. Secondo me, intorpidisce il cervello e brucia lo spirito, Dovresti sdraiarti e riposare”. “No! Con questa umidità, il sonno è il peggior nemico dell’uomo. Sogni terribili…”. Saluto Gabriele. Saluto Alessandro. Saluto Simonetta. Decido di farmi una passeggiata in questa mattina di tardo inverno. Le strade luccicano ancora per la pioggia durata tutta la notte. Pioggia purificatrice. Nell’aria aleggia un buon odore di pulito. Arrivo a casa di mia madre. Alla Garbatella. Ha avviato la macchina per fare la pasta. Cominciano ad uscire i fili delle fettuccine e lei le taglia a mano a mano che raggiungono la lunghezza conveniente. Esce nel terrazzo di casa, strappa qualche foglia di basilico che cresce in un vaso e di nuovo in cucina insieme alle foglie con pinoli, aglio, olio, sale, pepe, in un bicchiere del frullatore. Prepara la salsa. Mette a bollire la pasta e intanto lavora a un saltimbocca alla romana. Lamine di carne di maiale con fette di prosciutto e una foglia di salvia, il tutto insieme da uno stuzzicadenti e passato in padella. Entra in sala da pranzo con il vassoio pieno di fettuccine fumanti e con la pentola coperta dove riposa il saltimbocca. A tavola, come unico commensale, l’attendo io. Vino? Blanc de Vignes Les Cretes. Un vino Bianco della valle d' Aosta prodotto da un uvaggio di Chardonnay, Priè blanc, Muller thurgau e Pinot Grigio. Amabile, armonico. Austero. La saluto. Torno a Ostia. Passeggio, senza meta. Trascinato dai miei pensieri. Come sasso nella corrente. Arrivo al pontile. Intorno a me centinaia di persone che cercano di spremere alle ultime ore della gioirnata il loro inutile succo di gioia razionata. Intorno a me, donne. Donne sessualmente insoddisfatte. Donne maritate e ben scopate dentro e fuori casa. Molte strillano come una cinghia oliata male. Intorno a me, uomini. Incoerenti, lunatici, curiosi, sordomuti. Mistici. Mah…non importa che la tua fede discenda da Geremia e da Gesù, da Allah e da Maometto, o da Brama e Buddha, qualcuno ti dirà che sbagli e per questo ti combatterà. Eccolo, il mal di testa! Rombi di tuono mi pulsano alle tempie e mi sembra di veder baluginare sottili filamenti di fulmini, che subito svaniscono. Mi stringo le tempie con la punta delle dita, i gomiti all’infuori, in parte per placare il martellamento. Entro in un Bar. Prendo un caffè. Esco. Vedo una macchina attraverso una vetrina. Cammino e imbocco la porta del teatro Manfredi. Gestito da amici. Veri. Saluto Paolo. Saluto Luciano. Saluto Felice. Esco. Entro in una banca. Esco, saluto la guardia di sicurezza che sorride e fa un cenno con la testa. Dio quanto amo il sorriso di una guardia di sicurezza. E’ come l’acqua per un uomo che sta affogando. Attraverso Corso Duca di Genova. La giornata si sta facendo sempre più grigia, cade una pioggerella leggera e un vento irregolare mi soffia frammenti di foglie morte sul naso. Prelevo cento euro al bancomat dall’altra parte della strada, taglio per Via Grenet su fino a Piazza Rendina. Arrivo sul lungomare. Rifletto. Pensieri mistici. Dostoevskij diceva che per rendere la realtà plausibile è assolutamente necessario mischiarci un pizzico d’invenzione. Il dottore alza lo sguardo dalla sua scrivania. “Ha i trigliceridi alti. Quante bustine di zucchero consuma a settimana?” “Cinque”. E’ una piccola bugia bianca. Sono arrivato a cinque bustine lunedì, ma poi ho smesso di contare, così sono rimasto a cinque bustine. “Niente zucchero. Niente alcool. Per un paziente con i suoi valori di trigliceridi, il rischio di attacco al cuore, infarto o trombosi cresce drasticamente.”. Improvvisamente sono tanto, tanto spaventato. Il cuore batte violentemente. Sudore sulla fronte. Il dottore alza lo sguardo. I suoi occhi sono finestre su un cielo di pieno inverno. “Lei appartiene a un gruppo statistico con rischio elevato.” Fuori dallo studio medico si sta facendo buio e fa veramente freddo. Il traffico è rumoroso nell’aria umida di Ostia. Salutandomi, mentre dava un’occhiata all’orologio, il dottore mi ha ricordato che a causa della mia età…e dei miei trigliceridi… si manifesteranno presto vertigini, stanchezza e perdita della libido. E’ tutto finito. Io sono finito. Scandaloso. Un senso di paura cresce dentro di me. Terrore esistenziale. Lo zucchero, l’alcool, il sesso: senza di loro, cos’altro rimane? Mi sento vecchio, stanco e inutile e persino spaventato. Non desidero una vecchiaia olimpica e senza strida, come una sonata per violino eseguita da un linfatico violinista svizzero. Preferisco morire gridando. Quando mi porteranno al mattatoio comincerò a ululare, a bestemmiare e a insultare. Aggiro Piazza Rendina, passo per via Grenet e supero infine l’incrocio di Corso duca di Genova. E qui che abito. Al 253. Il cielo è nero come l’inchiostro, punteggiato di stelle e con qualche spruzzata di nuvole. Il cielo è macchiato dalle scie degli aerei che atterrano e decollano dal vicino Aeroporto di Fiumicino. Entro a casa. Prendo l’album di fotografie. Mi diverte vedere vecchie foto. Toh, ma qui ci sono io sulle spalle di papà. A Collevecchio. Anche qui sono con papà. Al mare. E qui sono con papà. Allo stadio. Quando mi addormento in poltrona, mentre nel camino il fuoco si spegne lentamente, sulle pagine lucide dell’album si notano ancora le tracce delle mie lacrime. Mario Pulimanti (Lido di Ostia –Roma) 6) A OSTIA ZERO GRADI Arrivo a casa dopo le otto di sera. Abito a Ostia, in un appartamento tra Corso duca di Genova e Piazza delle Repubbliche Marinare. E’ un quartiere un pò rumoroso, ma a me piace così. Le strade sono sempre piene di ragazzi che fanno il giro dei bar. Passano le serate proprio sotto la mia finestra, comunicando a strilli. In compenso, il costo degli appartamenti è troppo alto. La stanchezza si abbatte su di me a ondate, come una marea, ma io e il sonno non siamo buoni amici. Nelle notti migliori riesco ad avere due ore di sonno REM prima che lo stress mi svegli. Do la colpa al mio lavoro, dato che è più facile che incolpare me stesso. Sono stato da vari medici generici, ma non ho mai ceduto all’idea di andare da uno strizzacervelli. D’altra parte l’insonnia mi da mordente: meno sonno equivale a più produttività. E poi molte persone trovano sexy le borse sotto gli occhi. “Ciao, papà, come è andato il lavoro?” mi chiede Gabriele. “I colleghi sono dei gran mattacchioni, una volta scolato qualche drink. Nah, sto scherzando: solo in ufficio diventiamo ancora più noiosi. Ho appena avuto una discussione di due ore con alcuni di loro su…una legge riguardante i pomodori siciliani”. Mi viene incontro Alessandro. Sorride. Mi viene incontro Simonetta. Sogghignando mi avvisa che ha avuto un problema con la macchina sull’Ostiense. Cavolo, è dovuto intervenire il carro attrezzi per portarla dal meccanico. Ahi! “Mal di testa” le dico. Riesco a fare una smorfia di sorriso. “Vuoi un analgesico?” risponde. “Sì, grazie” Va in cucina. “Saridon?” domanda lei da dietro la credenza in legno precomposto colore rovere sbiancato. “Benissimo.” Mi porge la pillola, inarcando un sopracciglio. “Devo proprio ringraziarti per questo. Non ti sei arrabbiato!” “Non c’é problema” le rispondo. Intanto penso a quello che diceva mio nonno: “Donna al volante pericolo costante!” Mah, è solo un luogo comune...…però… Mi metto una vecchia T-shirt, e mi infilo a letto. Penso a Simonetta e alla macchina. Penso a Gabriele e all’Università. Penso a Alessandro e al suo Circolo. Penso allo stipendio. Penso al teatro. Penso ad un collega. Un saccente che te lo raccomando, tutto quel che dici sbagli. Quando gli daranno il Nobel sarà ancora poco. Penso ad una collega. Femmina. Aspetto scialbo, fianchi pesanti, capelli castani, corti, con taglio tutte punte, tipo Peter Pan. Accidenti! Quella donna riesce sempre a rendermi più triste di una vedova senza pensione. Come se non avessi abbastanza cose per la testa. Il riposo, come previsto, rifiuta di ubbidirmi. Mi giro. Mi rigiro. Faccio esercizi di respirazione e di rilassamento che mi portano vicino al sonno, e forse, per brevi periodi di tempo, a un sonno vero, da cui vengo strappato dopo pochi minuti. Provo un enorme sollievo quando la radio sveglia suona e viene l’ora di andare al lavoro. Faccio la doccia, indosso una camicia celeste, una giacca blu con pantaloni in tinta, e esco. Le otto del mattino e la temperatura è rigida. Incredibile: zero gradi! Ostia, città che ha un buon odore nelle giornate normali, quando c’è una umidità così vellutata profuma ugualmente di salmastro. Devo passare da un vicolo per raggiungere la fermata del bus. Diamine, il tanfo dei cassonetti della spazzatura mi colpisce come un cazzotto. Proprio di fronte alla fermata, c’è un bar aperto. Ordino un caffè, nero. Bevo un sorso e faccio una smorfia. Troppo amaro. Caffeina in bocca, varco la porta del bar e prendo il bus. Sono raffreddato. Sì, cavolo. Ho dei ghiaccioli che mi pendono dal naso. C’é altro? No, una giornata come tante altre. Perfetto. Mario Pulimanti (Lido di Ostia –Roma) 7) INCIDENTI DI PERCORSO (L’APPARENZA INGANNA) Sono in macchina. Sto tornando da Fiumicino. Aeroporto. Via della Scafa, direzione Ostia. L’unica macchina silenziosa in tutta l’ingorgo. Devo essere il solo guidatore che si astenga dal mantenere una pressione costante sul clacson. Non è che gli altri ci guadagnino chi sa che a strombazzare. Non gli vedo spuntare le ali, ai loro catorci. Né che le macchine da cui sono circondati si ritirino come le acque del Mar Rosso davanti a Mosè e agli ebrei inseguiti dal farabutto, o quel che era. Fermi sono e fermi rimangono. Esattamente come il sottoscritto. Per questo mi posso permettere il giochino con le dita che mi aveva insegnata nonna Leonella. Non è che ci sia un gran che da fare, a stare chiusi in una macchina ferma senza nemmeno una copia della Enciclopedia Treccani sottomano. Finito di giocare con le chiavi, mi metto a studiare oziosamente le facce visibili al volante delle macchine che assediano la mia decrepita Ford Fiesta. Sono tutti incastrati per bene all’incrocio tra Via della Scafa e il Ponte della Scafa, che è il ponte che passa sopra il fiume Tevere e che divide i comuni di Roma (Ostia) e Fiumicino. Anch’io, come altri guidatori, alla faccia del freddo, ho i finestrini aperti per vedere meglio la situazione dell’ingorgo. Cavolo, il traffico in questa strada è diventato letteralmente impossibile da anni e anni, e comincia già dallo scalo aeroportuale. Uno scenario di automezzi fermi o che camminano a passo d'uomo. Intanto, mi crogiolo in un umore meditaticcio. L’autoradio mi sta facendo ascoltare “Over the Rainbow” (anche nota con il titolo “Somewhere Over the Rainbow”). Il titolo significa letteralmente "Oltre l'arcobaleno". La versione originale è cantata da Judy Garland per il film Il mago di Oz del 1939, ma quella che sto ora ascoltando è la famosa versione del cantante hawaiano Israel “IZ” Kamakawiwo'ole, soprannominato “Gigante buono”, morto nel 1997 all'età di 38 anni. Nell'ultima parte della sua vita Iz divenne obeso e arrivò anche a pesare 340 Kg. Versione stupenda. Voce meravigliosa. E' una delle poche canzoni che riesce a farti venire i brividi, una ballata dolcissima con la quale Iz ti culla delicatamente. E l'ukulele come unico strumento, col suo suono particolarissimo, rende indimenticabile una canzone già unica. Penso ai salesiani del testaccio. Don Galoppo amava citare questo verso del Vangelo di Matteo: “Osservate i gigli del campo. Osservate come crescono i gigli del campo: non lavorano e non filano....” Don Galoppo, amico di mio nonno Angelino, nonché professore, prima di me, anche di mio padre e di zio Romolo. Penso ai tempi di Jimi Hendrix e Janis Joplin. Allora, non vedevo l’ora di andare all’università; per quanto mi riguardava, era lì che la vita diventava davvero emozionante, a differenza del noioso e vecchio liceo. Sacro Cuore dai salesiani, al ginnasio e Socrate, al liceo. In questi posti mi trattavano ancora come un ragazzino e nessuno si interessava a quello che pensavo del mondo. All’università sono diventato un vero studente. Partecipavo alle manifestazioni di GS e a cose di quel tipo. Ricordo i mie primi giorni di lavoro. Neoassunto e infimo nella gerarchia. Con uno zelo da ultimo arrivato profondevo su quelle antiche pratiche settimane di fatica, e ancora mi stavo arrovellando su quali fossero necessarie e quali superflue quando mi chiamarono dalla direzione e mi dissero che c’era un lavoro importante di un collega in malattia. Io avrei dovuto sostituirlo, il che comportava la piacevole incombenza di redigere relazioni su prestigiosi istituti di ricerca italiani. Diamine, penso a Gabriele. Verso i soldi ha un atteggiamento un po’ schifiltoso. Come il sottoscritto, del resto. Questa mattina sono andato a trovarlo alla Facoltà di Giurisprudenza di ’Università “Roma Tre” per proporgli di pranzare insieme nei dintorni, prima di ritornare alle nostre rispettive attività. “Ho solo il tempo per un caffè, papà” mi ha risposto. “Ma in piedi, al distributore automatico. E a patto che tu abbia le monete”. In realtà, quella di condividere il pranzo era solo una mezza scusa. La verità è che volevo stare insieme a lui. A casa lo vedo così poco. Prima che lo salutassi, mi ha avvisato che Simonetta e Alessandro sono andati a Collevecchio e torneranno domani. Mi ha anche consigliato di suonare alla porta stasera, prima di aprire con le chiavi. “Beh, se non vuoi rischiare di trovarti tété-à-tété con una bomba sexy, distesa nuda sul mio divano….” ha aggiunto ridendo. “Oooooh!” ho risposto dandogli un puffetto sulla guancia. Poi sono tornato in ufficio. I Ministeri sono i luoghi meno discreti dell’universo conosciuto perché sono saturi di microspie. Niente di tecnologico, per carità: sono microspie umane, soggetti geneticamente modificati per acquisire un superudito e una supervista. E poi, siccome hanno pure la lingua geneticamente modificata, la usano per rendere edotto il resto del mondo delle loro scoperte. Chi sa dove arriverei con i miei onanismi mentali se il vicino di sinistra non decidesse di dare una svolta a quel nostro pezzo di vita in comune, mettendo in moto il suo MP3, o quel che è, caricato a lupara con il classico shtump-shtump-shtump, il rumore che vendono solo ai proprietari di Suv e di auto prive di vetri ai finestrini. Glielo forniscono direttamente incorporato nella carrozzeria o nelle marmitte. Forse il titolare di quel rumore ha scatenato ad alzo zero tutti i cavalli vapore dei suoi woofer e subwoofer con la speranza di annichilire e ridurre in poltiglia il parco macchine altrui. Al punto che mi confondo e invece di tirare su i vetri e sigillare i finestrini suono il clacson. L’effetto è inquietante: le macchine davanti a me, di colpo, cominciano a scorrere. Mi lascio superare dal mio vicino di sinistra, perché voglio darli una bella occhiata in faccia. Un classico ripieno da Suv. Il titolare della faccia è un palestrato, un taglia 54 con la testa rasata, occhiali neri avvolgenti, mascellone aggressivo e bomber fornito di cappuccio, che alla bisogna deve tirarsi sulla testa, a scopo profilattico. Mi sembra che abbia persino un accenno di bava alla bocca. Invece la bava appartiene al cane recluso nell’apposito box, un rottweiler o chi sa quale altra marca di cane politicamente scorretta, con un tipico sguardo da disturbo bipolare. Comunque, è problematico capire dove finisce il cane e dove comincia il tanghero palestrato. Lascio sfilare il Suv davanti a me, e per un secondo mi viene la tentazione di mostrare il dito medio alle due malebestie; mi astengo. Così mi limito a mostrare i denti al cagnaccio, che mi ignora di brutto, perché deve sentirsi rintronato ancora più di me dai colpi di grancassa e di tomtom delle batterie. Infatti ha il pelo irto. Mi fa quasi pena. Per buona misura permetto ad un paio di altre macchine di insinuarsi tra me e il Suv. Ho deciso dio prendermela con comodo, questa sera. Dopo essermi districato dall’ingorgo e dal palestrato con rottweiller, a qualche centinaio di metri da casa comincio a cercare posto per la macchina. Il vero problema, di sera, non è trovarlo, il posto, perché dopo le otto non è complicato. Il vero problema si presenta la mattina dopo, quando ti tocca dare a caccia dei proprietari della macchine che ti impediscono di uscire. Quindi, bisogna avere la pazienza e la fortuna di pescare un posto difficile da accerchiare. Trovo un buco decente non lontano da casa mia. Entro nel bar di Gioacchino. Carmelo prepara il caffè maledettemente bene. In quel momento squilla il telefono. E’ mia sorella. “Mario, come va?” “Mi stanno calando gli ormoni, Antoné”. “Ih, e che problema c’è? Pure a Carmine. Da un pezzo. Ma lui ancora non lo sa”. Carmine è il suo compagno, nonché il mio unico cognato, dato che Antonella è mia sorella. Bevo il caffè ed esco dal bar. Incontro Luciano, presidente del Manfredi nonché grande amico. Mi chiede come è andata la giornata. “Sedute di commissioni per tutto il pomeriggio. Seguite da ingorgo di ottanta minuti, con rumoraccio, cane assassino, e coglione taglia 54”. Mi guarda interdetto, in attesa di spiegazioni che non arrivano. Poi alza le spalle e mi saluta. Mentre cammino verso casa pregusto il film che avrei messo sotto il raggio laser del DVD per dilavare il saporaccio dello shtump-shtump-shtump: “Moulin Rouge” con Nicole Kidman, versandomi convenienti razioni di Scott's Selection Macallan nel mio bicchiere preferito. Whisky scozzese dal sentore di torba per accentuare un sapore che è caldo e cremoso. Sto per infilare le chiavi nella toppa, quando mi ricordo dell’ammonimento di Gabry. L’inquietudine aumenta, mentre faccio un rapido dietro-front. Squilla ancora il cellulare. E’ Simonetta. Mi avvisa che Gabriele li ha raggiunti. Decisione improvvisa. Vuol far conoscere Collevecchio ad una sua cara amica. Mmmh: sarà mica la bomba sexy? Perfetto: passo in rosticceria e mi compro una porzione di lasagne e di filetti di spatola. Entro a casa. Stappo una bottiglia fredda al punto giusto di uno zibibbo secco di Pantelleria e ne assaggio un sorso: un balsamo. Spazzolo via tutto con lentezza, assaporando ogni boccone e ogni sorso. C’è pure un residuo di gelato in freezer. Accendo un attimo il pc per controllare le ultime notizie. A dire il vero, il pc lo uso solo quando non posso farne a meno. I fondamentalisti del cyber spazio e i fanatici che provano un orgasmo solo quando trafficano con le frattaglie dei computer, continuano a indurmi sospetto, cautela e circospezione. Uno non fa di tutto per sfuggire a una possibile morte per avvelenamento da chiacchiericci e maldicenze, per farsi poi intossicare dai legnosissimi blogger notturni, portatori sani di sfortuna. Per tutti gli dei, mi va a genio l’atmosfera di questa notte. Mi siedo in poltrona. Nicole Kidman in tutto il suo splendore e la sua bravura mi accompagna fino a notte inoltrata. Poi vado a letto. Mi sveglio alla tre del mattino, in preda al sudore. Temo che per questa notte non chiuderò più occhio. Così mi metto seduto, prende il bicchiere d’acqua che ho lasciato sul comodino e lo prosciugo, quindi lo riempio di nuovo. Mancano diverse ore all’alba. E queste sono le ore peggiori, le ore in cui le mie insoddisfazioni hanno la meglio su di me. Oh, sì, l’unica soluzione è alzarsi e provare a fare qualcosa per distrarmi. Non ho intenzione di camminare per casa a questa ora del mattino, così accendo l’abat-jour, prendo “ I pilastri della terra” di Ken Follet dal comodino e mi appoggio con la schiena sui cuscini per leggere. Quando la pallida luce dell’alba comincia a diffondersi su Ostia, il libro ormai mi è caduto sul petto e io sonnecchio tranquillo, immerso in un sonno privo di sogni. Mario Pulimanti (Lido di Ostia –Roma) 8) TUTTO CIO’ CHE SONO C’é una atmosfera alla Annibale il Cannibale. Sono seduto nella stanza da pranzo, affacciata sul cortile. Gabriele, in piedi vicino alla finestra, mi guarda in silenzio, mentre aspetta che arrivi Michelangelo, suo storico amico. Discute sulla difficoltà per Schettino di evitare il carcere a vita, poi comincia a riflettere sui propri problemi personali. E delle beghe sentimentali. Il vento che viene dal mare percorre la stanza portando un pò di fresco, ma la tensione è diventata quasi un dolore fisico. Gabriele ride nervosamente nel vedere il fratello Alessandro sfilarsi di sotto il giubbotto una rivista sportiva. Simonetta alza il bicchiere di vino stringendolo forte. Finisce di bere il suo Brachetto d'Acqui e dice, con un largo sorriso: "Adesso mi dirai, Mario, perché non sei andato alla riunione di condominio. Bella figura hai fatto con Enzo e con l’amministratore! Ora esco con Anna e Simonetta. Abbiamo deciso di andare a Cineland. Il film sta per iniziare." Tutti, nella stanza, tacciono. Non mi precisa il titolo del film, ma sarà stato una di quelle polpette avvelenate francesi che ti restano sullo stomaco, proprio come quei loro lumaconi alla borgognona, indegni persino di legare le scarpe ai rigatoni cacio e pepe che faceva mia nonna Jole. Punto un dito verso la TV. "Per quanto mi riguarda, vorrei sentire le notizie flash del telegiornale. Tutto qui" aggiungo. Simonetta mi guarda. "Va bene. Esco. Fra mezz'ora inizia il film." Ed esce. Spengo la tivvù. Alessandro scoppia in una risata che fa sussultare Gabriele, scuotendolo dalle sue meditazioni. "Papà esco anch’io" esclama sarcastico, mentre il fratello si stringe nelle spalle. "Vado giù ad aspettare Michelangelo. Andremo al pub." dice lentamente. Saluta e se ne va, passandoci davanti di corsa. "Gabriele" chiamo. Lui non torna indietro e io rimango davanti al televisore stupito per questa sua decisone improvvisa. "Molto bene" commento. Sulla mia faccia non compare l'ombra di un sorriso. Alessandro se ne rende conto. "Ah, papà vado al Circolo” dice. "D'accordo" annuisco, visibilmente sollevato. Rimasto solo, ascolto la radio. Jazz. E’ la musica che preferisco. Vorrei che ci fosse più gente che ascolti certa musica. Musica vera. Non credo che ai giovani interessi molto. Prima di uscire Simonetta, autentica mora sabina, aveva preparato il caffè, autentica miscela brasiliana: costoso, ma squisito. Spengo la radio. Mi siedo sul divano. Mi chiedo: che c’è oltre la memoria? Quasi soprappensiero ripulisco con il dito il caffè rimasto nella tazzina. Mi allento la cinta dei pantaloni con una smorfia di piacere. Raccolgo il telecomando e passo pigramente da un canale all’altro, fermandomi infine su un film che guardo per qualche minuto con annoiata disattenzione, consapevole che mi si stanno abbassando le palpebre. Non sto male. Sono solo stanco, stanchissimo. Chiudo gli occhi e cerco di pensare a qualcosa di utile, per una volta. Mmh...non ci riesco. Mia moglie mi rimprovera che a causa mia è una fila d’anni che non fa più niente di niente, a parte le cose che fa ogni giorno della sua vita. Non sono presuntuoso: diciamo che a spanne, nella scala della competenza mi sento sotto allo zerbino. Forse il punto è questo: la semplice inutilità del tutto…bè, a torta finita, è così. Mi piace passeggiare sulla riva del mare, anche in inverno, leggere, ascoltare musica, andare a teatro, andare al cinema, e soprattutto...mangiare e bere! Sono un uomo di immaginazione piuttosto che d’azione: condannato, come Orfeo, a viaggiare in un Ade di chimere. Patetico. Prima di scivolare nel sonno, penso agli anni ottanta. Il pranzo domenicale di mia suocera. Opulento, straripante, ipercalorico. Prosciutto, salame e salciccia matta per cominciare; due minestre, asciutta la prima e in brodo la seconda, rigorosamente cappelletti, strozzapreti, tagliatelle al ragù, bollito, a dir misto lo si penalizza, agnello fritto e scottadito, cappone, testina di vitello, coratella, piccioni arrosto ripieni, cervello, cotechino, manzo; poi polli arrosto e salsicce ai ferri, con una varietà di patate, in umido, arrosto, fritte, al forno, e verdura a piacere, dai pomodori alla lattuga; pane fragrante appena sfornato dal suo forno a legna; ciambella, zuppa inglese alta una esagerazione e un po’, crema, savoiardi con l’alchermes, cioccolata, savoiardi con l’alchermes, dolci a forma di pesca con l’alchermes, cioccolata e crema…Vino naturalmente, vini Colli Sabini DOC Rossi e Bianchi, Malvasia Bianca, spumanti, amaro Viparo ...Grappa. E alla fine qualcuno recitava poesie di trilussa e qualcuno, semplicemente, finiva sotto il tavolo semisvenuto. Trenta persone intorno a un tavolo, ogni commensale uguale ai suoi due vicini di sedia in nome del sentimento che ha sempre dominato in tutte le famiglie sabine, la compassione è certamente il ricordo più bello, quello che più di ogni altro mi riscaldava il cuore: ed era in nome di quel calore che ancora mi arriva dal passato che cerco di ricordare oggi le scene di un tempo, le persone che amavo intorno allo stesso tavolo, persone scelte sulla base dell’affetto che le legava, il DNA ha ben poco a che fare con i sentimenti. Rosato, mio suocero. Presidente della Confraternita di San Bernardino. Uomo di gran buon cuore, aveva sempre destinato una buona parte delle sue rendite alla beneficenza ed era pieno di amici che lo apprezzavano e gli volevano bene. All’improvviso mi allontano dalle mie riflessioni, scuotendo il capo incredulo. Una notizia sorprendente. Bufera su Celentano dopo il duro attacco alla Chiesa nel suo show all'Ariston, nel quale se l'è presa con i preti e ha detto che Famiglia Cristiana e Avvenire sono ipocriti e devono chiudere. La religione….quella nostra, la cattolico romana, alla quale ci siamo consegnati ci ha aperto un mondo felice e spensierato, che festeggia persino i sacrifici dei suoi martiri, che ci promette una bellissima vita dopo la morte, dove le persone cantano tutte insieme nelle Chiese che odorano d’incenso. Abbastanza divertente, non vi pare? Penso a un mio collega, sabino come mia moglie. Penso che sia un buon diavolo e che non abbia mai preso per il collo nessuno, a parte la bottiglia. Stamattina mi ha parlato di un suo problema familiare. Riguarda suo padre. Ora anche a Poggio Mirteto ci sono coppie decisamente atipiche per i canoni correnti, ma non atipiche per la sabina, una zona nella quale i matrimoni tra anziani possidenti e belle e giovani ragazze recentemente arrivate dalla Russia, dall’Ucraina e dai paesi limitrofi sono abbastanza frequenti. Queste ragazze arrivano in Italia con le idee un po’ confuse e la speranza di sistemarsi in qualche modo; per un po’ fanno le badanti di vecchi malati o strambi e non completamente a casa con la testa. Il loro secondo lavoro é certamente più remunerativo, ma non meno pericoloso, diciamo che si occupano di uomini più giovani che vogliono che qualcuno badi a loro per una sola notte. Ci sono stati anni nei quali sono state costrette a vendere il loro corpo, e piano piano le cose sono cambiate. In quel modo Polina ha conosciuto il papà di questo mio amico... I due si sono innamorati, forse lui un po’ più di lei, Adesso che si sono sposati, alla faccia del parere dei fratelli e dei figli (che lui avesse 85 anni e lei 23 non doveva interessare a nessuno), i due sembrano vivere felici e contenti…mentre al mio collega è venuto l’esaurimento nervoso…. Telefono a mio fratello. Incredibile, anche lui mi racconta un fatto analogo: questa volta si tratta di un uomo che vive nel suo condominio. A Testaccio. Tirchio. Tirchio, come se gli avessero tagliato tutte e due le mani e si lamenta sempre, mentre ha più soldi della Banca d’Italia, soldi comunque liquidi, infilati a casaccio nelle cassette di sicurezza di alcune banche, in un paio di casseforti, forse anche dentro un certo numero di materassi, ma mai trasformati in pezzi di carta perché lui è soprattutto un uomo che si fida poco. Ora sta con un’ucraina. Si sono innamorati e sembrano sul punto di sposarsi, malgrado la palese ostilità dei fratelli di lui e dei suoi due figli che vivono in Germania. Questa persona, apparentemente destinato ad essere scapolo per tutta la vita, fino alla non più tenera età di 62 anni aveva sfogato la piena dei suoi sentimenti su amori mercenari, che sceglieva con cautela e che duravano il minor tempo possibile. Poi aveva conosciuto Lyudmila, e per la prima volta aveva stabilito un rapporto che era durato più di 24 ore. Al secondo appuntamento, lei si era portata una valigia; al terzo, era arrivata con il baule che conteneva tutte le sue cose, ormai era certo che non si sarebbero lasciati più. Incredibile! Saluto mio fratello. Intanto mangio un sandwich e stappo il vino. Scoraggiato, bevo. Ora in pancia ho quasi un’intera bottiglia di buon Brunello. Da Montalcini, ovviamente. Basta così. Sono esausto. E’ stata una giornata molto lunga. Mario Pulimanti (Lido di Ostia –Roma) 9) ZIA NAVINA SAPEVA DI MENTA Il sonno non arriva. Così mi perde in un’ondata di ricordi. Penso che per molti anni, e almeno sino a quando zia Loreda e zia Navina, sorelle di nonna Leonella, erano state in buona salute, nonna mi portava spesso a Collevecchio dalla sorelle, cosa che mi aveva consentito di essere testimone di alcune delle cerimonie tradizionali, quelle alle quali a Collevecchio avevano sempre dato un valore particolare. L’uccisione dei maiali era la prima di queste cerimonie e adesso, ricordandola dopo che tanti anni sono passati, non provo più il senso di smarrimento che mi aveva sopraffatto in quei tempi lontani: le povere bestie, animali di due quintali e oltre, attaccate per le zampe posteriori a una trave della stalla, che venivano sgozzate, e strillavano senza commuovere nessuno; le zie che raccoglievano in grandi catini il sangue che zampillava dalle carotidi sezionate, cercando di non perderne nemmeno una goccia, destinato alla preparazione di un dolce, il sanguinaccio, dopo essere stato mescolato con cioccolata, canditi, zucchero e chissà cosa altro ancora e cotto al forno in capaci teglie di rame; la bollitura del grasso e la preparazione dei ciccioli, che riempivano l’aria di una specie di nebbia bisunta, una sorta di annuncio dei giorni dedicati a magiare tutto ciò che dell’animale non si poteva conservare, il fegato nella rete, pezzetti avvolti in piccoli brandelli di beverelli, cioè di intestino, le costole, le salsicce impastate con aglio e pepe. Rifiutarsi di mangiare quel cibo era considerato dalle due zie una vera e propria bestemmia, ed io non me la sentivo di offenderle: così avevo preso l’abitudine di mangiare tutto ciò che mi mettevano nel piatto. Sapori antichi! Il sonno tarda ancora ad arrivare. Così mi perdo ancora in altri ricordi. Penso alla signora Maria che mi faceva vedere come si castravano i galli, nell’ottica di preparare i capponi ai quali tirare il collo per Natale, e alla cantilena con la quale accompagnava una sorta di gesto magico, bagnando il becco del povero animale nel catino pieno di acqua e aceto nel quale gli aveva disinfettato al ferita: “ C’era un gatto tutto rosa che cercava la sua sposa, la sua sposa non c’è più ed il gatto adesso è blu”. Ah, dimenticavo, zia Navina sapeva di mente! Ma questa volta non riesco a finire il pensiero e mi addormento. Mario Pulimanti (Lido di Ostia –Roma) 10) LA VOCE INVISIBILE DEL VENTO Mi chiamo Mario ed abito ad Ostia. Nessuno sa niente di me. Mi sono tenuto fuori dai radar. Le persone che hanno conosciuto mio padre, affermano che sono il suo ritratto. Lui, il poeta Antonio Valeriano, ha più volte mostrato il proprio coraggio, ma ancora di più ne ha dimostrato nell’ultima battaglia, quella contro la malattia che nel giorno di pasquetta del novantadue lo ha ucciso, ma non piegato. Se sono in difficoltà, penso: papà ti prego fai qualcosa. Lo so che ci sei, da qualche parte. So che mi vedi. Ho sempre fatto tesoro dei suoi consigli. So quando è il tempo di passare all’azione o di starne fuori. Tuttavia ci sono cose che facciamo perché ne abbiamo voglia e altre che facciamo perché ci tocca. Questione di sopravvivenza. Sono fortemente attratto dalla pittura di rottura, che rifiuta il neoclassicismo ottocentesco vetusto e arrogante. Ammiro l’opera coraggiosa dei primi espressionisti e dei secessionisti viennesi. Mi illumino davanti alle scomposizioni cubiste di Cezanne e Picasso, mi esalto con le pennellate di Van Goch, piango con Munch e le sue angosce dilatate. C’è molto vento oggi a Ostia. Erba bianca di brina si stende lungo il prato di Piazza delle Repubbliche Marinare. Raggiungo la spiaggia. E’deserta. Sto sulla riva e guardo con occhi astiosi mare. Sembra scosso da una corrente molto forte. Anch’io mi sento scorrere via. Sono sempre stato uno di quei pesci furbi che ridono quando vedono l’amo camuffato con la mollichella di pane. Girano alla larga. Diversa è la storia quando ti ritrovi dentro la rete e neanche tu sai come ci sei finito. Io non lo auguro a nessuno. Neanche al mio peggior nemico. Ho una certa considerazione del mio spirito critico. Anche se non amo molto i dettagli. Troppi dettagli significano sempre difficoltà, e difficoltà significano un disturbo della mia pace interiore, e questo non posso sopportarlo. Preferisco, comunque, non immischiarmi in problemi che mi risultano troppo sgradevoli e mi getterebbero soltanto nella più penosa incertezza e inquietudine laddove, proprio per far uso della mia ragione, avrei bisogno di certezza e di quiete. Incontro Claudio. Mi presenta Olga, una ragazza moldava. Sottovoce mi informa che non si tratta di una fidanzata ma solo di un’oasi di affettuosità, tenerezze e sospiri. Li saluto e continuo a passeggiare. Dall’alto del Pontile, contemplo il mare. Che bello vedere una tale, sconfinata immensità. Meraviglioso trovarsi davanti a qualcosa di cui non riesci a scorgere la fine. Scruto l’orizzonte che si perde nell’acqua. Rimango per qualche istante con lo sguardo perso in lontananza. Poi guardo verso il punto in cui il mare si ricongiunge alla terra. A riva si scorgono cinque gabbiani vicino a delle imbarcazioni. Incontro Gabry ed Alex. Gabriele ha 25 anni e Alessandro 17, ma mi ricordo bene quando erano piccoli. La visita dell’ostetrica. Il bagnetto, il cambio dei pannolini. Gli annessi e connessi: i marsupi, le carrozzine, i lettini, le culle di vimini, i biberon, gli sterilizzatori. Adoravo tutto questo. Passavo la metà delle mie ore non lavorative a cullarli. Stanno andando a Cineland, con una comitiva di amici. Toh…Giorgio…quanto tempo che non lo vedo! Sta andando ad un ricevimento di una sua amica. Mi invita a seguirlo. Mi faccio convincere. La sua amica é una vedova di quasi sessant’anni decisamente in carne, per non dire che i vestiti neri d’ordinanza le esplodono in prossimità di ascelle, addome e fianchi. Mi presenta il capomastro di una piccola impresa edile, il titolare di un negozio di ferramenta e l’impresario di pompe funebri…sono abile a chinarmi per palparmi rapidamente i testicoli simulando di controllarmi i lacci delle scarpe. In quel momento un bambino rosso di capelli mi finisce addosso, sfiorando una pericolosa collisione nelle parti basse e rovesciando il suo carico di patatine fritte. Per un attimo accarezzo l’idea di proporgli un gioco innocente: “Vieni tesoro, ti faccio vedere quanto è divertente mettere i ditini in quei due buchetti nella parete là in basso…”. Ma una matrona elegantissima strattona il piccolo per un braccio, spinge col tacco le patatine sotto un mobile e dice ringhiosamente: “Vieni, vieni con mamma, e siediti col tuo cuginetto…” Saluto e vado via. Ha cominciato a piovere. Intorno a me, passi stanchi di casalinghe affannate Impronte di scarpe da tennis di finti poveri Tracce di suole che hanno ballato poco e male in tutti i locali di Ostia. Sotto la pioggia siamo tutti uguali, puzziamo alla stessa maniera. Torno a casa. Guardo una foto di papà. Lui amava ripetermi che “la vita non è una corsa che si può vincere. La fine della corsa è la stessa per tutti: si muore. Il punto non è vincere la corsa, Mariuccio. Il punto è come la si corre. In altre parole, non si tratta di vincere o di perdere, ma di come si gioca la partita. E tu, Mariuccio, corri. Non ti fermare mai.” Arrivarono Natali. Capodanni. San Valentini. Pasque. Arrivò la Pasquetta del novantadue. E continuai a correre. E ogni tanto mi sembra di sentire la sua voce, nel vento. Afferro la foto e la tengo stretta a me, e piango, piango, piango, finché non esce più niente. Mario Pulimanti (Lido di Ostia –Roma) 11) LA METRO D’INFERNO: VIAGGIO ALLUCINANTE SULLA ROMA-OSTIA Sono pronto per la prova più importante della giornata: il viaggio sulla metro. Da Ostia a Roma. Tutto bene? Bene un corno, dannazione! Ho un fastidioso mal di testa. Mi rendo conto, appena vedo la piattaforma, che è affollata all’inverosimile. Più del solito. Deve esserci stato qualche guasto e probabilmente non arrivano treni da almeno venti minuti. Che diamine! Penso a mio padre. Mi assale la tristezza. E’ morto qualche anno fa e mi é stato difficile accettare il fatto di non poterlo vedere.Più. Ho visto mio padre morire, è morto a due centimetri dalla mia faccia. l'ho continuato ad accarezzare e baciare nonostante il sopraggiunto rigor mortis. L'ho visto lasciare casa sua steso in una bara. Ho passeggiato con lui per l'ultima volta sotto la pioggia. L'ho salutato per l'ultima volta ed ho assistito minuto dopo minuto, al momento in cui la bara veniva saldata. L'ho visto tumulare. Ho posto il mio mazzo di fiori accanto alla sua tomba. Ho sopportato cose che mai avrei pensato di riuscire a sopportare. La sua perdita mi ha segnato profondamente. Aveva solo sessantasei anni. Non riesco a finire questi pensieri, sta arrivando la metro. Cavolo, ogni centimetro di carrozza stipato di corpi sudati, accartocciati, pigiati in un insieme compatto. Non provo neanche a salire, ma nel pandemonio di persone che sgomitano per aprirsi un varco l’una sull’altra, riesco a guadagnare la prima linea della piattaforma e resto in attesa del convoglio seguente. Che arriva venti minuti dopo, pieno zeppo come il precedente. Un compagno di sventura mi spinge. Mi volto e lo fulmino con lo sguardo. Quando le porte si aprono e qualche passeggero dalla faccia paonazza si fa largo tra la folla in attesa, mi pigio dentro e respiro una boccata d’aria viziata, stagnante. Mi sembra che l’aria sia passata per i polmoni di ciascuno un centinaio di volte. Altra gente s’ammassa alle mie spalle e mi trovo spiaccicato tra un giovane arabo ed il vetro divisorio che ci separa dall’area dei posti a sedere. Normalmente avrei preferito mettermi con il naso pigiato contro il vetro, ma quando ci provo scopro una gran chiazza viscida, proprio ad altezza del mio viso, un accumulo di sudore e di unto lasciato dalla testa dei passeggeri che si sono strusciati contro la lastra trasparente, così non posso far altro che girarmi e fissare, occhi negli occhi il ragazzo che ho davanti. Quando al terzo o quarto tentativo si chiudono le porte io e lui ci ritroviamo ancora più pigiati perché la gente accalcatasi sulla porta senza riuscire a entrare finisce con lo stiparsi dentro insieme a noi. Se dovessi svenire non cadrei in terra perché spazio per cadere proprio non c’è. La metro Roma-Ostia ogni giorno sottopone a stress noi pendolari che speriamo di arrivare a destinazione seppur tra disagi, ritardi e vagoni stracolmi. Oggi però, 1 marzo 2012, proprio mentre era in corso lo sciopero dei mezzi proclamato dalle 8.30 alle 12.30, la metro ha subito un guasto all'impianto di alimentazione costringendo i passeggeri, esasperati dai continui rallentamenti e da fermate apparentemente ingiustificate, ad aprire le porte dei vagoni e scendere invadendo i binari, per raggiungere a piedi la stazione e bloccando in tal modo anche il traffico degli altri treni, ancor prima dell'inizio dello sciopero. “Bestie al mattatoio”. A parlare è un settantadue di età, centosessanta di altezza, centosei di diametro e trecentodieci di colesterolo. “E’ una cosa vergognosa. Gli amministratori della Roma-Lido andrebbero appesi per gli alluci e dondolati forte” replica ridendo una signora. Centodieci chili di ciccia e di allegria contagiosa. Tutti capiscono, si danno di gomito e, immancabilmente si sganasciano in una ilarità collettiva che esclude solo alcuni bambini, costretti a frignare disorientati in mezzo alla calca dei pendolari. “Non c’è niente da ridere” sbraita un passeggero, mentre guarda l’orologio con la stessa espressione con cui un mullah guarderebbe un maiale che bestemmia. E, mentre si convince che anche oggi arriverà tardi in ufficio per colpa della metro, lamentandosi dice “Ah, signori miei, chi gestisce questa la metropolitana di Ostia è capace delle peggiori bassezze…” Accanto a me, con calma olimpica e nasone rosso gocciolante, un uomo con voce nasale, da raffreddore pieno dice “la colpa è dell'azienda, all'estero avrebbe già dato le dimissioni”. Tutti annuiscono. Un altro passeggero aggiunge: “Però non solo non si dimetteranno. Anzi, ora verrà il bello”. “In che senso?” chiedo io. “Nel senso che la questione verrà risolta come al solito con interventi tampone”. C’é qualche secondo di pesante silenzio. “Sarebbe opportuno il passaggio di tutte le competenze al Comune di Roma in modo da snellire le pratiche sugli investimenti, dando a noi utenti un unico interlocutore cui denunciare malfunzionamenti” precisa un passeggero. “E bisognerebbe trasformare la linea da regionale concessa a Linea Metropolitana” gli fa eco un altro pendolare. “L’aumento del costo del biglietto è inaccettabile” dico. Ci metto un decina di secondi, forse, a mettere insieme tutti i pezzetti della questione; secondi alla fine dei quali, come d’abitudine, mi rendo conto di essere arrossito in modo violento. Continua così Mario, dai: hai cinquantasei anni e fischia, e quando vieni a capo di un problema ti emozioni. Un bambino con la barba, ecco cosa sei. Ancora non ho capito se é un bene o un male. Arriviamo alla fermata della Magliana. Pendolari sui binari impediscono il proseguimento della metro. Dall’altoparlante ci assicurano che appena possibile la metro riprenderà la sua corsa, arrivando a Piramide. Molti passeggeri scendono. Cavolo, almeno ora starò un po’ più comodo! Riesco addirittura a sedermi. Vicino a me una ragazza con gli occhiali, nonostante il caos che ci circonda, sta tranquillamente leggendo la ballata sonnambula di Federico Garcia Lorca. Improvvisamente mi sento chiamare. Mi rivolto e vedo due colleghi, uno magro e l'altro no, anche loro prigionieri della metro del Lido. Il collega magro si mette faccia a faccia con me, dicendomi: “Che giornata orrenda! E dire che ero tutto contento quando ho salutato Olga”. Olga è una giovane ragazza estone che vive con lui da quando la moglie se n’è andata. “ Indossava un abito color arancione, quando ci siamo salutati stamattina” mi sussurra in un orecchio “Ci eravamo appena incomparabilmente posseduti, tanto da non saper distinguere cosa dei nostri corpi appartenesse all’uno o all’altra. Separarci dall’amplesso ci aveva fatto male come una mutilazione fisica. Alla stazione della metro mi sembrava ancora di essere in lei, di averla addosso. “Sono la tua carne” mi ha detto sottovoce mentre mi salutava. “E’ un fatto compiuto”, borbotta il collega grasso “te la sei scopata. Da quando va avanti? E ora immagino che ti sia venuto in mente di sposarla!” “Certo. E lo farò presto appena avrò ottenuto il divorzio” afferma il magro, continuando poi a dire “Mi piace tutto di lei. Anche quando mi parla di sesso con quel suo accento così particolare. La parola fottere non ero abituato a sentirla dalle ragazze. “Fottimi”, mi ha detto la prima volta che siamo usciti insieme, e da maschio ho perduto ogni ritegno. Ricordo che ci siamo fottuti finché sanguinavamo quasi, con una brutalità reciproca che abbiamo da allora raffinato se non ingentilito. Annuisco mentre con la coda dell’occhio sbircio la ballata sonnambula della mia vicina di posto “…Voglio morire, decentemente in un giaciglio. D’acciaio, se possibile. Con vere lenzuola”. Arriviamo alla stazione della Piramide, ma il viaggio continua. Dobbiamo, infatti, arrivare fino a Termini con un’altra linea della metro: l’affollatissima B. Arriviamo a Termini decisamente provati. Al contempo penso che ci farebbe bene bere un caffè. Che prendiamo subito prima di entrare in ufficio. E’ proprio vero: fare il pendolare stanca. Ve lo giuro! Mario Pulimanti (Lido di Ostia –Roma) 12) L’ARTE DI VIVERE IN DIFESA Mi sveglio di soprassalto. Mal di testa. Rombi di tuono mi pulsano alle tempie e mi sembra di veder baluginare sottili filamenti di fulmini, che subito svaniscono. Mi stringo le tempie con la punta delle dita, i gomiti all’infuori, in parte per placare il martellamento. Sento la bocca secca. Ho la sensazione che le mie gambe siano rigide come pezzi di legno. Comincio a analizzare ogni mio pensiero, cercando qualcosa di anormale o di alterato. i costringo a star sveglio di notte perché ho paura dei miei sogni. I sogni sembrano reali e non lo sono, e mi rendo conto che sono molto vicini alla pazzia. Mi alzo e mi trascino in bagno. Tiro lo sciacquone. Entro in cucina. Simonetta è seduta a tavola, legge il giornale. Mi vede e ride. “Vuoi bere un caffé”. Annuisco. Si alza e accende il bollitore. Mi siedo e lei mi porta una tazza di caffè fortissimo e dolcissimo. “Grazie”. Bevendo il caffè, mi sveglio di più. Mi avvicino alla finestra; una vespa ci si scaglia contro, schizzando il veleno sul vetro nell’affannoso tentativo di uscire. Sollevo il telaio, sventolo la mano per mandarla fuori e mi siedo sul davanzale a guardare in strada. Un gruppo di rumeni sta attraversando Corso duca di Genova. Quelli dell’est Europa hanno invaso Ostia. Penso ai tizi con l’aria da zingari che trovi di notte a ciondolare intorno ai negozi di roba usata, che rovistano nei sacchi della spazzatura e rubano i vestiti. Che grugno rabbioso ha questa gente. Quando giri in macchina sono quelli che rompono di più, sempre a strombazzare il clacson e a guardarti incarogniti. Rifletto: ho cambiato punto di vista sulle cose. Ero fortunato. Il lavoro mi dava stimoli. Ora non più. Credevo nella giustizia. Ora non più. Credevo negli ideali. Ora non più. Avevo un sacco di carne al fuoco. Si è bruciata. Ero coinvolto in progetti interessanti. Sono svaniti nel nulla. Mi piaceva il calcio. Ora un po’ di meno. Il cibo mi ha fatto venire la nausea. Sospiro con aria dolente. Pensare mi manda in paranoia. Scuoto la testa. Mi trovo insopportabile, e perdo il controllo: “Mario, sei solo un cinico cantastorie” sibilo, tanto forte da farmi sentire. Gabriele rimane senza fiato. Il mio auto-insulto è sbalorditivo. “Che dici, papà?”. Se ne va via disgustato, rivolgendomi un ghigno insolente. Ho le mani fredde. Fisso il cielo. Finisco il caffè. Penso. L’ho visto accadere. Con papà. E’ l’effetto del cortisone, principalmente. In questi casi viene somministrato spesso, aiuta il paziente a tenersi su. E ha anche un effetto tangibile sul morale: uno si sente sicuro di sé. Allegro e sfrontato, mi capite? E’ stato di quell’umore lì per qualche settimana. Poi… Respiro a fondo. Poi era cominciata la parte brutta. I capelli che cadono. La nausea continua. La diarrea. La debolezza che ti parte dalle ossa, come se ti avessero cambiato il materiale di cui è sempre stato fatto il tuo corpo. E il buonumore che scompare, da un giorno all’altro. E così arriva quel giorno di pasquetta del novantadue che lo ha ucciso, ma non piegato. Mi passo la mano sui miei capelli bianchi. Ho delle priorità e, per quanto mi riguarda, la vanità non ne ha mai fatto parte. Non sono tipo da vantarmi delle mie doti ben sapendo che la superbia può trasformarle in debolezze. Mi stringo le mani. Rientro in cucina. Saluto Alessandro. Lui mi guarda e fa dei gesti goliardici con le mani. Faccio una doccia. L’acqua è calda, il sapone ha un ottimo profumo. Rimango sotto il getto e mi levo la puzza di sudore e rabbia dalla pelle. Prendo la schiuma da barba. Mi rado con vari movimenti verso il basso. Mi guardo allo specchio. Indugio ad ascoltare le voci in salotto, all’altro lato della casa. Entro in salotto. Mi sdraio sul divano. Incrocio le braccia e fisso il soffitto. E poi penso a mamma. La cosa più brutta di essere ricoverati in medicina è la noia. In altri reparti, i problemi sono diversi: dolore, mancanza di lucidità, possibilità di decesso imminente eccetera. Ma, quando sei ricoverato in Medicina, solitamente la cosa peggiore è rappresentata dal fatto che ti rompi i coglioni in modo irreparabile nell’attesa di dovere fare le analisi. Casa di Cura "Nuova Ito". Lì si trova mamma, da due settimane per una forte forma di anemia. Il posto è bello: lindo quanto vi pare, ma sei comunque in ospedale. Non c’è aria fresca. Non c’è il profumo di casa tua. Per cui, quando mamma sente che qualcuno bussa alla sua porta, ha un autentico fremito di gioia. Visite. Visite. Visite. C’è qualcuno per me. Resistendo alla tentazione di mettersi a ballare come Snoopy quando arriva la cena, lei si da un contegno e si limita ad essere cortese. Dalle finestre aperte davanti a me vedo il cielo di Ostia. Entra un venticello caldo profumato di mare. Ormai la primavera è quasi arrivata. Sembro sul punto di iperventilare. Falso allarme. Qualche secondo dopo, esco. Vagare senza meta a Ostia, senza doveri né obblighi da assolvere, dà una piacevole sensazione di libertà. Incontro un'amica. Ha un cane al guinzaglio. Pastore. Puzza. Appunto. Del resto non si può impedire a un cane di puzzare di cane. Incontro un amico. Triste. La moglie se n'è andata. Per sempre. "Coraggio" gli sussurro. Cammino finché non mi trovo di fronte a un ampio belvedere che da sul mare. Oltre la linea dell'orizzonte si staglia netto il profilo di una nave. Cisterna. Mi siedo sul parapetto, il vuoto sotto ai piedi. Rimango per un pezzo a contemplare l'orizzonte. Poi ritorno a casa, pensando a tante cose. E comincio a ridere, fino alle lacrime. Mario Pulimanti (Lido di Ostia –Roma) 13) UN MAZZO DI FIORI SCELTI Stasera di pensieri ce n’è un’insalata. Un uomo patetico. Ecco cosa sono. Non sono tipo da restare a lungo di cattivo umore. Non mi lamenterò. I giorni delle lamentele sono finiti, ormai. Non riesco ad agire perché per tutto il tempo, nonostante gli scoppi d’indignazione, penso di commettere un terribile errore, una sequela di terribili errori. Le cose non possono stare come io sono sempre più certo che stiano. “Che cosa sto facendo?” mi chiedo sgomento mentre ritraggo il pugno che ha appena sfiorato la parete, contrito. Chiaramente non sono saggio come Marco Aurelio Antonino, imperatore filosofo e valoroso. Non so tenere una conversazione brillante, ma forse un ho pregio ce l’ho: sono abituato a contare solo su di me senza aspettarmi mai favori piovuti dal cielo, come mi aveva insegnato Nonna Jole. Non posso dimenticarmi il suo volto saggio e profumato, gli occhi celesti e i capelli grigi raccolti dietro la testa. Brrr. Mi sento gelare a questi ricordi. Lasciamo stare. Simonetta è una donna che si preoccupa di tutto. La lista delle cose di cui si preoccupa in ogni dato momento è interminabile: il benessere dei figli, per esempio, o l’inadeguatezza del nostro stipendio, o il taglio delle spese scolastiche minacciato nella scuola di nostro figlio Alessandro, o la macchia d’umidità sopra la finestra, o lo scricchiolio delle sue giunture ogni volta che si alza la mattina, o il libro che da tempo nostro figlio Gabriele deve restituire alla biblioteca comunale e non riesce più a trovare, o il riscaldamento del pianeta. Ma in questo momento particolare ci sono due cose che le danno ulteriori motivi di preoccupazione: la minacciosa certezza dell’avanzare del tempo (Tempus fugit!) nonché lo stato della salute mentale di suo marito (vale a dire, del sottoscritto). Mi dice: “Guardati intorno. Ci sono uomini che fanno jogging, che coltivano ortaggi, che vanno in bicicletta, che costruiscono case. La tua specialità è quella di essere negato per qualsiasi lavoro manuale”. Questo vale anche per l’educazione dei figli. Mi accusa di essere come Ulisse, l’Odisseo che lascia il figlio appena nato e quando lo riabbraccia ha venti anni e si è fatto uomo: Telemaco. Difatti, a suo dire, mi sono ritrovato Gabriele maggiorenne senza aver fatto nulla, perché ha pensato sempre a tutto lei. Del resto dice che la mia filosofia di vita è l’utilitarismo spinto. In poche parole sarei un integralista dell’edonismo estremo. Ognimodo ho due figli svegli. Beh, per dirla giusta a volte non mi sento del tutto realizzato nella vita professionale e in quella creativa. Malumori passeggeri. Ah, tra il ventiquattrenne Gabriele e il diacessettenne Alessandro qualsiasi contatto è fuori discussione finché non raggiungono la privacy impenetrabile del salotto di casa. Il casino è che il grande non ama avere il più piccolo tra i piedi. Ma giunti a casa…. Fin da piccoli, col pretesto di disegnare, scrivere e colorare, in realtà si assestano colpi di matita e pastelli negli occhi, nelle orecchie ed in altre parti del corpo, mentre guardo impotente Simonetta che, sfigatissima, sembra avere il sorriso teso e lo sguardo perso di chi non desidera altro che essere trasportata il più lontano possibile. Meglio uscire, faccio un salto a Collevecchio! Detto fatto. Toh, guarda chi c’è proprio lì davanti a me. Sandro con la moglie. Sandro, un uomo potente, a differenza di me… Il classico uomo, di quelli che ti sembra strano che siano stati anche loro bambini. Ti dava l’idea di esserci sempre stato, di essere stato sempre così. Anch’io, che l’ho conosciuto, mi ricordo che a tredici anni era più o meno come quando ne aveva quaranta. Alto, secco, con un ghigno da faina e gli scrupoli morali di un colone delle delle SS. Se io non lo faccio a te, prima o poi te me lo fai a me. Era questo il suo motto. Uno così deve mettere su famiglia per forza. E una bella famiglia. Si è sposato giovane con una ragazza timida. Una di quelle bambine brave che quando sono piccole fanno quello che dice il papà, e quando crescono fanno quel che dice il marito. Umile, discreta, al suo posto. E brutta. Brutta come una giornata senza pane. Li saluto e continuo a passeggiare. La vita, si sa, è fatta di aspettative. Si può essere felici nella vita? A volte sì. Stare in compagnia è meglio che stare da soli. Grazie al cazzo, direte voi! Ohi, ohi, immerso nei miei pensieri non mi accorgo di essere andato addosso a un ragazzotto. Ci sono persone con cui si può essere scontrosi impunemente, e persone con cui bisogna avere delle cautele. “Senta, signore, giochiamo a capirsi. ……faccia un po’ di attenzione…!” Se, per esempio, siete un cinquantaseienne, fuori forma e con un ginocchio indolenzito, e la persona con cui dovete discutere è un ragazzotto cubiforme con il naso rotto, le orecchie a cavolfiore e un avambraccio tatuato con una svastica, un pochino di prudenza non fa male.. “Guardi, scusi, non l’avevo vista…” E batto in ritirata. Ho un leggero soprassalto, che per un istante mi fa dimenticare dove sto andando: non mi sono accorto di essere molto vicino al Convento. Dunque in un attimo arrivo al Parco della rimembranza. Intorno a me, fiori. Mario Pulimanti (Lido di Ostia –Roma) 14) DI MERCOLEDÌ Mercoledì. Sergio, professore universitario. Entra in casa. “Sono a pezzi”. “Hai finito di lavorare all’Università?”. “Darò gli ultimi ritocchi domattina. E’ colpa di quelle riunioni interminabili. Secondo me dovrebbero durare di meno”. “Puoi sempre andartene prima”. “Sì, così mi sostituiscono con un altro”. “Esagerato”. “Per domattina finirà tutto”. “Ok. Comunque domani é facile che piova pure”. “Bè, un po’ d’acqua non farebbe male: hai visto il prato sotto casa? Pare il deserto del Sahara”. “Non sei mai stato nel nord Africa”. La conversazione si arena. Si siede alla scrivania e prende delle carte. “Pensavo che stessi guardando la TV”. “I ragazzi non li sopporto più”. La guarda con interesse. E’ prossima alle lacrime. “Certo” dice “capisco cosa intendi”. Il suo sguardo si riempie di tristezza, quasi di tenerezza. Morena, sua moglie! A volte la tratta con indifferenza, con una grande indifferenza. Si avvicina a lei e le mette una mano sulla spalla. “Sono piuttosto insopportabili. Ma non ti preoccupare. A quell’età sono tutti uguali. Sai cosa dico…”. “Oh, lascia perdere! Hai già fatto tante di quelle promesse in passato! Non me ne importa. Non me ne importa. Per quel che mi riguarda possono andare al diavolo. e tu insieme a loro!”. Comincia a singhiozzare convulsamente e scappa fuori dalla stanza. La sente salire in camera, al piano di sopra e, tendendo le orecchie, sente che i singhiozzi continuano. Si prende la testa tra le mani. Deve fare qualcosa e deve farla in fretta. Corre il rischio di perdere davvero tutto. Anzi, magari l’ho già perso… Sarebbe stato un enorme sollievo averla fatta finita tanto tempo prima, e soprattutto liberarsi dalla rete di bugie e inganni che ha tessuto intorno a sé. La coscienza. Maledetta coscienza. Alimentata da un’educazione raffinata. Fatale. Anche se personalmente non è credente, ammette la verità empirica dell’affermazione di Paolo in base alla quale la mercede del peccato è la morte. Vuole disperatamente liberarsi dal senso di colpa e dal rimorso e ricorda vagamente, dalle lezioni di religione ai tempi della scuola, con quanta voglia aveva cantato con i suoi amici tutti insieme molti cori incentrati sul peccato: “Quand’anche i vostri peccati fossero come lo scarlatto diventeranno bianchi come la neve”. Ma in questi giorni non riesce a pregare. Lo zelo della sua religione originaria si è intorpidito, rivestito com’è da strati spessi e duri di sapere, cultura e cinismo. I paradossi della teologia hanno cessato di sorprenderlo, e il brivido delle controversie accademiche hanno perso il suo fascino. Più bianchi della neve, figurarsi! Piuttosto lerci come il fango schizzato delle auto. Oltre le apparenze. Va alla finestra che da su una via tranquilla. C’è qualche passante: un vicino che porta il suo cane a insozzare qualche altro marciapiede. Una ragazza della scuola, guida sta cercando di compiere un’inversione, non riuscendoci. L’istruttore deve essere un tipo paziente. Continua a guardare fuori dalla finestra per parecchi minuti. Vede passare un uomo che gli sembra avere un’aria familiare, ma non riesce ad identificarlo. Si chiede chi sia e dove stia andando e lo tiene d’occhio finché non svolta a destra. Poi apre una cassaforte a muro. Prende una pistola. Si siede sul divano. E si spara. Oltre le apparenze: di mercoledì. “Io, io sono quegli che per amor di me stesso cancello le tue trasgressioni, e non mi ricorderò più dei tuoi peccati.” (Isaia 43: 25). Mario Pulimanti (Lido di Ostia –Roma) 15) OLTRE L’ORIZZONTE Grido. Grido senza sentire la mia voce. Schegge di consapevolezza mi lacerano dall’interno, graffiando il torpore stagnante della mia mente. Sono in trappola. Completamente in trappola. E non so come uscirne. Mi sento come un pesce nella rete di un pescatore esperto che non ha fretta di agguantare la preda. Sì, sono in trappola. Più di quanto lo sia mai stato in vita mia. Sento i pensieri rimbombarmi in testa, tutt’intorno, trasportati da una strana eco che non riesco a riconoscere. Il nulla mi circonda o è dentro di me? Un alito di vento mi accarezza il viso, leggero come un sussurro. Sta accadendo qualcosa… Un angelo. Simbolo di libertà. Lo vedo avanzare come in un sogno. Bianco, candido, puro. Talmente splendente da riflettere i raggi del sole. I suoi movimenti aggraziati non tradiscono la minima incertezza. Per un attimo vorrei essere come lui. Ora che lo vedo così da vicino, é più bello di quanto vorrei. Il suo sguardo è troppo dolce e profondo per non fare male. Mi lascia senza fiato. “Era un pò di tempo che ti stavo aspettando” sembra dirmi. “Dove sei stato tutto questo tempo?” Taccio. Non ho parole per rispondere alla sua domanda. Ma solo un semplice gesto. Una carezza. Un gesto che suona come un: “Lo so…mi dispiace averti fatto attendere così a lungo…” O che forse, non ha altri significati oltre a quello della sua estrema naturalezza. Il luogo non ha nessuna importanza…non l’ha mai avuta. Finalmente me ne rendo conto. Lascio che i pensieri dell’angelo apparso di fronte a me crescano, saturino l’aria. Li trovo bellissimi. Armoniosi come uno spartito di note invisibili. E non posso fare altro che ascoltare. Quando l’essenza delle cose riesce a sfiorarti, é sufficiente lasciarsi prendere per mano senza voltarsi indietro. Senza tormentarsi sulla causalità di un incontro. O di un addio. Ora ho le chiavi per abbandonarmi alla carezza del vento. Oltre l’orizzonte. E non posso smettere di sorridere. Mario Pulimanti (Lido di Ostia –Roma) 16) MOMENTI DELICATI DI UNA DOMENICA DI MAGGIO IN COMPAGNIA DI PAOLO FOX, ANDREA BIZZARRI, HOLLANDE, CALCIO E ROMA-LIDO Domenica 6 maggio sono sdraiato a letto, tormentato dalla spiacevole consapevolezza di avere tante cose da fare, se solo riuscissi a trovare la forza d’animo per cominciare. Di già le nove e mezzo. Ho l’emicrania e decido di non toccare alcol tutto il giorno. Mi giro dall’altra parte, sprofondo la testa nel cuscino e cerco di non pensare a nulla. Ma per me questa felice forma di nichilismo è del tutto impraticabile. Finalmente alle dieci mi alzo, mi lavo, mi faccio la barba ed esco con passo deciso in strada per andarmi a prendere il giornale della domenica. E’ una passeggiata di una decina di minuti e me la godo. Mi sento la testa già più sgombra, e procedo con una certa allegria, valutando se sia meglio comprare il giornale sportivo o il classico quotidiano. E’ il mio tradizionale dilemma giornalistico della domenica, che va di pari passo con la battaglia in corso nella mia personalità, perennemente in bilico tra svago e cultura. Talvolta compro un giornale, talvolta l’altro. Oggi li prendo entrambi. Alle dodici accendo la tivvù. “Mezzogiorno in famiglia” la trasmissione del fine settimana di Rai Due con l’imperdibile oroscopo della domenica di Paolo Fox e relativa classifica dei migliori segni zodiacali. Mi abbandono nella mia poltrona preferita, con in mano una tazza di caffè nero bollente. Chi sarà questa settimana il segno piu’ favorito dalle stelle? Diamine, il Sagittario! Il mio segno. La mia vita non è poi male, alle volte. Prendo il giornale sportivo e per dieci minuti mi dedico alle rivelazioni sconvolgenti di Totti, Nesta e Del Piero che i cronisti di questa testata sono in qualche modo riusciti a mettere insieme. Ci sono molti articoli sfiziosi e ne comincio uno sulla segreta destinazione di Lionel Andrés Messi per il prossimo anno. Juve, Chelsea o Manchester City? O rimane al Barcellona? Ma la storia mi annoia dopo pochi paragrafi. Ho ragione ad essere arrabbiato. E’ scritta con i piedi e, cosa più grave, per niente stuzzicante. Finisce sempre così. Io in realtà non apprezzo questa specie di semi-verità addomesticata; personalmente voglio cose forti o proprio niente. Non comprerò più questo giornale. Però è una decisione che ho già preso molte volte. E so che domenica prossima ci ricadrò come uno stupido, attratto ancora una volta dalle salaci promesse della prima pagina. Spalanco la bocca: Cristiano Ronaldo al Milan? La Juve, dopo il quasi certo tricolore, vincerà anche la Coppa Italia e la Supercoppa? Cristo, e chi vincerà la corsa Champions: Napoli, Lazio, Udinese o Inter? Alzo un sopracciglio mentre i miei occhi si fermano su una notizia che riguarda l'indagine barese sul calcioscommesse: l'ex presidente del Lecce Semeraro potrebbe aver avuto un ruolo nella combine del derby Bari-Lecce che fece guadagnare ai salentini la permanenza in A! Ma per oggi ne ho già avuto abbastanza. Al punto che degno appena di un’occhiata fuggevole la fotografia di una seducente promessa del cinema che mostra metà dei suoi seni da un milione di euro a un fuoriclasse dell’Inter. Dopo aver come al solito archiviato la pagina del golf nel cestino della spazzatura, passo al quotidiano normale. Mi sconvolge la scoperta che quasi sicuramente Sarkozy potrebbe beccare una batosta solenne. E se Hollande vincerà le elezioni in Francia 17 anni dopo Francois Mitterrand, la sinistra tornerà alla Bastiglia. Bene….Bene….Molto bene…Ottimo…. Leggo poi gli articoli principali e quasi tutte le recensioni letterarie e cinematografiche, tento senza successo di trovare una soluzione ad un enigmatico rebus, mi blocco sul tre verticale del cruciverba della penultima pagina e infine arrivo alla pagina dedicata alla lettere e alla medicina: sempre gli stessi temi, ma con una buona dose di sano buon senso. Poi il mio sguardo è attratto da una lettera. Mi raddrizzo sulla poltrona per leggerla e sul mio volto compare un’espressione perplessa. E’ della direzione generale dei trasporti comunali che risponde a una mia breve missiva sui cronici ritardi della metro di Ostia. 27 aprile, sì mi sembra proprio che sia stata pubblicata quel giorno. Cavolo, dicono che la metro di Ostia è sempre puntuale e che le corse non vengono mai soppresse. Emetto un fischio sottovoce e lentamente digerisco la replica del Cotral. Che bugiardi! Ora sarà meglio rispondere con una nuova lettera di denuncia, però non mi ricordo bene cosa abbia scritto su quella precedente. Meglio ricontrollarla. Mi avvicino a un’alta pila di giornali legati per bene con una cordicella, appoggiata per terra nell’ingresso accanto alla porta. I boy-scout passano a ritirarla una volta al mese e io, anche se personalmente non sono mai stato un lupetto, entro certi limiti approvo questa organizzazione. Strappo bruscamente la cordicella e mi metto a frugare tra i giornali. Venticinque, ventisei, ventotto aprile. Ma niente ventisette. Magari l’ho buttato via con una pila precedente. Maledizione. Guardo un’altra volta, ma non c’é. La lettera non l’no nemmeno salvata sul pc. Decido allora di lasciar perdere e di non replicare, anche se prenderei volentieri a calci nel sedere i gestori della metro del Lido. Che dite, amici? Non posso uscirmene con affermazioni del genere senza un minimo di prove! Sì, avete perfettamente ragione. Ma quello che mi premerebbe ribadire è l’enorme disagio a cui andiamo quotidianamente incontro noi poveri pendolari della Roma-Lido. In parole povere, è un sevizio scadente. Però, che vita la mia. Ahimè a volte mi viene da abbandonare ogni speranza, sedermi tutto solo in un garage buio, o usare il gas della cucina, o semplicemente tagliarmi la gola e morire. Improvvisamente mi viene la pelle d’oca. Sento una strana stretta alla gola e un lungo brivido mi corre lungo la schiena. Meglio lascia perdere con questi pensieri. Arriverà la fortuna anche per me. Lo sento. E sarà in pigiama di seta, quando arriverà. Non può che essere così. Non può che essere così! Poi mi alzo e vado in cucina. Appoggio il gomito e guardo fuori dalla finestra. Mi siedo. Mmm….alzo la testa e mi appoggio allo schienale della sedia traballante. Sfoglio una rivista che è sul tavolo. Un sorriso delicato e sognante si disegna per un attimo sulle mie labbra. In copertina, Nicole Kidman. Grande attrice, bionda naturale. Anche se un po’ piatta di seno. Ma di una tale sensualità… Una regina del cinema. Cinema! Teatro! Ora ricordo: prendo il cellulare e telefono a un teatro trasteverino, l’Agorà. Prenoto un posto per domenica prossima,13 maggio. La Compagnia Readàrtop presenterà “ Bòbo” scritto e diretto da Andrea Bizzarri. O meglio, per essere un tantino più precisi, Andrea lo reciterà insieme ad altri quattro giovani attori, Alida Sacoor, Roberto Bagagli, Andrea Alesio e Giulia Priori. Bé, Andrea è anche figlio di un mio grande amico, Paolo. Ma che cavolo! Ora mi sento in pace con me stesso e con tutto il mondo. Mario Pulimanti (Lido di Ostia –Roma) 17) COME FINISCONO LE FAVOLE A MONOPOLI Questa notte il sonno di Raffaele é stato discontinuo. Non è un uomo dalle abitudini regolari, e neanche dai gusti decisi. A volte beve l’Amaro del Gargano e a volte beve un limoncello. Talvolta, quando il suo spirito è oppresso, beve un liquore di alloro o un Padre Peppe di Altamura. Ogni tanto beve nel suo salotto e ogni tanto in un locale pubblico; ogni tanto ad un bar di Piazza XX Settembre e ogni tanto in un locale vicino al palazzo Palmieri, perché sono a due passi. Ogni tanto non beve affatto. Ieri sera ha bevuto a Via Mantegna, nella sala bar gestita da un suo amico. E’ stata una giornata piena di preoccupazioni. Non proprio di preoccupazioni, ma piuttosto di tensione, di ansia. La sua mente è ingombra di frammenti di immagini, come le schegge di vetro sul terreno di una discarica. Cambia posizione, si gira e si rigira, ma la giostra dei suoi pensieri è incontrollabile, e alle tre di notte decide di alzarsi per preparare una tazza di caffè. Quando era bambino, il culmine della felicità terrena era godersi delle lunghe dormite fino a tardi. Ma non è più un bambino e le ore di sonno discontinuo lo lasciano sempre stanco e nervoso. La situazione è chiara e semplice. Sì, forse è stato un po’ sfortunato, e più di una volta. Pensa che sarebbe stato in grado di dirigere un ufficio bene come chiunque altro. Ne è sicuro. Sa di essere avido ed egoista, come la maggioranza degli uomini, ma astuto e competente. Soprattutto sa che si sarebbe goduto il potere. E a questo punto, quando la possibilità di ottenerlo sembra ormai sfumata, c’è forse una componente di tetra soddisfazione nell’osservare le inadeguatezze altrui e un tranquillo godimento per le loro disgrazie. Tornato a letto, con la luce accesa, cerca di puntare gli occhi chiusi, ma sempre irrequieti, su un punto a circa dieci centimetri di distanza dal naso e, a poco a poco, il girotondo comincia a rallentare sempre più, finché si ferma. Sogna una splendida ragazza con una maschera sugli occhi che si sbottona la camicetta scollata e ondeggia sensualmente i fianchi sopra di lui mentre si slaccia la cerniera a lato della gonna. Infine, quando si porta le dita snelle e allungate al volto e sposta la maschera, Raffaele riconosce il volto di Federica. Poi, si addormenta. Si sveglia da una sonno agitato alle otto e accende Radio Blu Monopoli: alberi sradicati, cantine allagate, capanni ridotti a mucchi di assi. Sì, il breve ritorno dell’estate, luminoso e benevolo, volge ormai al termine. Venerdì sera le previsioni per il fine settimana avevano parlato di tempo instabile e perturbato, con possibilità di vento forte e pioggia. Ieri sera, sabato, già si era sentito che faceva più freddo e nuvole scure in arrivo da occidente dall’Adriatico incombevano su Monopoli. Cupamente il meteorologo aveva mostrato in tivvù una cartina della Puglia quasi nascosta da una fitta serie di linee concentriche con l’epicentro nei pressi di Molfetta, e in toni minacciosi aveva profetizzato l’arrivo di un fonte freddo e della conseguente bassa pressione. Infatti, in tarda serata, aveva cominciato a piovere. Molto. Ora, mentre si lava e rade, sente un’allegria che non ha più provato da quando si è separato dalla seconda moglie. Ora vede le cose con maggiore chiarezza. La strada per la felicità è ancora lunga, ma almeno c’è uno spiraglio di luce. Esce dal garage in retromarcia e scende dalla Volvo per chiudere il portone. Finalmente ha smesso di piovere e tutto quanto sembra lavato e pulito. La domenica è iniziata con violente raffiche di vento e, sebbene le preannunciate precipitazioni intense siano durate lo spazio di una sola notte, alle nove del mattino le strade sono immerse in un’atmosfera stranamente ovattata, quasi onirica. E i pochi passanti sembrano comparse di un film muto. Respira a pieni polmoni. E’ bello essere vivi. Entra in un bar. Esamina con diffidenza una pigna di panini al prosciutto “freschi di giornata” sotto la loro campana di plastica e ordina una birra. Per le undici ne ha già tracannate tre e un piacevole rilassamento gli ha pervaso le membra. Si accorge che i suoi pensieri girano in tondo e che la capacità di concentrarsi lo ha temporaneamente abbandonato. Ha bisogno di una donna. Ma di donne non ne ha. Pensa, come gli capita spesso, a quanto siano attraenti le donne. Ne ha avute, naturalmente, forse fin troppe. E un paio di loro abitano ancora i suoi sogni e tornano a richiamarlo verso un tempo lontano, tanti anni prima, quando le giornate erano piene di luce. Una di queste è Alessandra. Si ricorda quando indossava quel leggero maglioncino nero, che a lui piaceva tanto. Sotto il maglioncino i suoi seni pieni e liberi dalla costrizione del reggiseno ondeggiavano irresistibili, e quanto era bella con quella lunga gonna nera con lo spacco vertiginoso che lasciava un’incertezza sublime su cosa mai portasse sotto. La sua bocca era seducente e appiccicosa, dalle labbra umide leggermente socchiuse e i denti di un bianco lucente. Ora intorno a lui le foglie sono ormai cadute: a metà dei cinquanta, solo. Divorziato due volte. Ed ora eccolo lì, seduto in un bar dove la vita è fatta di caffè, sigarette, patatine, noccioline, slot-machine. Il posacenere sul suo tavolo è schifosamente pieno di cicche e cenere. Lo allontana con la mano, caccia giù quel che resta del caffè ed esce. Si avvia lentamente verso casa e si butta sul letto vestito di tutto punto. Questa sì che è vita. Al suo risveglio, alle 15, si sente uno straccio e si domanda se stia vivendo l’infanzia della terza età o la terza età dell’infanzia. Prende il cellulare. Compone subito un numero. Quello di Monica. “Pronto?” risponde una voce carica di sensualità. “Ah, sono Raffaele”. “Oh, caro. Come stai?” “Bene, Monica. Stasera volevo invitarti a cena”. “Sarebbe bello, ma ho un altro impegno. Meglio domani”. “Bene” dice Raffaele con una certa emozione. “Ora però sto aspettando un’amica. Ci vediamo domani”. “Ehm, sì, senz’altro” balbetta un emozionato Raffaele. “Allora, arrivederci a domani”. Dal tono della sua voce Raffaele indovina che doveva essere sdraiata, con le sue mani che scivolavano sensuali su quelle sue membra stupende, e lui non deve fare altro che aspettare domani. Se la immagina quando l’aveva vista la prima volta, con il primo bottone della giacca slacciato, e con la fantasia vede le proprie dita slacciare anche gli altri, e scostare lentamente i due lembi. Sono le sei di pomeriggio quando Raffaele si infila nuovamente nella Volvo. Siede immobile al volante per pochi minuti e poi sorride. Sta pensando ai seni di Alessandra, mentre esce dal parcheggio. Si dirige nella zona di Monopoli nord, nelle acque antistanti Cala Corvino. E’proprio sugli scogli nelle acque antistanti Cala Corvino, che si accende un’altra sigaretta. Fumando, ride. E fumando, pensa: c’è chi ha fortuna e chi no. Sulla cima della testa i capelli gli si sono molto diradati in due zone, ma un ciuffo grigio le tiene ancora separate, arginando l’incipiente dilagare della calvizie. Non indossa cravatta e sul colletto della camicia azzurra c’è una riga di sporco. Pensa di cambiarsela domani. Poi chiude gli occhi. Così finiscono le favole. A Monopoli. Mario Pulimanti (Lido di Ostia –Roma) 18) VADO A VEDERE SE DI LA’ E’ MEGLIO E’ risaputo, Carla è una vera bellezza. Vive sola, per essere precisi in un appartamento composto da una camera, salotto e servizi, in un palazzone vicino Piazza Marco Vipsanio Agrippa, ad Ostia.Il Lido di Ostia è una bellissima località, conosciuta principalmente con il nome di Ostia (o anche Lido di Roma). In pratica, é una frazione di Roma Capitale nonché l'insediamento principale del Municipio Roma XIII ed è costituita dai tre quartieri marini di Roma città, Lido di Ostia Ponente, Lido di Ostia Levante e Lido di Castel Fusano. Avrebbe preferito una posizione un po’ più centrale e un appartamento un po’ più lussuoso. Ma dalla fermata della metro di Ostia Centro, che dista appena una decina di minuti da casa sua, le ci vogliono solo trenta minuti per essere al centro di Roma e chiunque, guardando l’arredamento raffinato e costoso del suo appartamento potrebbe correttamente dedurre che, vuoi per il denaro guadagnato con il sudore della fronte presso il reparto cosmetici di un negozio esclusivo di Via Frattina, vuoi per altre entrate non meglio identificate, Carla é comunque una giovane donna non priva di mezzi. Alle cinque di pomeriggio è languidamente adagiata e rilassarsi sul suo prezioso copriletto, mentre pigramente si dipinge le unghie lunghe, belle e curate con uno smalto di una luminosa tonalità grigio azzurro delicato ma con un con un finish perlato. Indossa una vestaglia corta in satin di seta lucido color nero con un perizoma coordinato e maniche arricchite da perline, con le gambe, deliziosamente lunghe e snelle, piegate e raccolte vicino al corpo e la mente persa a immaginare la serata che l’aspetta con Pierangelo, un ragazzo conosciuto da poco su facebook . Escono da un mese, ma è la prima volta che lui la viene a prenderla a casa. Pierangelo, intanto, sta uscendo da casa per andare a Ostia, dalla sua Carla. Abita nel rione Testaccio, nel cuore della vecchia Roma, a via Nicola Zabaglia, vicino all’ex mattatoio. Il nome Testaccio deriva dal cosiddetto "monte" (mons Testaceus): 35 metri di cocci (testae, in latino) e detriti vari, accumulatisi nei secoli come residuo dei trasporti che facevano capo al porto di Ripa grande. Incontra Fabione, un suo amico. Cavolo, un metro e sessanta per 110 chili! E’ in compagnia di una bella ragazza, di almeno trent’anni più giovane di lui. Sorridendo, gli presenta Alina, rivelando una bocca piena di denti di un bianco lucente. “E’ una ragazza rumena, di Bucarest” gli dice, stringendosi sulle spalle sproporzionatamente larghe. Pierangelo reprime un forte desiderio di piazzare un pugno su quella faccia ghignante. Salutati Fabione e Alina, sale in macchina. Direzione Ostia. Mentre guida, pensa a Valentina, la sua ex moglie. Si sono separati dopo dieci anni di matrimonio. Dire al marito che esce con le amiche e che farà tardi: è una delle scuse più classiche che una donna usa se vuole nascondere incontri galanti e tradimenti. Valentina lo aveva fatto, ma con una variante che le è stata fatale: portarsi dietro il proprio cane da salotto, un beagle che aveva legato alla fioriera davanti a un bar di Testaccio con il cui proprietario lei aveva intrecciato un rapporto sentimentale. Abbassata la saracinesca dell’esercizio, ma non totalmente, i due amanti avevano dato libero sfogo alla loro travolgente passione. Senza cena pronta, Pierangelo aveva deciso di recarsi in rosticceria. Il caso però aveva voluto che scegliesse una rosticceria situata vicino al bar-alcova. All’arrivo di Pierangelo il cane legato alla fioriera si è messo ad abbaiare insistentemente perché ha riconosciuto il padrone. Allora Pierangelo, insospettito, si era avvicinato al bar, aveva alzato di scatto la saracinesca e aveva scoperto i due amanti in flagrante. Ripensando a Valentina si sente come un giocatore di scacchi che, sconfitto dopo un eroico combattimento, riveda e analizzi criticamente le mosse e le intenzioni dietro alle mosse che l’hanno condotto alla sconfitta. E già un’idea nuova e strana sta attecchendo nelle fertili profondità della sua mente, e lo rende impaziente di tornare alla scacchiera. L’idea nuova è questa: rifarsi una vita con Carla. Non gli passa neanche per la testa di ritornare da Valentina. Anche se… Anche se non sapesse spiegarne la ragione, è perfettamente consapevole di una curiosa circostanza: la sua mente non sembra mai tanto capace di recupero, tanto acuta come quando in apparenza è stata sconfitta. Sì, la sua sconfitta si chiama Valentina. Anche se, forse, non l’ha scordata del tutto. Ma Carla è ora la sua vittoria. Ed è proprio in queste occasioni che il cervello gli si agita irrequieto nel cranio come una tigre selvaggia e feroce che, costretta nei confini di una stretta gabbia, vi si aggiri senza sosta, lanciando dei ringhi rabbiosi, pronta a colpire. Lui Valentina non la perdonerà mai. Mai! Mai? Arrivato ad Ostia si ferma a Via Pietro Rosa. Compra un mazzo di rosse per Carla. Riparte e si dirige verso Piazza Agrippa, dove parcheggia in sosta vietata davanti al King Bar. Sono le otto. Decide di prendersi un caffè, prima di chiamare Carla. Vede che l’uomo davanti al bar non è Tonino, come invece aveva sperato. Ma si dirige verso il bar lo stesso. “Mi sa che non può lasciare l’auto lì, amico”…. “Forse tu non sa chi sono io” dice Pierangelo, con l’autorità arrogante di un Giulio Cesare o di un Alessandro Magno che si aggiri tra le proprie truppe. “Non mi importa chi sei, amico” dice il giovanotto alzandosi in piedi. “Il fatto è che non puoi…” “Senti ragazzino, te lo dico io chi sono. Mi chiamo Pierangelo. Pierangelo Taddeo, capito? E se arriva qualcuno che vuole sapere di chi è quell’auto digli pure che è mia. E se non ti crede, digli di venire direttamente da me!” Supera il ragazzo e oltrepassa la porta d’ingresso. “Ma…”. Pierangelo non l’ascolta più. Preso il caffè, esce. Non è mai stato da Carla. Via delle Corazzate, vicino al teatro Affabulazione. Mah? Dove sarà? Non vuole telefonare a Carla perché non vuole farle sapere che é così imbranato da non trovare il suo portone. Mentre esce dal bar nota un piccolo tratto di terreno abbandonato tra una drogheria e la schiera di case abbandonate che iniziano subito dopo. E’ uno spiazzale di una decina di metri, in cui si trovano un paio di rastrellerei per biciclette, materiali abbandonati chissà quando da qualche impresa di costruzioni -mattoni rotti, mucchi appiattiti di sabbia- e, sparsi ovunque, gli immancabili pacchetti di sigarette vuoti e i sacchetti di patatine accartocciati. Ci sono anche due auto, seminascoste e indisturbate. Pierangelo si ferma, cerca di orientarsi e si rende conto di essere a soli quaranta o cinquanta metri dalla casa di Carla, che si trova un po’ più avanti a sinistra, sulla strada principale. Resta immobile, stringendo forte tra le mani un sacchetto con l’uva. Una signora é nel giardino davanti alla casa. La distingue chiaramente, anche se gli da le spalle, con i capelli raccolti alla bell’e meglio sulla testa e le gambe snelle più adatte a una studentessa che a una madre di famiglia. Con in mano un paio di cesoie si china su un cespuglio di rose per tagliare i fiori appassiti. Si accorge che se pensa a Valentina, é triste. Valentina, che ha sempre amato le poesie di Pablo Neruda Adesso gli tocca ricominciare daccapo, partendo dal presupposto che Carla sia la scelta giusta. Con tutta la sua strampalata imprevedibilità, alla radice profonda del suo essere c’è un’ardente passione per la verità, per la logica e la razionalità e inesorabilmente i fatti, quasi tutti i fatti, portano alla stessa conclusione: che su Valentina si era sbagliato, e si era sbagliato fin dall’inizio. Però sa che, nonostante l’abbia tradito, non ha ancora dimenticato il sapore dei suoi baci. E il profumo del suo corpo. E chissà se mai lo dimenticherà! Torna a guardare un’altra volta il terreno abbandonato, nascosto alla vista dei passanti, dove i fiori appassiti sono ora ammucchiati ordinatamente sul bordo di una stretta striscia di prato. Per Pierangelo è comunque un’umiliazione tremenda che il suo matrimonio sia finito. Ma comunque tra lui e Valentina è finita. Definitivamente, pensa. Per alcuni mesi, dopo aver scoperto il suo tradimento, hanno comunque continuato per un po’ a vivere insieme, ma dormendo in stanze separate e quasi non rivolgendosi la parola. Ma, per quanto Pierangelo ci abbia provato, lui non è mai riuscito proprio a perdonarla. Certo, quando le ferite più dolorose hanno cominciato finalmente a chiudersi, marito e moglie hanno cercato di esaminare la loro triste situazione con un minimo di razionalità e comprensione reciproca. Lei gli ha giurato di amarlo, che si é resa conto di quanto lui sia importante e che spera con tutto il cuore che restino insieme. Pierangelo allora è scoppiato a piangere e hanno deciso di rimanere insieme e di provare a salvare la loro unione. In ogni caso il divorzio non é mai stato messo in discussione, perché lui é cattolico. Così ha detto. Poi, invece, hanno deciso di separarsi. Sarà stata la scelta giusta? Del resto la loro vita insieme sembrava appesa ad un filo sottilissimo e Pierangelo sa che sarebbe meglio se ora riuscisse a trasferirsi ad Ostia. Del resto è un impiegato del Comune di Roma, ed anche ad Ostia ci sono uffici comunali dove potrebbe andare a lavorare. Vicino alla sua Carla, oltretutto. E’ la scelta giusta? Perché ha sbagliato con Valentina, da costringerla a tradirlo? Dove ha sbagliato? Queste domande gli martellano la mente come se nel suo cervello si sia installato un interlocutore che non si lasci zittire. Entra nel portone. Sale le scale. Suona il campanello. D’un tratto Pierangelo si sente molto stanco. Vuole vedere se di là è meglio. E, mentre Carla apre la porta, piange. “Ormai non l'ho più, è vero, ma forse l'amo ancora. E' così breve l'amore e così lungo l'oblio. E siccome in notti come questa l'ho tenuta tra le braccia, la mia anima non si rassegna d'averla persa” Mario Pulimanti (Lido di Ostia –Roma) 19) TELEFONINI Questo cuore di padre è disposto a tutto per aiutare i propri figli. Ma non di andare in bancarotta per le loro spese telefoniche, sempre più costose, ahimè! Ma come, direte voi, da qualche tempo gli operatori di telefonia mobile fanno a gara nell’offrirci gratuitamente telefonini, conversazioni telefoniche e sms! Certo, stando alle campagne pubblicitarie, chi usa il cellulare non spende neanche un euro. Eppure, leggendo attentamente le offerte, si scoprono costi, tariffe e abbonamenti di cui non si parla nelle pubblicità. Chi, per esempio, aderisce all’offerta Vodafone No Problem ottiene un telefonino scontato, aderendo, però, a una tariffa specifica. Dovrà così effettuare ogni mese almeno 20 euro di telefonate. Altrimenti sarà costretto a pagare un contributo di 9 euro per ciascun mese non in linea con i 20 euro di traffico. Inoltre, in caso di recesso anticipato, l’utente dovrà pagare tutte le rate rimanenti. Insomma non proprio un regalo. Per non parlare, poi, dei messaggini degli spot di Tim Tribù, dove non è facilmente leggibile l’indicazione relativa al costo di attivazione. Del resto Tim modifica spesso i piani tariffari. Per questo motivo le associazioni di consumatori hanno diffidato la Tim. A questo punto conviene non credere ai regali delle compagnie telefoniche, ma cercare di capire cosa realmente propongono e cosa, invece, ci conviene. Per quanto ne so io, i costi dipendono anche dalle nostre abitudini. Mi riferisco al numero delle chiamate, dato che lo scatto alla risposta può incidere molto, ai giorni in cui telefoniamo, se festivi o feriali. Vabbè: scuoto la testa pensando anche alla durata media delle telefonate. Senza dimenticare, inoltre, di far attenzione ai numeri dei destinatari, se fissi o cellulari e se appartengono ad altri operatori. Va bene, alla fine pure le fasce orarie sono importanti. E così via. Ma non sempre la ricerca del profilo migliore aiuta. Già. Sconcertato rifletto: riuscirò veramente a trovare un’offerta conveniente? Forse. Poi, improvvisamente mi viene un’idea: chiediamo alle compagnie telefoniche di non produrre più cellulari e di tornare al telefono a gettone. Con un sogghigno ammetto, infatti, un mio grande difetto: non amo il telefonino! Appartengo a quella esigua minoranza di cittadini che per fare una telefonata vorrebbe ancora usare il telefono pubblico. Ed il mio non è certo un atteggiamento da snob. Cavolo, non credo di essere così raffinato. La ragione per la quale non amo il cellulare è molto più semplice: non mi piace. Il telefonino squilla a scuola, al cinema, al supermercato, al bar, al teatro, in Chiesa (ne sa qualcosa Don Alberto!). Il telefonino squilla al ristorante e tutti i clienti, simultaneamente, sfoderano il proprio cellulare. E invece, è quello del cameriere. Il telefonino squilla in volo e l’aereo rischia la catastrofe. La gente, oramai, arriva anche a dormire con il telefonino vicino il cuscino, come fa, del resto, il mio primogenito Gabriele. Oltretutto induce al turpiloquio. Infatti, con il telefonino siamo sempre in contatto con tutti e tutto: mogli, figli, cognati, ma anche scocciatori vari che riescono inevitabilmente a raggiungerci sempre nei posti più impensati. L’unico vizio che il telefonino non asseconda è l’avarizia. Perché ci fa spendere molto di più di quanto spendevamo prima, usando il vecchio telefono fisso o a gettone. Ma è dal punto di vista macro-economico che il telefonino diventa un vero danno sociale. Infatti da quando ci sono i telefonini, si studia poco, si lavora distrattamente e si produce sicuramente di meno. Perché siamo sempre al telefono per dire, molto spesso, parole inutili. Non dimentichiamoci poi, che, mentre conversiamo, veniamo ascoltati da poliziotti, carabinieri, giudici, agenti segreti, radioamatori e semplici impiccioni, che vivono con l’orecchio incollato ai loro apparecchi d’intercettazione. Ed è per questi motivi che io, invece, vorrei ritornare alle vecchie tradizioni, come facevano i miei genitori e i miei nonni. E, senza la forza di 3 e l’aiuto di Tim, Wind e Vodafone, in un mondo di schiavi della scheda telefonica, vorrei tornare ad essere un gettone-dipendente. Splendido. Mario Pulimanti (Lido di Ostia –Roma) 20) FINE DI UNA STORIA Nicole. La donna con cui stavo ricominciando a vivere dopo che Luna se ne era andata via. A Melbourne. Australia. Con Jacopo. Dannazione! Nicole. La donna che un incidente mi ha portato via insieme al suo sorriso, la sua dolcezza, la sua forza d’animo. La sua scomparsa mi ha privato di una tranquillità che sentivo riaffiorare, di quel tepore che trasmette il sentirsi amati. Di un parte di umanità. Ora c’è Desirée. Ma le cose tra noi non vanno come vorrei. Ci sono troppi ostacoli legati al passato, troppe sofferenze con cui confrontarsi. Troppi ricordi. Gli stessi che, ogni anno, mi fanno tornare in questo cimitero per alimentare una nostalgia a cui è impossibile sottrarsi. Un lamento interiore che sibila come vento attraverso le imposte. Un sussurro lontano, proveniente dagli abissi della solitudine. E del vuoto. Nicole. Tu ormai così lontana. Giochi con le stelle. Fai capriole sulle nuvole. Non conosci più l'amaro sapore dell'inverno. Mmmhhh…Woody Allen dice: “La vita si divide in orrori e miserie.” Mah! Nicole. Sto pensando a lei, mentre mi sparo un colpo in testa con una Glock 30. Ecco, ora sto morendo. Vedo la luce avanzare dal fondo della stanza. Aspetto. Faccio finta di contare. Cerco di ingannare il tempo. La luce invade la stanza. Credo di essere morto. Anzi, ne sono quasi certo. Sì, sono morto. Fine. Mario Pulimanti (Lido di Ostia –Roma) 21) LED ZEPPELIN Si passa molto tempo ad elaborare i propri problemi, giustificandoli, creandosi alibi. Quando bisogna esprimerli, appaiono banali. Non cercare sponsor, in fondo, è una scelta così come il momento in cui decidersi di farlo. In ufficio mi lamento sempre quando le reggenze o gli incarichi vengono assegnati a qualcun altro per quelle che secondo me sono ragioni politiche. Del resto non si deve essere tanto furbi per sapere che per andare avanti nel mio lavoro serve qualcosa di più che passare l’esame a pieni voti o lavorare con spirito stakanovista. Avere qualche raccomandazione dall’alto aiuta. Non avrò la stoffa per fare grandi cose. Tuttavia ritengo che non sarebbe affatto male sfruttare sponsor per farmi strada. Questa è la mia opinione, almeno. Ne sono certo. Ragionamento giusto? Debole, a dir poco. Va bene, meglio uscire. Spettacoli gradevoli al Pontile questi giorni. Lunedì alcuni poeti, ieri un gruppo blues, oggi un trio jazz. Cammino. Con calma. Godendomi il fresco della sera. E il profumo salmastro del mare. Tempi universitari: sorrido a quel ricordo lontano. Io ero una specie di ribelle in quel periodo. Portavo i capelli lunghi fino al bavero della giacca. A nonno Angelino non piacevano per niente. Un bravo nonno, però. Ho imparato parecchio da lui. Gliene do atto. Alcuni amici avevano tentato di iniziarmi a quello strano miscuglio di esistenzialismo, comunismo, edonismo e narcisismo che era diventato il modo di pensare di molti ragazzi alla fine degli anni Settanta. Non riuscendovi. Militavo, infatti, nelle file di Gioventù Studentesca, madre dell’attuale CL. E ascoltavo tanta musica. Quella degli anni settanta. Pink Floyd, Bob Dylan, Bruce Springsteen, Jimi Hendrix, Janis Joplin. E i Led Zeppelin, che hanno contribuito all'evoluzione della musica rock attingendo a piene mani dal repertorio blues e rock-blues degli anni 50 e 60 prima, e dal folk e dalla musica orientale poi, creando un suono unico semplicemente vestendo con panni nuovi una musica che ormai cominciava a diventare vecchia. Negli ultimi trent'anni è successo solo per eventi eccezionali, come il Live Aid, ma Jimmy Page, John Paul Jones e Robert Plant hanno sempre negato ogni possibilità di riunirsi dopo la morte per overdose del batterista John Bonham, avvenuta 27 anni fa. Ma ora un giornale inglese ha scritto che i Led Zeppelin terranno a Londra un concerto in autunno. Per questo concerto al posto di Bonham potrebbe esserci il figlio Jason, anch'egli apprezzato batterista. Buona idea. Sono completamente d’accordo. Ah, tra un pensiero e l’altro sono finalmente arrivato al Pontile. Intorno a me, le note del concerto jazz. Penso al rock, ascolto il jazz. Forse il punto è questo: la musica è così bella…bè, a torta finita, è così. Non c’è nient’altro da pensare. Non ho nient’altro da dire. Alla prossima! Giurin giuretto, parola di lupetto. Mario Pulimanti (Lido di Ostia –Roma) 22) OSTIA Ostia. Terra di mare. Il sole è intenso. Acque salate, salate come la mia vita. Ostia. La mente viaggia. Il mio cuore è schiavo. Ostia. Sentimenti avvelenati. Impossibili. Impotenza di fronte ad eventi ruggenti. Caos oscuro. Ostia. Guardo il tramonto. Sono avvolto dalla bellezza di quegli attimi. La mia mente è altrove, viaggia in un mondo fantastico. Ostia. Mi fermo in attesa di una profumata brezza di mare. Delicata sul mio viso bagnato. Di lacrime. Ostia Cerco la luce. Indispensabile per poter sorridere di nuovo. Mario Pulimanti (Lido di Ostia –Roma) 23) NON TUTTI I BASTARDI SONO DI OSTIA Sono di Ostia. E non sono un bastardo. Ci saranno decisioni da prendere, comprensibili diffidenze da superare, resistenze da piegare. Mi chiedo se sarò all’altezza di questo compito. Sono veramente arrabbiato. Abbasso la testa, contrito. Riprendo a camminare in silenzio. Immergendomi nel profumo del vento arrivo all’albero degli impiccati. Intorno a me, indolenti nuvole grigie sembrano galleggiare nell’aria, sospinte dal vento umido, leggero. Quasi a volermi salutare, una grande quercia regala al vento una manciata di foglie multicolori, che scivolano a lungo mollemente, dietro a me, sul lastricato. “No, Mario” mi dice il vento. “No, ascolta: non puoi cambiare la realtà”. Sorrido: “Non temere, vento. Non ci sono problemi. Come vedi, non devi preoccuparti di nulla”. Sono stanco di vivere nell’incertezza. Decido saggiamente che è preferibile rallentare il passo, piuttosto che importunare chi mi condanna. Esito un momento, lancio le ultime grida di sfida, spingo la mia rabbia. E abbandono la via dei boschi. Detesto caldamente le polemiche. Evito di fornire troppe spiegazioni. Senza ostilità, me ne vado. Nella luce fioca diffusa dal mare. Dimenticando ogni cosa. Lentamente. Non tutti i bastardi sono di Ostia. Mario Pulimanti (Lido di Ostia –Roma) 24) OVER THE RAINBOW Giornata di merda. Umida, tra l’altro. Un’umidità saporita che sta aumentando col passare delle ore. Pare di masticarla come un cibo, riempie lo stomaco, togliendo l’appetito. Infatti, nonostante l’ora, non ne ho neanche un filo. Entro in ufficio. Mi si presenta una scalcagnata sindacalista che solo un ardito, cieco e con un arretrato di anni, potrebbe avvicinare. Sbuffo, nervoso. “Molto bene”, penso. “Manca un codice”, dice riferendosi a un mio vecchio ricorso. “Lo so”, confesso. “Aggiungilo, quindi” fa lei. “Lo dico ma è come se non lo facessi. Non sono più interessato”, avviso prima di salutarla, in un soffio. Soffio che provoca una smorfia di disappunto sul viso della sindacalista perché tra tutti gli eccellenti ricorrenti, veri e presunti, che il suo elenco può vantare, dal dirigente CHICCHIRICHI', al direttore generale CAZZAVILLANI, al direttore didattico POMPINI, al notaio FICAROTTA, al prefetto MEZZABARBA, al segretario comunale TONTODIMAMMA, il nome che lei avrebbe volentieri fatto a meno di sentire è proprio il mio. “L’occasione fa l’uomo ladro” aggiunge, “non tocca a me insegnartelo, Mario Pulimanti! Un’orribile parolaccia destinata a lei sale alla lingua, ma mi trattengo. “Non sempre” rispondo. Lascia cadere le braccia lungo i fianchi. “Allora ciao e grazie”, dice. E si avvia lungo il corridoio del piano terra. Le cose cambiano, penso, secondo come e chi le guarda. O cazzo. Mmm…. Roba da matti! Stanco. Stufo. Vecchio. E pure coglione. Mi brucia lo stomaco. Esco. Fuori, all’aria aperta! Lontano da quell’odore di bruciato! Quel sentore di guaio, quell’ala malefica che mi ha sfiorato quando mi ha parlato del vecchio ricorso, del fatto che secondo lei vinceranno in appello, improvvisamente è sparito. Ho sbagliato? No, non mi pare. Cosa dovrei rispondere? Sì? No? Boh? La verità, porca puttana! D’altronde mica posso negare che avrei fatto male a far parte ancora della squadra dei ricorrenti storici di un ricorso inutile. E adesso? Nessun pensiero, se non quello di stare lì, attendere. Smetterò di sbirciare l’orologio. Non zoppicherò. E, poiché di fantasia ne ho, mentre prendo a calci la realtà, comincio immediatamente a immaginare come potrebbe essere una vacanza in Salento O vivere sopra l’arcobaleno. Over the rainbow. Mario Pulimanti (Lido di Ostia –Roma) 25) PIU’ ALTO DEL MARE Agonizzante. Proprio io. Polso filiforme. Pupilla midriatica. Riflessi quasi assenti. Ritmo cardiaco di galoppo. Immobilizzato, angosciato perché ho l’impressione di morire. La mia vita è appesa a un filo. La prognosi è riservata, riservatissima. E la colpa non è solo del fato che mi ha ridotto in questo stato larvale. Ma anche del fatto che ho temporeggiato sottraendo minuti preziosi alla decisione. Cos’ha combinato? Boh… Un’insinuante puzza di bruciato comincia a solleticare le mie narici. “Vuoi vedere…” mormoro tra me, che mi stanno fregando! Davvero, roba da matti! Smadonno mentalmente. Scemo che sono! Se non è zuppa, è pan bagnato. Fuori, all’aria aperta! Lontano da quell’odore di chiuso. Sulla soglia del portone, inalo almeno un paio di litri d’aria. E il sentore di bruciaticcio, di cui ho le narici impegnate, sale e dilaga con prepotenza nel cervello. Se qualcuno sta sparlando di me non c’è più nemmeno un secondo da perdere. Avanti, quindi. Bando alle parolacce! Però, vacca puttana! Quando ci vogliono… Cambiare? "Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi!" prendo spunto dalla celeberrima frase che Tomasi di Lampedusa fa pronunciare a Tancredi ne “Il Gattopardo”, per esprimere tutta la preoccupazione e il disappunto per quanto mi sta succedendo. “Perché?” chiedo dopo un po’. E’ la prima parola che mi ritorna alla lingua. Fra tutte, forse la meno adatta. Va bene. Presto, presto! Accetto senza esitare. In mancanza di meglio. Nell’aria, quindi, non c’è più odore di bruciato. Però, a un certo punto… A un certo punto mi chiedo se non stia esagerando e mi rimane il dubbio se aggiungere o meno un cucchiaino di zucchero al caffè che ho chiesto per chiudere il pranzo. Infine non posso fare altro che attendere. Pentirmi. Pentirmi e redimermi. E forse… Forse? Forse mi farò frate! Mi farà meno male. Nessuno più ride. Cosa intendo? Niente. Scazzo vero e proprio. Chiamiamo le cose col loro nome! Agli ordini, faccio dentro di me. Sperando che finisca qui. Fino a nuovo ordine. Da vecchio coglione. Ora è giunta l’ora di giocare a carte scoperte, me ne frega un cazzo, Monti, Merkel, Hollande o Barack Obama … Tutto sommato non è poi così sbagliato. Sul mare il vento sta cominciando a soffiare. Raffiche alte per intanto. Solo da qui a un po’, comincerà a sollevare onde bianche di spuma. A me il vento, piace. Mi fermo, ricevendo in viso le prime raffiche. Guardo il cielo. Più alto del mare. Dopodiché sembra che tutto si oscuri. Torno a casa. Spero che non sia successo niente, che tutto fili liscio, ma… La legge è legge. E non ammette ignoranza. Dimenticatevi di me d’ora in avanti. Per tutti, io non esisto più. Non guido più contromano. Non sogno più. E buonanotte. Buonanotte a tutti i sognatori! “…sogno un po’ più forte quando sono sveglio...” (Ligabue) Mario Pulimanti (Lido di Ostia –Roma) 26) ALLA FACCIA DEL WURSTEL Comincio a analizzare ogni mio pensiero, cercando qualcosa di anormale o di alterato. Mi costringo a star sveglio di notte perché ho paura dei miei sogni. I sogni sembrano reali e non lo sono, e mi rendo conto che sono molto vicini alla pazzia. Telefono a un amico. Nessuna risposta. Forse sta facendo un riposino post coitum. Entro in ufficio. Intorno a me, una fila ininterrotta di avemarie, paternoster, virgofidelis, agnus dei, e via di questo passo. Il motivo? Questo: é’ appena' stato ancora convocato ufficialmente il Consiglio dei ministri sulla spending review, dopo il via libera dell'Aula del Senato. Il testo, gia' approvato dalla Camera e non modificato a Palazzo Madama, diventa legge. I voti a favore sono stati 203, i contrari 9, gli astenuti 33. Il decreto prevede la nascita di un Comitato interministeriale per la revisione della spesa pubblica presieduto dal presidente del Consiglio e da un commissario straordinario per la razionalizzazione della spesa per acquisti di beni e servizi della Pubblica amministrazione. L'attuale commissario Enrico Bondi avrà poteri ispettivi e resterà in carica un anno. In vista del Consiglio dei ministri, si precisano i principali provvedimenti che verranno assunti: stretta sul numero di dirigenti e impiegati pubblici, accorpamento di uffici, tagli ai buoni pasto e alle auto blu nella Pubblica amministrazione. “Un caffè?” propone un collega. Declino l’invito. Del resto il caffè l’ho preso prima di entrare in ufficio. Quello della macchinetta sa di estratto di liquirizia. Si prevede inoltre la razionalizzazione degli spazi per gli uffici e i buoni pasto non potranno superare i 7 euro. Le ferie non potranno essere monetizzate, gli uffici chiuderanno nella settimana di ferragosto e in quella tra Natale e Capodanno. Sospensione dei concorsi per l'accesso nella prima fascia dirigenziale. In caso di revisione degli organici, i sindacati saranno solo informati mentre si provvedera' al taglio del 10% sui permessi retribuiti sindacali. Blocco degli stipendi, assunzioni ridotte, concorsi sospesi. E’ drastica la scure sugli statali nella spending review. Rigor Montis ha detto che se vogliamo rimanere in Europa dobbiamo accettare anche la spending review. Che palle! E poi mi considero romano doc, che me ne frega dell’Europa! Io, nativo dello storico rione del Testaccio con discendenze trasteverine, cresciuto nel quartiere “giardino” della Garbatella e, dopo essermi sposato da 28 anni, residente ad Ostia “il mare di Roma” -e, quindi, profondamente romano e ben lieto di esserlo- posso, a ragione, affermare che noi romani, da più di duemila anni, a torto o a ragione, ci sentiamo superiori a tutti. E’ un atteggiamento che fa parte della nostra storia, del nostro carattere e del nostro modo fanfarone, ma sincero, di affrontare la vita. Ce lo vedete un romano fare la fila alla posta di Testaccio come Mr. Jones al post office di Kensington? Ce lo vedete un romano parcheggiare la sua automobile come un danese a Copenaghen? O ridere delle insipide barzellette fiamminghe? E quando va in spiaggia vestirsi come quei tedeschi con sandali e calzini che incontri non solo sul lungomare di Ostia, ma anche, con lo stesso look, nel centro di Roma? No, non è bastato certamente l’euro a convincerci che un wurstel vale una coscia d’abbacchio né che la pancetta con le uova fritte sia più saporita dei rigatoni con la pajata o della coda alla vaccinara che cucinava mia nonna Jole. E, fortunatamente, allo stesso modo la pensano anche i miei figli Gabriele e Alessandro e tanti loro amici. Il romano è un osso duro per l’Europa. Prima di piegarci ad un nuovo modo di vivere e di pensare passeranno molti anni, forse diverse generazioni. E, probabilmente non ci riusciranno mai! Del resto “civis romanus sum! Alla faccia dello spending review. Alla faccia di Angela Merkel. Alla faccia del bicarbonato di sodio. Alla faccia dell’Europa! Mario Pulimanti (Lido di Ostia –Roma) 27) CAROSELLO “Siamo alle solite Calimero, tu non sei nero sei solo sporco, Oplà”. La pubblicità rappresenta epoche della nostra vita più di altre forme di comunicazione. Carosello, per esempio, ha segnato un’epoca nei costumi e nelle abitudini sociali degli italiani. Di fronte agli spot dei nostri giorni, è difficile non provare nostalgia per la genialità o la sobria eleganza di alcuni dei messaggi di Carosello. Da “la pancia non c’è più” al caffè di Carmencita, da Calimero a “basta la parola”, una galleria dei motti e delle immagini che hanno segnato l’infanzia di molti. “Laggiù nel Montana fra mandrie e cowoboy c'è sempre qualcuno di troppo fra noi.... e vedendo la carne Montana che stringo alè vengon tutti a mangiare con Gringo”. Olivella sposina novella, El merendero, Cera liu', Caramelle Ambrosoli, materassi Permaflex, Caffe' Paulista. Vecchia Romagna con Gino Cervi, Cynar con Calindri..il logorio della vita moderna. Lagostina, Ava come lava, con quella bocca può dire ciò che vuole ... "Miguel son sempre mi"... Ma Carosello, ormai, fa parte della storia del costume prima che di quella della pubblicità. Il cui principale obiettivo è far conoscere marchi e vendere prodotti. Perciò, accontentiamoci degli spot moderni. Noiosi, invasivi. Scoccianti. Rivoglio Carosello. Rivoglio quella televisione. E,... dopo Carosello tutti a nanna! Mario Pulimanti (Lido di Ostia –Roma) 28) FOLLIA PROFONDA C’è silenzio. Poi, con un grugnito, il Bau Bau si sposta. Non cerco di alzarmi, non mi interessa più. Resto steso di schiena con il braccio penzolante, floscio, lungo il fianco e le dita sul pavimento e lascio vagare lo sguardo sul soffitto. Lassù vedo città e montagne. Vedo stelle e nubi. Levito, volo e nient’altro conta. Non conta che da qualche parte, nell’angolo della stanza, il Bau Bau stia inserendo la spina dell’apparecchio nella parete. Non conta quando sento il rumore della sega elettrica. Tutto ciò che conta è continuare a volare, sicuro di poter raggiungere le stelle. Over the rainbow. Mario Pulimanti (Lido di Ostia –Roma) 29) SOTTILI STUPORI Mi alzo, sudato. Vado in cucina. Mi siedo a riflettere davanti a un bicchiere d’acqua. Prendo del ghiaccio per raffreddarla, altrimenti mi sembrerebbe tiepida come urina di cane. Pochi passi e sono nell’altra stanza. Sul tavolo c’è una rivista di Alessandro, “Storia Illustrata”. La sfoglio, distrattamente. Cavolo, la storia del Minotauro, del labirinto e del filo di Arianna. Secondo il mito, il Minotauro venne concepito da Pasifae, moglie di Minosse re di Creta, che per accoppiarsi con il toro di cui si era invaghita entrò nel simulacro di una vacca, costruito appositamente per lei dall’architetto Dedalo. Rinchiuso nella camera segreta di un impenetrabile labirinto, il frutto di quella unione bestiale –un mostro dal corpo umano sormontato da una testa di toro- pretendeva ogni nove anni in sacrificio sette fanciulli e sette fanciulle greci. A ucciderlo fu infine Teseo, che uscì indenne dal labirinto grazie al filo di cui lo aveva provvisto Arianna, la figlia del re che dell’eroe si era perdutamente innamorata. Già, l’amore! Bella storia! Esco in balcone. Gli attori ci sono tutti, penso. La commedia può cominciare. Sto prendendo coscienza della vulnerabilità e della fragilità dell’essere umano al cospetto di una natura rigogliosa e brulicante di insidie. Sottili stupori. Normalmente sono risoluto a vedere il bicchiere mezzo pieno anche quando altri lo avrebbero trovato quasi vuoto. A volte, però, il Fato capriccioso si diverte a far cadere sull’ottimismo la mannaia pesante di un colpo inatteso. Soprattutto se c’è qualcuno che mi trama contro alle spalle. Maledetto lestofante! grido furioso. Puah, niente attenuanti. Stavolta ti spello. Ti metto in croce. Ti inchiodo al remo. Ti faccio a fette. Ti affondo nelle miniere di sale. Ti getto in pasto ai coccodrilli. Ti lapido. Proprio così! Poi esco di casa e mi avvio tutto triste sulla spiaggia, lasciandomi inghiottire dal mare. Ave atque vale: ciao e stammi bene! Mario Pulimanti (Lido di Ostia –Roma) 30) LA LUNGA OASI Mi chiamo Neferkheperura Waenra Amenhotep. Dopo trentasette anni di esilio, torno alla mia Tebe, favolosa città dalle cento porte, capitale dell’alto e del basso Egitto. Finalmente sono riuscito ad uccidere il mio nemico, Thutmosis. Lui mi aveva condannato all’esilio. Lo ucciso con un micidiale veleno e poi ho arso il suo cadavere, disperdendone le ceneri ai quattro venti. L’ira di Amon è placata! Però, le parole non possono lo stesso compensare i baci perduti e il rimpianto delle scelte sbagliate. Questa una sensazione con cui ho imparato a convivere. Stavo provando le stesse sensazioni che prova un'anima quando si stacca dal proprio corpo, vedendo la sofferenza dei propri cari senza poter fare nulla per consolarli, quando ho incontrato lei, sulla strada per Tebe. Lei, Maatkara Hatshepsut, figlia di Anekh-Sheshong. Lei, Maatkara Hatshepsut, devota ad Iside. Iside, la dea Fortuna. Immediatamente ho ringraziato con una preghiera Aton, il disco solare. “Servi il tuo dio, che egli possa proteggerti.” Del resto, accade a volte che i Numi annoiati -non c’è granché da fare sull’Olimpo, nettare e ambrosia a parte- intervengano nelle faccende spicciole dei mortali, vuoi per favorirli, vuoi per avversarli. Non c’è bisogno di dire che, nel mio caso, il cielo si è mosso in mio sostegno, inviando sulla terra Maatkara, dea celestiale con il suo fascino sfolgorante. Non male, ho subito pensato, convincendomi che la Dea Fortuna non era ancora risoluta ad abbandonarmi. “Servi i tuoi fratelli, che tu possa avere buona reputazione.” Lo confesso, c’è voluto un nano secondo prima che mi innamorassi della dolce Maatkara. Del resto é una ninfa, una dea. Bastet, la Dea Gatto. Ed io un semplice scriba. Un racconta fiabe. “Servi un uomo saggio, che egli possa servire te.” Nella mano destra tengo un calamo appuntito. Nella sinistra un rotolo di papiro. E nel cuore, tengo lei. Pensare a lei mi fa scorrere il sangue nelle vene come se avessi mandato giù tutto d’un fiato un intero calice di shedu. Ho sognato di cavalcare con lei nel deserto. Cavalcare nel deserto, che idea bizzarra! mi dico, ma non posso impedirmi di immaginare i suoi splendidi capelli volare sciolti al vento, le sue gambe nude strette al ventre dell’animale, le sue natiche che si alzano ritmicamente, il suo sorriso mentre si volta a guardarlo. E le dune, e il tuo corpo flessibile inarcato sulla sabbia della lunga oasi. E il suo seno schiacciato sotto il mio peso, e le sue unghie appuntite sulla mia schiena e il grido roco delle sue belle labbra, perso come un’eco nella notte silenziosa. “Servi colui che ti serve.” Basta! Mi impongo. Devo por fine alle suggestioni, per quanto fascinose, e badare al sodo, pena il naufragare in un mare di fantasie troppo fervide ed esuberanti. Vabbé, lo ammetto: da quel momento non faccio che correre a perdifiato verso il suo profumo. Verso i suoi occhi, irresistibile invito all’amore. “Servi ogni uomo, che tu possa averne profitto.” A volte mi sembra di sentire delle voci perplesse sussurrarmi “Ti costerà parecchio questo amore, più ansia che gioia”. “Via, sciò, levatevi dai piedi, menagrami. Non mi impauriscono le vostre macumbe, incantesimi e strani rituali. Pagherò fino all’ultima dracma, per difendere il mio amore!” Del resto come potrei cercare amori altrove, dopo aver conosciuto lei la regina del mondo? “Servi tuo padre e tua madre, che tu possa procedere e prosperare.” Ma cosa ho fatto per farla innamorare di me? Semplice: le ho fatto bere una pozione magia. Gli ingredienti? Questi: Malemonio, dauco, rosa canina, gelotiphyllis. Basilico, veleno d’aspide, giusquiamo, acconito, sangue secco di impiccato. Assenzio, meconio, semi di belladonna. Grani di terra in cui è stato sepolto un parricida, lingua essiccata di lucertola, olio essudato da una mummia reale….e una buona dose di oppio è indispensabile! Betonica, lisimachia, issopo del monte Soratte. “Esamina ogni cosa, che tu possa comprenderla. Sii gentile e paziente, e il tuo cuore sarà bello.” Passeggio con lei sulla riva del Nilo, a destra della lunga oasi. Lei ha sul corpo numerosi amuleti. In particolare, sotto la testa, ha un amuleto che reca la riproduzione del dio Osiride. Baciandola intensamente, le canto una lirica d’amore: “Tu, Maatkara Hatshepsut. che splendi di perfezione, con gli occhi belli quando guardano, con le labbra dolci quando parlano, per la quale non c'è discorso superfluo; tu, che lungo hai il collo, il petto luminoso, con una chioma di vero lapislazzuli, le tue braccia superano lo splendore dell'oro, le tue dita sono come calici di loto; tu, che hai languide le reni, strette le anche, le tue gambe difendono la bellezza, il tuo passo è pieno di nobiltà quando posi i piedini sul suolo, con il tuo abbraccio mi prendi il cuore.” Maatkara, mia dea. Maatkara, l'unica, l'amata. Maatkara, la senza pari, la più bella di tutte. Maatkara, guardandoti sei come la stella fulgente all'inizio di una bella annata. Maatkara, possiedi i venti nell’isola della gioia. Maatkara, detieni il remo del comando della barca del mio cuore. Maatkara, con te realizzerò il sogno dell’immortalità. Maatkara, l'amore che ho per te è diffuso nel mio corpo come il sale si scioglie nell'acqua, come il frutto della mandragola si impregna di profumo, come l'acqua si mescola al vino! Maatkara, io sono il tuo amato, sono tuo come il pezzo di terra che ho seminato di fiori per te. Maatkara, il mio corpo è felice, è in gioia il mio cuore per il nostro camminare insieme. Maatkara, è dolce come mosto udir la tua voce, vivo quando la odo, se ti vedo è meglio ogni tuo sguardo per me che mangiare e che bere! “Fluisce per me un’ora dall’eternità, da quando giaccio con te” Mario Pulimanti (Lido di Ostia –Roma) 31) ORRORE E INCREDULITÀ Arggg! Orrore e incredulità. Brianna. Lei, una femmina appena fuori dall’adolescenza, che non aveva mai partorito. Uccisa. Nel quartiere ebraico Colpita una volta, poi due, poi tante. Colpita finché non ha smesso di vivere. Per un litigio da nulla, per una bagatella, uno sciocco battibecco tra ragazze che, innamorate dello stesso uomo, in un momento di stizza si lasciano andare a qualche parola in più. Niente più cavalli scalpitanti per lei. Niente più deserto. Niente più notti stellate. Niente più sogni. Niente più follie. Niente di niente. Solo un corpo senza vita come tanti altri.- Un involucro marcescibile. Un cadavere. Una carogna. Lei era come una falena attratta dalla luce verso tutto ciò che le sembrava azzardato, insolito o bizzarro. Lei, stupenda. Perfetta, una Immortale discesa dall’Olimpo, l’avvenenza fisica e la prontezza mentale incarnate…. Lui, Kevin , era soltanto uno dei molti uomini capaci di incarnare i suoi sogni di gloria. Ma, a differenza di tutti gli altri, avrebbe onorato l’amante di una sola notte con un regalo inestimabile, per ringraziarla di avergli fatto avvertire, nello spazio di un brevissimo istante, il sentore inebriante dell’immensità: avrebbe offerto in dono la vita dell’assassina alla sua ombra inquieta, perché, sazia di vendetta, potesse infine riposare in pace. E poi sarebbe stata libera di vivere negli alberi, ondeggiando alla brezza senza più canapi, respirando nelle foglie e cantando al vento, disse tra sé e sé rivolto all’ombra di Brianna. Splendida driade, e non più mero cibo da vermi. Shalom aleichem. Mario Pulimanti (Lido di Ostia –Roma) 32) IL MARE DI OSTIA E L’UOMO DI NEVE Ostia entra nella classifica fra le spiagge migliori del Lazio. Mare pulito, stando alle analisi dal Porto sino alla tenuta presidenziale di Castelporziano, dove il divieto scatta per tutela e non per inquinamento. Rispetto ai dati dell’estate passata, migliora persino la qualità dell’acqua davanti alla spiaggia libera dei “Cancelli”: i divieto di balneazione si riduce da mille a 250 metri a ridosso del Canale Pantanello (o di Palocco). Quindi il mare ad Ostia è pulito. Certo non é limpido come il mare in Puglia, Calabria e in Sardegna ma senz’altro è più pulito del mare della riviera romagnola, grazie ai modernissimi depuratori in funzione da anni. E non vanno ascoltati i denigratori che ti diranno sempre che Ostia fa schifo: a questi volatili del malaugurio basta fare cucù. Lo confesso: quando sento dire che il mare di Ostia, il mio mare, non è pulito perdo la pazienza. Mi da la stessa sensazione di fastidio che può provocarmi sentire qualcuno che rutti rumorosamente. E, siccome i morsi della ferita provocatomi da questi discorsi anti-lidensi continuano a farsi sentire di brutto, trafiggendomi il fianco come l’aquila di Zeus quando rodeva il fegato di Prometeo, non resisto a commentare: “Come si può vivere altrove, dopo aver visto Ostia, la località più splendida del mondo?” Diciamolo francamente, in confronto ad Ostia, il resto del mondo è un borgo di capre. A questo punto, cari lettori, mi sembra già di sentirvi chiedere sconcertati: “Mario, ma cosa stai dicendo? Del resto non sei una persona a cui fare affidamento nei momenti di bisogno. Tu, vile marione, sminuisci i problemi altrui! Sei solo un uomo di neve….” Tranquilli: certamente non sono un serioso filosofo stoico, di quelli che predicano come ci si deve prendere cura della cosa pubblica, partecipare agli eventi politici e prodigarsi per il bene della comunità. Niente affatto! Aderisco, invece, alla dottrina del saggio Epicuro, la cui principale raccomandazione è la ricerca della felicità, che si trova ovunque, nell’equilibrio interiore, nel distacco delle passioni, nella capacità di godere dei piaceri anche minimi, nell’assenza della paura, nella dolcezza di un paesaggio, nel sapore di un frutto, nelle braccia di una donna, nella conversazione di un amico, nelle pagine di un libro. Ovunque, salvo che nei corridoi degli uffici, fitti di intrighi, tradimenti e delitti. Che ci faccio io allora in questi corridoi, gravato della responsabilità del lavoro, anziché a Ostia, intento a mostrare la mia collezione di farfalle alle donne più affascinanti del litorale? Ma intanto continuo a correre a perdifiato, con l’immagine del mio mare nel portafoglio. Giù le mani dal mare di Ostia! Mario Pulimanti (Lido di Ostia –Roma) 33) MI MANCHI, MAMMA! La brezza proveniente dal mare ha spazzato via l’afa del giorno torrido e ora gonfia le lenzuola del mio letto, facendone un’oasi di frescura. Sul tavolino accanto al comò, un piatto capace ospita tre albicocche, due fette di melone e una d’anguria, e una ciotola di fichi, pesche, mirtilli e ribes. E una bottiglia di Macallan 25 years Anniversary, whisky di puro malto. Papà Valeriano lo adorava perché maturato in barili di quercia. Squilla il cellulare. Stefano, mio fratello. Parliamo di mamma. “E’ davvero così? Mamma si sarebbe salvata se l’avessero messa in terapia intensiva, dopo l’operazione?” chiedo aggrottando le sopracciglia, mentre sul viso mi transitano rapidamente, per fondersi l’uno nell’altro come fiumi in piena, il bianco dello sconcerto, il verde della bile, il rosso dell’imbarazzo, lo scarlatto dell’ira. “Sì, Mario, ricapitoliamo brevemente: lei é stata operata per la rottura del femore all’ospedale San Camillo, sabato 28 luglio. Un intervento perfetto, durato poco più di un’ora. La fase post operatoria sembrava procedere regolarmente. Ma attorno alle sei di pomeriggio del giorno dopo, domenica 29 luglio, il suo cuore ha smesso di battere. Non si sa da dove sia partita l'embolia, l'unica cosa certa è che mamma non c'è più..” scuote la testa desolato Stefano, aggiungendo “Certo se l’avessero messa in terapia intensiva, come avevano promesso prima di operarla, sarebbe ancora viva. Infatti la terapia intensiva garantisce immediati interventi in caso di necessità, per cui si sarebbero accorti in tempo dell’embolo, rianimandola prontamente.” Salutando Stefano, mi ricordo del dottorino dal viso di falco che mi ha detto “sua madre è deceduta!” con un tono indifferente. Sembrava quasi che mi prendesse in giro. Mi ha costretto a soffrire, impreco, maledetto, maledetto, maledetto! L’avrei ucciso, gettando il suo corpo ai corvi e agli avvoltoi del deserto. A questo punto, benché lavato, nutrito e dissetato, non riesco a dormire. La stanchezza gioca brutti scherzi, soprattutto se uniti all’eccitazione di eventi gravi e azzardati. Allora tanto vale alzarmi, decido. Accendo il pc per esaminare i miei blog. Mi stanco subito ed esco sul balcone. Mamma Ernesta. Mi ha sempre difeso come una leonessa difende i suoi cuccioli, anche a costo di subire biasimi e critiche. Accendo la radio. “…poi mi viene in mente, se mi metto lì a pensare, il bacio di una madre come solo lei sa dare...” Diamine, non potevano scegliere un altro momento per trasmettere “Come Gioielli” di Eros Ramazzotti! Chino la testa, domato, e mi metto a singhiozzare a dirotto, come se giorni e giorni di tensione avessero scelto proprio questo momento per tracimare tutti assieme in un lungo pianto liberatorio. Ancora il cellulare. Stavolta è Simonetta, compagna di vita. Sta tornando da Collevecchio. Senza Alessandro. Il poeta ha preferito rimanere un’altra settimana dalla nonna. Sento aprire la porta. Mi volto, è Gabriele, il neo-dottore. Nota sul mio viso qualcosa che non va. Infatti mi abbraccia. Poi se ne va. Al cinema. Con Francesca. Rea. Non Rea Silvia, sia chiaro! Debbo ritenermi soddisfatto, rifletto allungando di nuovo le gambe sul letto, di avere avuto una mamma come mamma Ernesta. Lei, che mi ha guarito i graffi e le ferite con una carezza magica. Lei, un posto caldo dove ho trovato sempre un abbraccio. Lei, con quell’odore di buono che mi faceva tornare bambino. Lei, che mi lasciava andare anche se avrebbe voluto tenermi stretto a sé. Lei, una canzone nella notte. Lei, una ninna nanna speciale. Lei, uno sguardo che non aveva bisogno di parole. Lei, quella che sapeva, sempre, cosa era la cosa migliore per me. Lei, quella mano che mi ha tenuto mentre traballando imparavo a camminare. Lei, il bum bum del cuore che sentivo appoggiando la testa sul suo petto. Lei, mamma, una parola: la prima che ho detto. Lei, mamma, un sorriso: il primo che ho visto. Lei, mamma, una voce: la prima che ho udito. Lei, mamma, un sapore: il primo che ho assaggiato. Lei, mamma, una culla: la prima che ho avuto. Lei, mamma, che soffrendo mi ha fatto nascere. Lei, che mi ha parlato nel cuore della notte. Quando tutto il mondo era addormentato. E nessuno, tranne me, udiva le sue parole. E, tenendomi fra le braccia, mi avvolgeva di un amore che aveva una forza inaudita. Sfoglio un vecchio album di fotografie: qui avevo sei anni. “Vieni!” sembra dirmi, prendendomi la mano per condurmi a casa. Mi manchi, mamma. Improvvisamente mi sento invadere da una torpida sonnolenza. Quando mi addormento, mentre il giorno si spegne lentamente, sulle pagine lucide dell’album spiccano ancora le tracce delle mie lacrime. Mario Pulimanti (Lido di Ostia –Roma) 34) UN GIORNO QUESTO DOLORE TI SARA’ UTILE Disperazione. Attesa. Orrore. Morte. Fuga. Riscatto. Ho partecipato a troppi funerali. Non c’è giorno in cui non mi chieda perché io vivo mentre altri giacciono in qualche tomba dimenticata di questo mondo malato. E’ stato allora che l’ho conosciuta. Al bar “Magnanti”. Quello di Gioacchino. Mi ha raccontato una storia. La sua. Lei, Tanya. Una dea, leggiadra come una rosa. Lui, Fabio. Il marito. Un uomo senza scrupoli. L’amante di lei, Aldo. Consulente finanziario. L’uomo più fascinoso di Firenze, bello, ricco, atletico, seducente. Fabio prima sfigura Tanya, con acido solforico. Poi uccide Aldo con due colpi di pistola. La mia prima reazione è di mordermi le labbra. “E’ orribile, Tanya, orribile!” gemo, incrinando la voce. “Ha le mani sporche di sangue, tuo marito!” Un assassino, le cui azioni non possono che suscitare orrore in chiunque abbia un minimo di rettitudine e di coscienza. Un uomo le cui mani grondano sangue. “Un Killer dello Zodiaco!” taglio corto, mentre mi chiedo perché sto parlando in quel modo a lei, ex moglie sfigurata di un assassino. “Credi di cavartela con qualche battuta disinvolta, Mario?” brontola Tanya. “No, no, un momento!” faccio io, per nulla stupito. Dunque, vediamo: i rei possono forse sfuggire alla giustizia degli uomini, ma le Erinni, Dee dell’ira, della cieca collera e dell’atroce rimorso, li inseguirebbero ovunque per rodere loro il cuore, scatenando i neri mostri Terrore, Rabbia e Pallore affinché li braccassero senza speranza di rifugio, né in terra, né in cielo. “Andiamo già meglio” mormora Tanya con un filo di voce. “Un giorno questo dolore ti sara’ utile” le dico. “Non è vero!” grida Tanya. “Oh, sì che lo è!” sospiro. “Del resto io sono tutt’altro che invulnerabile! Lungi dall’essere un Dio, sono un semplice uomo avvezzo a sbagliarmi, e quindi abituato a trarre profitto dagli errori.” “Che intendi dire?” mi risponde, fissandomi con sguardo sgomento. “Questo: tu ora sei una donna separata. Una dama riverita, onorata e soprattutto abbiente: troverai di sicuro un marito con la dote cospicua che hai, rappresentata dalla tua bellezza e simpatia, regnerai su una grande casa, alleverai una nidiata di figli, comanderai uno stuolo di ancelle, nelle feste prescritte ti recherai in lettiga al tempio dei Cavalieri di Malta all’Aventino, con ricche offerte e da brava devota ti preoccuperai di preparare una tomba fastosa per continuare la bella vita anche nell’aldilà.” “Non ne sono tanto sicura, Mario” scuote la testa Tanya. “Ma spero che tu abbia ragione.” Non replico. Lei mi guarda immobile, annichilita, impossibilitata a credere che il discorso finisca qui, che io non ho altro da dirle. Giunto alla porta del bar mi volto a salutarla: “Ciao, Tanya, riparti da capo. Se ci riesci”. Poi esco, lasciandomi inghiottire dalla notte. Mario Pulimanti (Lido di Ostia –Roma) 35) SONO UN UOMO SENZA QUALITA’ Mi chiamo Mario. Mario Pulimanti. Sono di Ostia. E sono un uomo senza qualità. Però ho molti amici. Ne vado a trovare uno, Federico. Abita in via Domenico Baffigo. Zona Ostia ponente. Uscito di casa mi reco prima alla succursale della Banca Antonveneta, situata lì vicino, e mi soffermo come tutte le settimane davanti al tabellone su cui sono esposte le quote della Borsa del giorno, qualsiasi sia, perché ogni settimana compaiono sempre le stesse. Questo, secondo me, presagisce tre cose: il tracollo della Borsa, la caduta del Governo Monti o la morte dell’impiegato che si occupa del tabellone. Ciononostante, prendo nota con la massima cura e mi soffermo a riflettere neanche dovessi fare un importante investimento. Infine mi dirigo a passi brevi verso la zona del porto, dove abita il mio amico. L’ambiente così variegato mi stordisce più del solito. Ci sono curiosi, gente a passeggio, barbieri disoccupati, promotori finanziari che frugano nei cestini dei rifiuti e persino qualche puttanella che arriva, piena di legittima speranza, dalla periferia di Acilia. Ci sono anche naturalmente, turisti giapponesi, a dimostrazione che Ostia ha un avvenire. Disturbato da tanta confusione sento quel che sento sempre in questa zona: che inizia a perdere pezzetti di me. Penso di scendere fino a Viale del Sommergibile, dove i marciapiedi sono ampi e permettono di osservare la gente, ma sono spaventato dalla folla che posso trovare in questo centro del mondo, sicché mi infilo nel solito bar e chiedo un caffè ristretto. E’ un bar molto piccolo, appena un segmento della portineria dell’immobile. Bevo il mio caffè, commento con il proprietario gli interessi bassissimi del denaro investito in obbligazioni e esco per comprare il quotidiano in un’edicola che occupa una parte della portineria di un altro condominio. L’acquisto del giornale è un atto rituale, non esente da spirito utilitaristico, poiché senza il giornale non potrei leggere le ultime notizie di cronaca e di calcio, nonché gli spettacoli di Cineland e del Manfredi. Questa mattina, dopo un percorso pieno di desolazione, di delusioni e di sfiducia, giungo in Via Marino Fasan. Lì ci sono due grandi zone: quella inferiore, del parcheggio, in cui dormono le auto; e quella superiore, delle panchine della piazza, in cui dormono i pensionati. I pensionati non hanno nulla da fare tranne alimentare la speranza segreta che muoia prima il tizio seduto di fianco. Il mio amico abita nella zona più centrale di Nuova Ostia, in un palazzo super sfruttato facente parte delle case ex-Armellini, costruite con pessimo materiale e da sempre note per questa caratteristica in cui ci sono due pensioni, lo studio di un dentista, lo studio di un amministratore, quello di un avvocato, il tempio di una lettrice di tarocchi, una casa di appuntamenti, l’atelier di un sarto di paramenti sacri e lo scantinato del veggente Morgan. Il piano terra, anch’esso ampiamente utilizzato, lo occupano un orologiaio, una caffetteria, un bingo, un ufficio di collocamento e un gioielliere confidente dei Carabinieri. La porta è semi aperta. Busso. Nessuna risposta. Timidamente, entro nella casa dove Federico vive con la giovanissima e splendida seconda moglie ucraina. Vedo spuntare da un lato del letto un paio di gambe snelle e lunghe, un pezzetto di gonna dai colori sgargianti, il rettangolo di un pube nudo e un paio di mutandine buttate sul comodino. Le due gambe di donna si dirigono verso di me: lunghe, sensuali, carnose. Al di sopra delle gambe, c’è qualcos’altro: un volto ovale scuro, tostato dal sole e avvolto in una capigliatura bionda. La proprietaria delle gambe e del volto si presenta: dice di chiamarsi Valiusha, moglie di Federico. Lui non c’é. Gli ha telefonato la sorella per un motivo urgente ed è dovuto andare subito da lei, a Collevecchio. Valiusha é pettinata all’ucraina: una superficie liscia e severa raccolta in uno chignon, come quello delle dame vittoriane. Non deve superare i trenta anni. E’ seminuda. Indossa una finissima camicia da notte, ma solo fino al pube: sotto l’orlo spuntano le pieghe dell’inguine, insinuatrici di cellulite e di altre sostanze poco raccomandabili. L’ho sorpresa in pieno sonno. Chiede se voglio un caffè, retrocedendo di un passo. Le dico che vado di fretta. Lei si appoggia di schiena alla parete, ansima, piega una gamba nuda, mostra la curva del culo nudo, esibisce i danni che ha lasciato la buona tavola. Mentre mi saluta, per un attimo mostra inavvertitamente il suo culo di marzapane e il suo pube di seta. Esco, avendo ancora negli occhi la sua retroguardia lunare, la vita stretta e giovane e le gambe, sicuramente guardate di sottecchi da eserciti di uomini, assessori e preti. Valiusha, complimenti: un culo perfetto e abbondante è un miracolo. Solo una donna su cento ce l’ha. Sono di nuovo in strada. Nuova Ostia: un mondo pieno di vita, di sacrificio, di peccato e di speranza. Intorno a me, turisti pidocchiosi, poeti in vendita al miglior offerente, sindacalisti intenti a redigere un manifesto in cui chiedono la giornata lavorativa di due ore. Qui circoli culturali e sezioni politiche coesistono fianco a fianco con i negozietti a gestione familiare in cui si possono cambiare assegni,pagare bollette e comprare parrucche, artigianato africano, liquori e mobilio vario. Molti degli edifici più vecchi sono deserti e parecchi sono recintati o sigillati da porte metalliche coperte di graffiti. Dietro le strade più affollate, elettrodomestici a pezzi aspettano che qualcuno venga a razziarli e la spazzatura si ammonticchia agli angoli delle case e davanti ai marciapiedi. Erbacce e giardini di fortuna invadono i lotti abbandonati. Le affissioni reclamizzano gli spettacoli dei teatri di Ostia, il Pegaso, il Fara Nume, Affabulazione, il Dafne, il Teatro del Lido, ma anche il più importante Teatro Nino Manfredi, mentre centinaia di manifestini coprono pareti e staccionate, annunciando spettacoli e show di qualche compagnia locale di attori semisconosciuti. Tornando indietro, verso Via della Corazzata, lo scenario cambia: gli edifici deserti sono stati abbattuti o ristrutturati, i cartelloni fuori dai cantieri mostrano quali residenze idilliache presto rimpiazzeranno le costruzioni preesistenti. Difatti la zona appena limitrofa a Corso Duca di Genova è bella e alberata, con marciapiedi puliti. Le file di vecchi edifici sono in buone condizioni. Prima di arrivare sotto il mio portone c’è un palazzo di arenaria, con la facciata ricca di decorazioni scolpite nella pietra ed il ferro battuto di un nero lucente sotto il sole della tarda mattinata. E più avanti due splendide palazzine risalenti agli anni sessanta. Mi fermo vicino a quella di destra, davanti alla fermata dello 01. Ecco, questa è casa mia. Cavolo. Mario Pulimanti (Lido di Ostia –Roma) 36) DANA, LA DIFETTOSA Incontro un amico. Francesco. E’ stato lasciato da Dana. Giovane e russa. E vegetariana. Cerco di fargli coraggio. “Che si ficcasse in culo” risponde. Vuol fra credere che per lui sia una storia passata. “Fanculo ai cattivi ricordi” grugnisce. Ma io sono sicuro che è ancora innamorato di lei. E sono sicuro che stia soffrendo. E soffrirà ancora di più domani: il ricordo col tempo fa male. Molto male. “Ultimamente la vedevo poco” continua “E quando la vedevo si comportava come tutte le ragazze di oggi: mi mandava a quel paese”. “Lascialo perdere” brontola Renato. Novantenne bolognese. Amante dei sigari toscani. Comandante della Brigata partigiana Stella Rossa “Lupo”. Renato ride con la sua risata sana e profonda, che ha attraversato anni difficili, tempi della guerra, di picconi e di pale, di spazzoloni e di fame, di quando si è giovani, si ha solo un’ora libera e nulla da mettere sotto i denti, e allora si ride così. “Non penso che Francesco stia bene” dico. “Ma che importa? Era difettosa: non portava nemmeno il reggicalze. Però aveva bel culo” dice il vecchio partigiano. “Sei cinico, Renato. E pure irriverente” “Ma no! Ogni volta che muore un mio amico vado al funerale”. Il sigaro è arrivato a metà. Francesco intanto lo guarda con uno sguardo poco soddisfatto, come si guarda la fidanzata di cui si conosce già più di metà corpo. “Insomma smettetela di parlare di Dana: brutta troia” “Non è necessario che la insulti. Sta calmo. Non ti agitare. Pensa invece al governo Monti. Le sue parole contengono elementi allucinogeni, affinché la gente creda alle cifre ufficiali sull’aumento del costo della vita” risponde Renato. “Ma che sciocchezze stai dicendo” dice Francesco. “Invece io penso che Renato abbia ragione. Questo governo tecnico ha deluso anche me” faccio io. “Bravo Mario” risponde il vecchio comandante “E poi dovete sapere che la vita bisogna guidarla, non farsi guidare da lei”. “Certo” risponde Francesco “Però c’è ancora qualcosa che continua a puzzare. Forse è la storia della mia vita che puzza. Puzza di Merda”. “Smettila, Francesco. Dovevi sapere che non puoi ingannare una vegetariana: prima o poi mangia la foglia…. andiamo invece a farci una bella bevuta al bar di Gioacchino”. Mentre entriamo, mi rivolgo a Francesco “Devo imparare a ricordarmi dei funerali, per quando ci sarà il suo”. Mario Pulimanti (Lido di Ostia –Roma) 37) ROMANZO Ho sempre creduto di avere un romanzo in testa. Pensavo che la svolta del mio destino, il mio colpo di fortuna, mi avrebbe consentito di scriverlo. Ho scarabocchiato migliaia di frasi banali in questi mesi, e non riesco a trovarlo. Non c’é. Se c’è, é nascosto. E così mi converrà buttare giù i miei ricordi. La mia confessione. Non sono tipo da vantarmi delle mie doti ben sapendo che la superbia può trasformarle in debolezze. Vado a messa diverse volte in una settimana, cercando forse il consiglio divino per i problemi terreni del genere umano. Non sono mai stato potente. Però sono stato senza potere. Chi ha il potere e chi non ne ha sono gli unici a sapere la verità. Chi sta nel mezzo è troppo annebbiato dai sentimenti per sopportarla. Dall’ottantaquattro mi trovo a Ostia, nel cuore dell’Italia. Questa sarà la mia ultima battaglia, l’atto finale di un’esistenza passata ad attaccare e a essere attaccato. Sono stanco, ho 52 anni, però è come se ne avessi vissuti ottanta, corpo e testa non potranno resistere ancora per molto. Ho raccontato ad un mio amico che sono un maniaco omicida uscito da un manicomio criminale grazie a un cavillo giuridico. Per questo, secondo me, mi abbraccia ogni volta che ci vediamo: vuole farmi vedere che mio è amico oppure vuole accertarsi che io non abbia addosso un’ arma. Non sono sicuramente un lettore con la puzza sotto il naso perché, accanto a molti classici, gli scaffali della mia libreria sono pieni di romanzi di evasione. Alzo gli occhi e guardo mio fratello. Stefano, in piedi accanto al muro, mi scruta perplesso. Poi mi abbraccia. “Sei il mio fratellone, no?”. Con le mani appoggiate ai braccioli del divano, Antonella si rimbocca il vestito. Antonella, di noi tre, è quella anomala. Magra, con un’espressione costantemente tesa, animata, come mamma, da sprazzi di vera energia. Sono di buonumore; nel giro di pochi minuti uscirò con Stefano a godermi il sole, dopo una giornata di lavoro. Incontriamo un tossico. Un tossico vero. Va fuori di testa. Discorsi mistici. Jonesco puro. D’impulso rispondo: “Non importa che la tua fede discenda da Geremia e da Gesù, da Allah e da Maometto, o da Brama e Buddha, qualcuno ti dirà che sbagli e per questo ti combatterà”. Fa un ampio sorriso. E se ne va. “Che vuoi dire?” fa Stefano. “Cavolo ne so. Era lì che parlava e mi è venuta in mente questa risposta.” Stefano apre un pacchetto di sigarette. Ne accende una. Fa una risata sonora, con il fumo che gli esce dalla bocca e dalle narici. “Gli integralisti sono pazzi” dice. “Meglio evitarli. Mi ci è voluto tanto per impararlo, ma ci sto arrivando” rispondo sorridendo. “Bene. Spero che ce la farai”. E mi da un colpetto sulla spalla facendomi un cenno d’intesa. Il tempo è stupendo. Mi sento bene. Sono circa le sette del pomeriggio quando ci fermiamo su una panchina di fronte al Pontile. Ostia è bellissima a quest’ ora del giorno. Prendo un giornale della free-pass, dimenticato da qualcuno. Nelle sue pagine leggo che l’AIDS continua a mietere milioni di vittime in Africa e, in un altro articolo, che in quel continente le guerre civili ne mietono altri milioni. Mezzo mondo vive nella più completa povertà, si osserva in un’altra pagina, migliaia di bambini muoiono ogni giorno perché migliaia di bambini muoiono ogni giorno perché non hanno nulla da mangiare. Metto giù il giornale. Ci saluta un musulmano. Lavora sotto casa mia, a un autolavaggio dove spesso porto la mia macchina. Dice: “gli ebrei sono gente del Corano. Come Gesù, che è riconosciuto come un profeta molto importante dall’Islam ma non è un dio. Esiste un solo Dio e soltanto Maometto ha comunicato al popolo la vera parola di Dio. Ma David e Ibrahim, che voi chiamate Abramo, sono importanti profeti per l’Islam e noi li rispettiamo per ciò che hanno fatto. Sono stati Ibrahim e suo figlio Ishmael a costruire la Kaeeba e a imporre la pratica dell’Haji, il pellegrinaggio alla Mecca.” Comincio a spazientirmi. “Grazie per la lezione di teologia, ma tutto questo cosa c’entra con il mio saluto?” Va via. Offeso. Un’amica mi raggiunge e rimane in piedi accanto a me. E’ struccata; il suo viso è luminoso e delicato. Indossa jeans e una t-shirt. Porta dei sandali aperti. “Spero che tu non mi consideri troppo spregiudicata se ti invito a cena stasera”. “A cena?” La guardo come se avessi scarsa familiarità con la lingua parlata dalla ragazza. Mi dice: “Più siamo diversi e più siamo uguali”. Sciocchezze buddiste. Declino l’invito. Non mi ha rubato il cuore. Tengo fermo il timone dell’Enterprises. Rientriamo a casa. Stefano si avvicina al carrello dei liquori e si prepara un bicchierone di whisky. Con soda. Per me vodka tonic. “Sta andando tutto bene?” dice Simonetta con un sospiro, abbassando la testa. Non so cosa fare. Penso di abbracciarla, ma cambio idea. Rimango seduto con il mio imbarazzo. La guardo a bocca aperta. “Non preoccuparti” dico. Il suo sguardo si distende. Sorride e mi stringe il braccio. Risponde al cellulare. Mmmh, quanto è buona questa vodka! Stefano annuisce, guardandosi il drink. Dalle finestre aperte davanti a me vedo il buio che scende su Ostia. Entra un venticello caldo profumato di mare. Ormai l’estate è quasi arrivata. Mario Pulimanti (Lido di Ostia –Roma) 38) CINICO CANTASTORIE Mi sveglio di soprassalto. Ieri abbiamo festeggiato San Bernardino a Collevecchio. Io sono stato il “festarolo”. Ho dormito solo poche ore e tremo dalla spossatezza. La testa mi si spacca, il cuore pulsa nelle orecchie, ho la bocca asciutta, impastata di saliva dolciastra. Chiudo gli occhi, ma il mal di testa è tremendo. Mi alzo e mi trascino in bagno. Tiro lo sciacquone. Entro in cucina. Simonetta è seduta a tavola, legge il giornale. Mi vede e ride. “Vuoi bere un caffé”. Annuisco. Si alza e accende il bollitore. Mi siedo e lei mi porta una tazza di caffè fortissimo e dolcissimo. “Grazie”. Bevendo il caffè, mi sveglio di più. Mi avvicino alla finestra; una vespa ci si scaglia contro, schizzando il veleno sul vetro nell’affannoso tentativo di uscire. Sollevo il telaio, sventolo la mano per mandarla fuori e mi siedo sul davanzale a guardare in strada. Un gruppo di rumeni sta attraversando Corso duca di Genova. Quelli dell’est Europa hanno invaso Ostia. Penso ai tizi con l’aria da zingari che trovi di notte a ciondolare intorno ai negozi di roba usata, che rovistano nei sacchi della spazzatura e rubano i vestiti. Che grugno rabbioso ha questa gente. Quando giri in macchina sono quelli che rompono di più, sempre a strombazzare il clacson e a guardarti incarogniti. Squilla il cellulare. Le mani mi volano sulla tastiera. Sento le parole di Stefano. “Perché non venite anche tu e Simonetta a pranzare con noi?” E’ generoso e spiritoso e con lui si sta bene: è un buon fratello. Ok. Qualche minuto dopo, stiamo in macchina. Mangiamo in un ottimo ristorante. Dal tavolo guardo il Monte Testaccio. Il locale è affollato, pieno di gente che beve birra e mangia insalate di rucola e parmigiano. Mi incuriosisce questa zona del Testaccio: con la sua presunta aria bohémienne, è troppo bislacca per essere creativa e radicale, e in più ha delle sacche di povertà disseminate qua e là, resti del vecchio quartiere popolare. Qui sono nato. Qui abitano ancora Stefano e Antonella. Nostra sorella. Inoltre ci abitano pochi creativi superstiti: sceneggiatori, agenti teatrali, attori. E’ pure il ventre molle della borghesia romana: antiquari, ciarlatani, imprenditori. Preferisco la Garbatella, dove mamma vive in un appartamento luminoso. Lì è tutto intatto. E’ una sensazione bella uscire di casa e scambiare cenni di saluto con le persone, che mi credono ancora uno di loro, anche se abito a Ostia da 25 anni. Gente che risponde agli sguardi e ai sorrisi. Che si fanno vicendevolmente da parte sul marciapiede. I ricchi dei Parioli possiedono Ferrari e Jaguar; quelli della Garbatella possiedono il mondo. Dopo aver passato la giornata a Roma, in tarda serata torniamo a Ostia. Seduto in veranda, sento i canti serali degli uccelli nascosti tra gli alberi. L’aria tiepida risuona dei loro canti. Sono le nove di sera. E’ una magnifica serata di fine maggio, e la giornata è stata bella. Bevo un sorso di birra. Rifletto: ho cambiato punto di vista sulle cose. Ero fortunato. Il lavoro mi dava stimoli. Ora non più. Credevo nella giustizia. Ora non più. Credevo negli ideali. Ora non più. Avevo un sacco di carne al fuoco. Si è bruciata. Ero coinvolto in progetti interessanti. Sono svaniti nel nulla. Mi piaceva il calcio. Ora non più. Il cibo mi ha fatto venire la nausea. Sospiro con aria dolente. Pensare mi manda in paranoia. Scuoto la testa. Mi trovo insopportabile, e perdo il controllo: “Mario, sei solo un cinico cantastorie” sibilo, tanto forte da farmi sentire. Gabriele rimane senza fiato. Il mio auto-insulto è sbalorditivo. “Che dici, papà?”. Se ne va via disgustato, rivolgendomi un ghigno insolente. Ho le mani fredde. Fisso la luna. Finisco la birra. Schiocco le dita colto da un’illuminazione. Domani vado al mare. Mi pare una bella cosa. Lo è. Mi stringo le mani. Rientro a casa. Auguro buona notte a Alessandro. Gabriele mi guarda e fa dei gesti goliardici con le mani. Simonetta mi tiene gli occhi addosso. Non ricambio il suo sguardo. Faccio una doccia; il bagno è piccolo e pulito. L’acqua è calda, il sapone ha un ottimo profumo. Rimango sotto il getto e mi levo la puzza di sudore e rabbia dalla pelle. Prendo la schiuma da barba. Mi rado con vari movimenti verso il basso. Mi guardo allo specchio. Indugio ad ascoltare le voci in salotto, all’altro lato della casa. Entro in camera. Mi sdraio sul letto. Incrocio le braccia e fisso il soffitto. E poi mi addormento. Mario Pulimanti (Lido di Ostia –Roma) 39) PENSIERI TRISTI Collevecchio. Sento l’odore della campagna. Sane zaffate di erba tagliata, fiori e letame. E me lo gusto. Ho la testa leggera e i polmoni lavorano lentamente: sto bene. L’aria si sta calmando, è un piacere respirarla. I campi sono pieni di pecore e agnelli dal manto lanuginoso: sento i loro belati, l’odore del loro sterco. Guardo il panorama, le colline in lontananza. Guido piano. E’ domenica pomeriggio tardi e non c’è traffico. Il tragitto non è lungo, appena un’ora. Da Collevecchio a Ostia. Quando arrivo sono esausto; il debito di sonno comincia a pesarmi e il percorso è stato lungo e noioso. Non c’era nulla di interessante alla radio; è stata una lotta rimanere sveglio al volante. In casa mi tolgo le scarpe e i jeans; vado in camera da pranzo con addosso solo la t-shirt e cado sul divano. Guardo fisso al di là della testa di Gabriele e attraverso la porta che da sul balcone; vedo il sole rosso che tramonta su questo angolo di Ostia. Ci sono molte persone oltre questa finestra. Chissà quanti di loro mi conoscono o si stanno preoccupando minimamente per me. Probabilmente nessuno. Fisso fuori dalla finestra. Il cielo è coperto; la luce del sole, che filtra tra le nuvole, è fioca offuscata, la calura umida. Ho sete e voglio un bicchiere d’acqua, ma non ho la forza di andare in cucina. Poi, scivolo placidamente nel sonno. Penso a Nicole Kidman. Lei non mi manda più in orbita. Penso al calcio. Da ragazzo adoravo il calcio; ora mi attira poco. Guardo qualche partita, ma non mi interessano le classifiche né le competizioni: quando si assiste a una gara a cui partecipano ventidue giovani milionari, è difficile badare al risultato. Penso a una coppia che ho incontrato ieri al Pontile. Lui vecchio. Molto. Ricco. Molto. E sposato con una rumena. Giovanissima. Lui ha 75 anni, lei 22. Me l’immagino proprio quel rapporto: un vecchio ricco e la sua giovane moglie dalla personalità passivo-aggressiva. Probabilmente lei gli spilla tutto quel che vuole; lo ripaga con la bellezze e con la fellatio. Non c’è dubbio che la loro vita sessuale sia tutta lì; il cuore di lui non reggerebbe altro, e può darsi che lei sia frigida. Le donne a cui piace essere scopate non sposano i vecchi. Penso a papà. Chiudo gli occhi e vedo il suo viso. Quell’immagine mi toglie ogni energia. Mi appoggio il viso tra le mani e piango in silenzio. Le lacrime si raccolgono sui palmi e mi scivolano lungo i polsi, fin dentro le maniche. Penso al lavoro. Niente di quello che ho voluto si è mai avverato; sono stanco delle delusioni. Sono stanco dei mie indugi, del mio eterno senso di incompletezza. Sono una persona con poche abilità; l’unica cosa che ho è la capacità di accettare i fallimenti. Ciononostante, sono lì disteso e mi sento svuotato e sconfitto. Penso alo pseudo presidente di una associazione. Da un po’ di tempo mi sta facendo girare i coglioni a mille. Sembro sul punto di iperventilare. Falso allarme. Qualche secondo dopo, sto dormendo. Mario Pulimanti (Lido di Ostia –Roma) 40) SETTE Cosa pensereste di una signora che si presentasse al vostro citofono la Domenica mattina presto, cercando di rifilarvi una rivista dal titolo “Svegliatevi!”. E’ quello che è successo a me domenica. Ho aperto, tutto assonnato, e mi sono trovato di fronte alle nove di mattina una Testimone di Geova che avrebbe potuto avere quarantacinque anni come settantacinque. Era una di quelle donne che, dopo aver dimostrato quarantacinque anni per tutta la gioventù, venivano ricompensate perché continuavano a sembrare delle quarantacinquenni anche quando di anni ne avevano settantacinque. E voi non definireste invadente una persona che suona il vostro campanello di casa la domenica mattina per parlarvi della fine del mondo? Comunque, al di là delle amenità, scrivo per parlare seriamente di questo fenomeno. Non so voi, ma vi posso assicurare che io mi trovo veramente in serio imbarazzo di fronte al proliferare delle sette. A questo punto potreste pensare che se una religione o un sistema di credenze siano una setta o no, lo si può affermare solo dall’esterno. Io, invece, ritengo che l’oggetto della fede non ha importanza. Quello che conta è l’atto di fede in sé, per quanto strano o estremo possa apparire agli occhi degli altri. Del resto non è forse questo lo stesso principio che spinge dei giovani perfettamente sani di mente a guidare aerei di linea contro edifici pieni di gente? Fondamentalisti religiosi fuori di testa! Basti pensare a cosa è successo per la pubblicazione di innocue vignette su alcune riviste norvegesi e danesi. Ciò provoca in me non tanto un disaccordo, quanto piuttosto un senso di triste e cupo sconcerto. A mio parere non sarebbe male se le autorità competenti tentassero di mettere un freno alla divulgazione di idee pericolose o settarie, perché se da un lato è giusto rispettare la libertà religiosa di chiunque, dall’altro lato non mi sembra che la Costituzione permetta la sudditanza psicologica di una persona verso l’altra ed il suo conseguente lavaggio del cervello, come nel caso, per esempio, dell’organizzazione dei Testimoni di Geova nei confronti dei suoi adepti. O dei vari movimenti New Age, dei Seguaci di Osho Rajaneesh, dei Rosacroce o di altri movimenti religiosi con caratteristiche esoteriche, spiritistiche, occultistiche, magiche, gnostiche, panteistiche, neopagane, ufologiche e via dicendo. In ogni caso questi sono movimenti che condizionano senz’altro i loro appartenenti. Senz’altro più pericolose sono, comunque, le sette sataniche come la Baphometista, la Carismatica e la setta satanica anticristiana. A parlare del satanismo criminale e di altri culti distruttivi è come se si sentisse un odore rancido impregnare l’aria come uno spirito malevolo capace di sfidare qualsiasi esorcismo. Come il segno di una iniezione sull’avambraccio di un drogato estremo, appena individuabile tra orribili solchi, cartografia di un viaggio lunghissimo nella tossicodipendenza più nera. Infatti queste sette del genere "satanico", svolgono una notevole attività delittuosa capace di suscitare preoccupazione nell'opinione pubblica. Le psicosette, di norma, si contraddistinguono per via della classica struttura truffaldina costruita ad arte dai vertici al fine di ottenere il condizionamento totale degli adepti mentre le seconde, quelle sataniche, spiccano invece per tutta una serie di attività deviate compiute dai seguaci nel "nome del diavolo" spesso operata sotto l'influsso di stupefacenti ed incitazioni mediatiche. Inoltre tali organizzazioni applicano metodicamente agli appartenenti tecniche scientifiche di lavaggio del cervello che ne rendono difficile l'eventuale recupero psichico e sociale. Mario Pulimanti (Lido di Ostia –Roma) 41) MI CHIAMO MARIO. MARIO PULIMANTI Ciao, mi chiamo Mario. Mario Pulimanti. Negli ultimi tempi fluttuo in un mare di dolori fantasma e sensazioni fasulle, create dal cervello per tormentarmi e confondermi. Sento il solletico di una mosca anche se non c’è nessuna mosca. Sono sempre più distratto. Non avverto nulla e mi rendo conto in ritardo al bar che una tazza di caffè bollente mi si è rovesciata addosso e mi sta ustionando. Sarà perché ho 53 anni? Eppure ero convinto che la mia sensibilità fosse di recente perfino aumentata. Non mi ritengo un uomo coraggioso, fisicamente e moralmente. Ma prima no, era diverso. Prima ero sempre pronto a tutto. Ora invece il mio coraggio viene meno. Al lavoro cerco sempre di spuntarla, di essere all’altezza. Ho fatto castelli in aria, ho fantasticato, ma i risultati non sono stati del tutto quelli desiderati. Nella mia incessante battaglia non ho raggiunto nemmeno una delle importanti vittorie di cui sognavo. Buoni risultati sì, ma, alla fin dei conti, sempre piccoli successi. Sono convinto che per me è arrivato il momento della fine dei sogni. Dei veri sogni. Ho cercato invano un posto migliore. Dov’è quel posto? Nella Terra-che-non-c’è? A Oz? Temo che arrivino i pensieri più oscuri, che mi potrebbero sommergere come una marea crescente. In ogni modo potrei, una volta per tutte, anche lasciar stare, non essendo stato in grado di raggiungere l’obiettivo principale. Di fatto il risultato conseguito è diverso, molto diverso da quello sperato. Ho paura che, se non ci saranno altri miglioramenti, potrei precipitare nell’apatia. Nell’indifferenza. Di sicuro non tratterrò il fiato nell’attesa di progressi più vantaggiosi. E’ giusto così! A questo punto mi chiedo quando tornerò a casa? Lì, la mia tana trabocca di libri di letteratura e di filosofia, di dischi jazz e di film di Woody Allen. A casa ci sono i miei due figli. Ragazzi abituati a cavarsela nello studio e nello sport. Riflessi pronti. Allora, Mario, muoviti! Mentre cammino, ascolto Bob Dylan con il mio MD tascabile pensando a quando ero giovane. Che bei tempi! Mi è sempre piaciuto Paperino. L’ho sempre amato, e forse per questo sono simile a lui. Mentre non assomiglio per niente a Gastone, probabilmente perché l’ho sempre trovato insopportabile. Mi irrita, infatti, vederlo con una nuova macchina fiammante vinta alla lotteria, andare via con Paperina lasciando Paperino a dare testate sui muri. Infatti Gastone è sempre fortunato. Esce con Paperina sotto gli occhi di Paperino ed ogni volta riesce ad ottenere quello che vuole. Zio Paperone non è mai in grado di tiranneggiarlo. Oltretutto è prepotente, arrogante e non è mai generoso. Infatti Gastone, vestito con la sua elegante giacca verde con fiore all'occhiello, cappello rosso in testa e riccioli biondi sempre in ordine, non ha mai bisogno di lavorare, tanto è la fortuna a pensare a lui. E' anche vero, però, che anche Paperino ha un pò di fortuna: non è solo! Gastone invece è sempre solo. Niente male. Questa volta ho fatto centro. Ma adesso basta. Riempio il bicchiere. Telefona mia moglie. Ha detto di non aspettare per mangiare. E va bene. Capisco. Mi siedo sul divano. Spengo la luce e rimango un pò ad ascoltare il mio respiro nel buio. Mario Pulimanti (Lido di Ostia –Roma) 42) PASSEGGIATA AL PORTO Mi sveglio pochi secondi prima che scatti la radiosveglia. Sabato. Mattina di fine inverno. Simonetta corre di corsa a una riunione condominiale. Ho mal di testa e non l’accompagno. Mi metto in cammino verso il Porto, godendomi il vento mattutino. Il movimento fisico è un lusso? No. E' una necessità quotidiana, per tutelare il nostro strumento di eccellenza migliore, il cervello. Per potenziarne al massimo le capacità nella giovinezza, e contrastare gli insulti del tempo già dalla prima maturità, fino alla vecchiaia. Non è mai troppo tardi per scoprire i vantaggi che il movimento fisico dà al cervello. Di certo, prima si comincia, maggiore è il beneficio. Usciamo dalla scatola in cui siamo rinchiusi: da case sempre più piccole, da uffici lillipuziani, da automobili in cui stiamo forzosamente seduti per ore, comprimendo, reprimendo e somatizzando frustrazioni ed emozioni. Un corpo compresso e arrugginito comprime e opprime la mente, la rattrista, la impoverisce. Un corpo felice di sentirsi vivo, anche nel movimento, nutre il cervello e stuzzica la mente a volare alta e con più gusto. Tutti cercano le terapie naturali. Pochi praticano con costanza la terapia naturale più semplice ed efficace che c'è: passeggiare sul lungomare. Mi volto di scatto. Pallida, magra, vestita di nero, vedo una ragazza avvicinarsi. Sembra una figura diabolica. Per un istante ne ho paura. Poi la riconosco. Una ex collega comunale. Non é più la ragazzina che ho conosciuto allora. E' cambiata, ma ancora non so dire quanto. Dal giorno del mio passaggio a un'altra amministrazione non le ho più parlato. Venticinque anni fa. "Sono io...Carla!" Mi porge la mano e me la tiene stretta a lungo. "Abiti a Ostia, vero?" Annuisco. Mi sento le ginocchia molli. Parliamo. Poi mi saluta. "Cerca di farti sentire qualche volta, Mario". Mi sembra di sognare, ma l'urlo di Gabriele mi richiama alla realtà. "Devo andare..." Le lascio la mano. "Buona fortuna". Nel frattempo Gabriele mi ha raggiunto. Mi chiede i soldi per la benzina. Scuoto la testa, ma lo accontento. Riprendo a passeggiare pensando che i limiti di velocità insostenibili e bizzarri ci sono da sempre sulle strade, ma a farli diventare un caso sono stati autovelox, telelaser e photored che, utilizzati a regola d'arte, diventano così efficaci da indurre dubbi sui loro veri scopi. Alcuni limiti sono così difficili da rispettare in condizioni normali che chi ne fosse capace rischierebbe di provocare tamponamenti oltre che intoppi al traffico: un esempio sono i 50 km orari sulle tangenziali e i raccordi a tre corsie o i 40 orari nelle corsie autostradali a due corsie. Arrivo al Porto. Mi siedo su una panchina del belvedere. Intravedo Ferruccio in bicicletta. Mi faccio largo tra la folla, ma un istante dopo è scomparso. Oggi c'è molta gente al Porto. E' impossibile trovarlo in questa calca. Accelero il passo. Schivo la gente. Lo raggiungo. Gli sfioro una spalla. "Ferruccio!". E' davvero lui, pallido e stanco dopo la passeggiata in bici. Dieci chilometri. Dall’Infernetto al Porto. Ci guardiamo per un istante. Entriamo in un bar. Ci sediamo a un tavolino. "Vuoi parlare?" Lui scuote la testa. Deve riprendere fiato. "Vuoi dirmi almeno come è andata la passeggiata?". "Faticosa". "Lo capisco". Usciamo dal bar. Dal belvedere rimaniamo a osservare il mare. Mi volto verso lui. Non gli dico di Carla. Non gli dico di Gabriele. Chissà perché gli parlo di Mourinho. E' attonito. Sbuffa annoiato. Del resto è un milanista doc e non sopporta il trainer nerazzurro. All’improvviso, dico “Chi si é fatto da solo é un tossicodipendente solitario o un imprenditore di successo? E se Dio é immortale, perché ha lasciato due testamenti?” Mi guarda. Per un attimo rimane in silenzio, poi scoppia a ridere. Stringo i pugni. Quindi mi alzo. Lo guardo sorpreso: sono già sul punto di inalberarmi. Poi mi rassereno. Ride. Mi saluta e ritorna a casa. Il cielo é limpido e il sole splendente. Penso a papà. “…e caddi come corpo morto cade.” Scoppio a piangere lacrime meritate e, in un certo senso, benefiche. Mario Pulimanti (Lido di Ostia –Roma) 43) ANTONIO VALERIANO PULIMANTI Nasce a Collevecchio (Rieti) il 12 aprile 1926 da Angelo Pulimanti e Leonella Merlini. A soli tre anni muore la sua cara bisnonna paterna, Loreda, alla quale è molto affezionato, al punto che le dedicherà in seguito una sua poesia. La morte della bisnonna Loreda è un'esperienza di dolore tragica e precoce che lascerà un segno profondo nel suo animo sensibile. Loreda è la madre di Luigi, chiamato da tutti “Gigiotto”. Nonno Gigiotto rivestirà anche la carica di Sindaco di Collevecchio, negli anni trenta, per un breve periodo. E’ un bambino con una corporatura minuta e un carattere piuttosto schivo. A Collevecchio rimane fino all’età di dieci anni, per poi seguire, insieme alla sorella Valeria, i suoi genitori che si trasferiscono a Roma, nel rione “Testaccio”, per lavoro. Nella “città eterna” -dove nasce l’altra sorella Maria Felicita, detta “Felly”- compie gli studi fino al conseguimento del diploma magistrale. Può, così, insegnare in alcune scuole elementari dei rioni di Trastevere e di Testaccio. In seguito si iscrive alla Facoltà di Lettere dell’Università “La Sapienza” di Roma. Non riuscirà, però, a portare a termine gli studi universitari, per motivi di tempo e di lavoro. Nei suoi primi anni romani comincia a scrivere versi, specialmente in vernacolo romanesco, una sua passione che lo seguirà per tutta la vita. Sempre in questo periodo risale un evento di fondamentale importanza per la sua formazione umana e artistica: l'inizio di un sodalizio durato tutta la vita con vari amici, molti dei quali intraprenderanno, poi, la carriera artistica. Tra questi ricoprono un ruolo fondamentale Salvatore Schembri ed Emidio Vangelli, con i quali rimarrà sempre collegato. Durante la seconda guerra mondiale comincia a ritenere per sé inadeguata una vita troppo soggettiva, diventando così un giovane impegnato anche dal punto di vista sociale. Di fatto l'esperienza tragica e sconvolgente della guerra provocano in lui il profondo convincimento che l'imperativo categorico è quello di aiutare gli altri. In Antonio Valeriano questo convincimento è rafforzato dal fatto che ai cattolici -e lui è stato sempre orgoglioso di definirsi “un cattolico apostolico romano- spetta un ruolo importante in questa ricostruzione. Si attiva così sempre di più verso chi soffre, soprattutto a causa dei tristi eventi bellici di quel brutto periodo, mostrando, in tal modo, una solidarietà indirizzata particolarmente verso le persone più disagiate. Di conseguenza si apre in lui un dialogo aperto e cordiale verso gli altri, soffuso di umana pietà, rimanendo però fedele al suo rigore, al suo stile. Questa solidarietà la porta sempre con se: infatti da questo momento partecipa, e sempre più attivamente, a varie organizzazioni di volontariato. Nel 1950, appena ventenne, conosce colei che gli rimarrà poi vicina fino alla sua morte, Ernesta Aloisi, che per lui sarà sempre la sua “Ernestina”. Ernesta è una giovane ragazza di Testaccio, figlia di Jole e di Vittorio, morto quando Ernesta ha tre anni. Il padre di Vittorio, Romolo Aloisi, è nato a Collevecchio, nella frazione di Poggio Sommavilla. Questa è una vera coincidenza, quando si dice il destino! In questo periodo, pur continuando a scrivere versi dialettali, trova il modo di continuare a dedicarsi allo studio del latino e del greco, specialmente in Vaticano, dove papà “Angelino” è guardia pontificia onoraria. L'assunzione nel 1953 presso la ditta “Moruzzi”, con funzioni di rappresentante, non lo distrae mai del tutto dalle sue passioni artistiche, ma serve ad assicurargli la sopravvivenza quotidiana. E’ il 12 settembre 1953 quando si sposa con la sua Ernestina nella Chiesa di Testaccio. Il rito è celebrato dal parroco Don Schiaffino, un caro amico di famiglia. Ma l’attività di rappresentante, per lui faticosa e del tutto estranea ai suoi interessi artistici, sembra allontanarlo sempre più dalla poesia e, forse per la prima volta, deve considerare naufragate per sempre le proprie ambizioni poetiche. Tuttavia, il profondo legame al suo paese di origine, Collevecchio, i contatti ripresi con gli amici collevecchiani della prima giovinezza -dai quali non si è comunque mai del tutto allontanato, faranno sì che riprende -soprattutto nella sua villetta collevecchiana di Via di Valle Menetola situata proprio ai piedi del Convento Sant’Andrea- a scrivere poesie e ad alimentare altre sue passioni artistiche, come la scultura e la pittura. E, tra queste poesie, una è dedicata proprio a Collevecchio. Nel 1955 nasce il suo primo figlio, Mario, il quale poi, sposerà Simonetta D’Ippoliti, figlia di Rosato D’Ippoliti -che per molti anni sarà presidente della Confraternita di San Bernardino- e Venia Vittori. Nel 1958 nasce Antonella, da lui definita “Principessa”, che segue, dal punto di vista artistico, le orme paterne. Con lei condivide la passione per lo studio dell’Archeologia -un’altra sua grande passione- tantochè “Antonellina”, con enorme felicità del suo papà, si laurea proprio in Lettere Antiche con indirizzo archeologico. Nel 196 nasce il terzo ed ultimo figlio Stefano, che lui soprannomina amorevolmente “Fortebraccio”. Stefano è legatissimo al suo “papone”, da subire una forte forma di depressione alla sua morte. I due fratelli sono unti al padre anche dalla passione sportiva per la medesima squadra di calcio, la Lazio. La nascita di Stefano segna una svolta particolarmente significativa nella sua vita, e non solo artistica. Oltre che per il successo dell’archeologa Antonella, è ugualmente orgoglioso per le lauree conseguite dagli altri suoi due figli, Mario in Giurisprudenza e Stefano in Scienze politiche. A Roma si ritrova, nel frattempo, al centro di una sorta di vari gruppi di volontariato e di solidarietà. Di questi gruppi fanno parte anche i suoi vecchi amici che continuano a coltivare, come lui, la passione della poesia, della musica, della pittura e della scultura. In tutte questa attività è sempre affiancato da sua sorella Felly che, avendo le sue stesse passioni e frequentando i suoi stessi gruppi, gli è sempre accanto. Non muove un passo senza avere vicino a sé la moglie Ernestina, con la quale, con la quale forma una coppia indissolubile, tanto che gli amici, vedendoli sempre insieme, sono ormai istintivamente portati a considerarli una sola persona. In questo periodo partecipa a vari concorsi letterari, vincendone molti, alcuni dei quali organizzati da associazioni culturali di notevole importanza come, per esempio, “la Dea Roma”. Nel 1986 nasce il suo primo nipote, Gabriele, figlio di Mario. E’ così nonno per la prima volta. A Gabriele rivolge tutta la sua attenzione ed il suo amore, pensando di essere in grado di infondergli personalmente la passione per la poesia e la pittura. Gli altri due nipoti sono Alessandro, secondogenito di Mario, nato nel 1994 (al quale il nonno ha trasmesso l’amore per la scrittura) e Serena, figlia di Antonella, nata nel 1997 (che, invece, dal nonno ha ricevuto la passione per la pittura). Loro non fanno purtroppo in tempo a conoscerlo. Infatti Antonio Valeriano muore il giorno di Pasquetta del 1992, per una brutta malattia della quale i parenti sono venuti a conoscenza da soli tre mesi, ma che lui non sa di avere. Forse lo sospetta! E’ il 20 aprile. Solo otto giorni prima ha compiuto 66 anni, il suo ultimo compleanno! Siamo nel 2004 –sono trascorsi dodici anni dalla sua morte- quando Ernesta, rovistando tra gli oggetti del marito, trova del tutto casualmente una poesia che Antonio Valeriano ha probabilmente scritto negli ultimi mesi della sua vita e della quale nessuno sospetta l’esistenza. S’intitola: “Er sogno”. Questa sua ultima poesia è ambientata nella casa del nonno materno, Primo Merlini. Nonno Primo era allora proprietario dell’osteria locale, che in seguito sarà gestita dal figlio Duilio, fratello di mamma Leonella. Del resto, come ha anche detto il Papa: “non si tagliano le radici dalle quali si è nati” ed Antonio Valeriano l’ha dimostrato perché, anche se abitava a Roma dall’età di dieci anni, non ha mai dimenticato –nemmeno negli ultimi attimi di vita- le sue “radici collevecchiane”. ER SOGNO L'antra notte, quanno dormivate, c’era silenzio solo nella casa, m’appare 'na faccia rossa de cerasa, ch'arisvejava in me cose passate. Vino sabino, Brighella colla fresa, file de vite, amici e carognate, lontano, fra li soni de la Chiesa, arberi, frutta, sole, scampagnate. 'Na rondine fa er nido su li tetti, ner cielo quarche nuvola ormai rada, sur prato fra le gocce de ruggiada 'na gatta partorisce li micetti. Io, regazzino, a Nonno stò vicino de là ce stà puro zì Navina seduto accanto un cane che stà chino io scappo an tratto sporco de farina. "Nonno!" Strillai arzannome de botto, apersi l'occhi e nun vedetti gnente quer viso co' la bocca soridente nun c'era si guardavi sopra e sotto. Un desiderio d'abbracciallo forte, solo silenzio e buio nella mente, l'odore de la notte e de la morte e de quer sogno nun me rimaneva gnente! ANTONIO VALERIANO PULIMANTI COLLEVECCHIO Sono tornato ai luoghi donde, adolescente, fuggii per inseguire un sogno. A questo che verdeggia di smeraldi, son tornato, colle antico della terra dei Sabini, in una notte d’agosto. Disteso come allora, sul dorso, fra l’erbe ho rimirato i ricami tracciati dalle scie delle stelle cadenti, fulminee più che il pensiero, ad infittire palpiti il mio petto. E l’alba m’ha colto immobile e la rugiada m’ha imperlato le ciglia e i capelli. Amato mio colle natio! Antico, non vecchio. Amore stilli, con la rugiada. Il tempo non può invecchiare ciò ch’eterno, e tu lo sei! Sui tuoi blandi pendii s’arrampicano gli ulivi e, le viti, le uve indorano di sole. E’ di struggente bellezza il tuo autunno, già s’intravede, quando gli uccelli migrano e il loro stormo, lungamente volteggia, par che sciami, ne l’aria tersa, fra cielo e i verdi campi, prima di scomparire all’orizzonte. ANTONIO VALERIANO PULIMANTI 44) IL SINDACO DI COLLEVECCHIO LUIGI PULIMANTI Nasce a Collevecchio, il 3 marzo 1865, da una famiglia di semplici origine artigiane, con tradizione e cultura profondamente cattolica, primo figlio maschio di Loreda Trionfetti e di Giuseppe Pulimanti. La sera stessa il neonato venne battezzato, ricevendo il nome di Luigi. Papà Giuseppe è un uomo molto pio, che si è assunto il compito di educare religiosamente i suoi figli, e Luigi ne conserverà sempre un ricordo commosso e riconoscente. Per questa formazione spirituale, manifestando fin dalla fanciullezza una seria inclinazione alla vita ecclesiastica, terminate le elementari, si prepara all'ingresso nel seminario diocesano di Rieti, ma ne esce presto per sposarsi con Felicita Ballante. Ad un certo momento, chissà perché, cominciano a chiamarlo “Gigiotto”. Lui, Luigi Pulimanti, accetta volentieri questo simpatico appellativo che lo accompagnerà per tutta la vita. Probabilmente lo chiamano così, perchè è un ragazzo, alto, snello, molto dolce, di bel portamento, con occhi celesti ed i baffi, belli folti, spioventi ed assolutamente visibili. Il suo modo gentile ed il fare molto affabile, lo rende simpatico a tutti coloro che lo conoscono. Dotato di grande sensibilità musicale, fin da giovanissimo, accompagnato dalla dolce melodia del suo clarinetto, è uno degli elementi di spicco della Banda di Collevecchio, allora Società di Mutuo Soccorso, che poi diventerà Fanfara agli inizi del novecento. In questo periodo Luigi Pulimanti ha anche la soddisfazione di dirigerla per alcuni anni. Saltuariamente la dirigerà ancora, dopo la prima guerra mondiale, quando oramai avrà assunto l’attuale denominazione di Banda Musicale Cittadina di Collevecchio. Si dedicherà a questa sua passione musicale anche durante l'intermezzo di tre anni di servizio militare prestato nella banda musicale della Compagnia Alpina di Cuneo. Ha sette figli. Seguendo le orme paterne Angelino, clarinettista come il padre, e Fausto, con il trombone, faranno parte anche loro della Banda Musicale. Gigiotto riveste anche la carica di Sindaco di Collevecchio, agli inizi del novecento, per un breve periodo. Il suo è uno dei più antichi mestieri, ora praticamente scomparso: Gigiotto è, infatti, il calzolaio del Collevecchio dei primi anni del novecento. Su ordinazione, confeziona gli scarponi rinforzati e gli zoccoli di legno. Sempre su misura fabbrica anche le scarpe per i collevecchiani di allora, che stanno bene attenti a non consumare le calzature di Gigiotto perché queste devono durare a lungo. Sono tempi duri, infatti, e se con il passare del tempo le scarpe diventano troppo corte, riparate e cucite passano in dotazione ad un altro membro della famiglia. Gigiotto prepara e ripara ai suoi concittadini tutte queste calzature servendosi di una sorta di tavolaccio sul quale con lunghi coltelli di diversa foggia, con incredibile abilità e destrezza sagoma lentamente per la forma del piede un ciocco di tiglio o di pioppo. E’ molto protettivo con i suoi amici e con la sua famiglia. La sua vita termina la sera del 16 aprile del 1953 a Collevecchio. In quel momento sta parlando con il nipote Antonio Valeriano, figlio di Angelino. E’ vedovo da pochi anni e il suo ultimo pensiero è proprio per lei, Felicita, la tenera compagna della sua vita. Mario Pulimanti (Lido di Ostia –Roma) 45) LO SPIRITO DELLA ROMANITA’ Ma quanti abitanti che oggi vivono a Roma sono romani? Siamo arrivati al 2013, che cosa resterà in futuro della romanità? Certo, nel corso dei secoli Roma ha subito anche drammatici spopolamenti e poi lenti e progressivi ripopolamenti. L’antica Roma era abitata da quattromilioni di abitanti che nel Medioevo sono ad un certo punto (per vari motivi: inondazioni, peste ecc.) diminuiti fino ad arrivare solamente a 50mila abitanti. Ai tempi del Belli ce n’erano 160 mila, che all’inizio del secolo erano saliti a 200 mila, ma nel corso degli ultimi sette o otto decenni, specialmente a partire dal dopoguerra, si è ripopolata ad un ritmo vertiginoso. Oggi conta quasi cinque milioni di abitanti. Ma soltanto in minima parte sono romani: non più di centomila. I restanti quattro milioni e novecentomila residenti non sono romani. E tutto sta ad indicare che i romani sono destinati a ridursi ulteriormente, probabilmente fino a sparire, come sarà destinato a sparire purtroppo anche il nostro bellissimo dialetto. Infatti il dialetto romanesco è ormai moribondo. Trattasi non già di una morte naturale, bensì di un assassinio vero e proprio, perpetrato con fredda lucidità, con premeditazione, con tante persone pronte ad approvare la pulizia etnica del nostro amato vernacolo romanesco. Moravia diceva che il dialetto romano è un misto di fiorentino e di campano. I costruttori di San Pietro erano tutti toscani, e mescolarono il loro dialetto con il dialetto campano. Anche la lingua a Roma è un miscuglio di Italiano. Moravia, anche se campano, diceva anche che Roma non era un cumulo di rovine, perché quelle romane sono rovine attive, ossia sempre in trasformazione, e la trasformazione è qualcosa di vivo, di vitale. Le stesse idee le ha anche espresse Federico Fellini, per il quale Roma rinasce miracolosamente dalle proprie rovine, come l’araba fenice dalle proprie ceneri. Del resto fin dall’antichità Roma era una città cosmopolita, internazionale; alcuni degli imperatori venivano dalla Spagna, dall’Africa; parecchi degli artisti, scrittori, cineasti che ci hanno offerto nuove visioni o nuove interpretazioni di Roma venivano da altri luoghi o da altri paesi, come il Borromini, Fellini, Gadda, Pasolini. Già Montaigne diceva che alla sua epoca Roma era la città più cosmopolita d’Europa. Dal canto suo Borges non si stancava di ripetere che Roma era un mito dell’immaginazione universale. Significative sono le parole di Adriano riportate nel celebre libro della Yourcenar: “Altre Rome verranno e io non so immaginarne il volto, ma avrò contribuito a formarlo”. A mio parere converrebbe mantenere sempre vive le tradizioni culturali romane e lo spirito della romanità, da lasciare in eredità ai nostri figli e nipoti. Mario Pulimanti (Lido di Ostia –Roma) 46) IO, CONTRO L’URAGANO. Sono nato a casa. Al Testaccio, in via Bodoni 45. Allora, si nasceva a casa. E’ nata lì anche mia sorella, Antonella Maria. Mio fratello Stefano è nato invece alla Garbatella. Sempre a casa. A Via Enrico Cravero 20 Ci eravamo trasferiti lì da poco. Simonetta è nata invece a Collevecchio. A via Cavone 1. Come la sorella, Antonella. Sì, avete capito bene: ho una sorella che si chiama Antonella e pure una cognata con lo stesso nome. Viceversa, i mie due figli sono nati in ospedale. Gabriele, il mio primogenito, è nato all’ospedale San Giacomo, alle 20 e 30 di sabato 18 ottobre 1986. Mentre nasceva, la TV stava trasmettendo la sigla di apertura della trasmissione”Fantastico 7” con Pippo Baudo, Lorella Cuccarini, Alessandra Martines, il trio Lopez-Marchesini-Solenghi e Nino Frassica. La sigla era “Tutto matto” cantata da Lorella Cuccarini. Alessandro, il mio secondogenito, è nato all’ospedale Grassi di Ostia, alle 4 del mattino di mercoledì 9 novembre 1994. Mentre nasceva, la radio stava trasmettendo lo splendido brano di Willie Nelson “Georgia in my mind”. Lavoro al Ministero dell’Agricoltura. Da 32 anni. I primi 13 anni in Direzione, al personale. Poi, per 18 anni sono stato all’Ufficio legislativo del Gabinetto del Ministro. Giorni del miele e dello zenzero. E poi è arrivato il giorno della locusta: sono stato retrocesso di nuovo al personale. Pane amaro. Indignazione. Umiliato da un trasferimento punitivo. Ingannato e tradito. L’amicizia svanita nel nulla. Bravo, uomo di passaggio. Un uomo solo, immerso in acqua nera. Un re pallido, senza ritorno. Amico di un uomo che ha corrotto una città. Un serpente, che percorre le strade del male. Chi si crede di essere? Uomo nel buio. Tempesta: del resto negli uffici del Gabinetto ci puoi lavorare solo se sei agganciato ai poteri forti. I pesci affogano. Ho ghiaccio nelle mani mentre mangio arance rosso sangue. Capire il potere, fabbrica del consenso. Non ci sono riuscito. Mi sono perso in una foresta di girasoli. Voglia di giustizia… Quasi quasi mi compro un manuale per l’allevamento di demoni…così, tanto per difendermi e di non fare più la figura del fesso! Ok, sono sottopagato. Socialmente disadattato. E pure un paranoico ipocondriaco. Se per caso sento un dolorino al braccio, penso di essere sull’orlo dell’infarto anche se il braccio è quello destro. Certi disturbi comportamentali non spariscono così, in un amen. Simonetta è andata a Collevecchio. Gabriele è uscito con gli amici. Alessandro sta in biblioteca. All’Elsa Morante. Accendo la tivvù. C’è un dibattito sulle sette. Così vengo a sapere che i capi di queste associazioni esercitano un controllo assoluto sugli adepti, che sono tenuti a rinunciare al loro passato. Scelgono preferibilmente individui vulnerabili e giocano sulle loro insicurezze. Cercano in preferenza soggetti solitari e li convincono ad abbandonare gli amici e la famiglia. Gli adepti cominciano a vedere in loro l’unica fonte di sussistenza mentale. Fare il leader di una setta è molto impegnativo: devono mantenere un controllo ininterrotto sugli adepti, intuire i dissensi e stroncarli sul nascere. Quindi, qualora possano sussistere influenze esterne per strada o in luoghi pubblici, rimangono particolarmente cauti. Nel loro ambiente, al contrario, sono più rilassati. I leader di una setta detengono il potere al cento per cento; sono loro a stabilire come gli affiliati trascorrano ogni minuto del loro tempo. Assegnano loro compiti di ogni genere, anche solo per tenerli impegnati ed evitare che abbiano tempo libero, tempo per pensare. I capi-setta si creano la loro etica, definita esclusivamente in base a ciò che è bene per la setta e per mantenere in vita il culto; leggi e moralità esterne sono irrilevanti. Loro convincono i seguaci che è eticamente giusto fare ciò che loro dicono, o suggeriscono loro di fare. E’ perciò pericoloso affidarsi a questa sette organizzate. Ci rimetti troppo: non ti lasciano pensare come vuoi. Ti controllano. So che sembra stupido, ma non mi piace l’idea di predatori che approfittano della vulnerabilità altrui. Sette. Comunque sia, le sette non vanno confuse con le religioni. Religioni. Per molti la religione non ha una posizione centrale nella loro vita. Sì, celebrano Pasqua e Natale, anche se in quei casi i simboli delle feste sono un coniglio e un ometto allegro vestito di rosso. Queste persone preferiscono trasmettere ai figli la propria etica: regole solide e incontrovertibili, comuni quasi a ogni fede e hanno la fastidiosa sensazione che la religiosità portata all’estremo possa essere molto pericolosa. Hanno una filosofia di vita sorprendentemente semplice: non credono nel bene e nel male, tantomeno in Dio e Satana. Per loro, queste sono astrazioni che distraggono dalla realtà. Improvvisamente un rumore mi allontana da queste meditazioni. Riesco a recuperare i popcorn dal forno a microonde un attimo prima che si trasformino in un’arma di distruzione di massa, com’è successo la settimana prima. Bevo un sorso di passito. Vino da meditazione. Mi avvicino la mia piccola pila di quotidiani e settimanali, dando un’occhiata alla foto di Nicole Kidman. Ho comprato un pollo in rosticceria. Ma quando lo guardo, il mio stomaco si rivolta. Lo metto in frigo per domani, preparando al suo posto un gin tonic bello carico. Prendo fiato e ne mando giù un sorso. Mah. Forse per oggi può bastare Il mio stomaco non gradisce nemmeno quello, ma il cocktail mi aiuta a eliminare un po’ di tensione. E infatti quando lo termino mi metto a sbadigliare. Incoraggiato da questo fausto presagio, mi dirigo in camera da letto. Mi spoglio, lasciando cadere i vestiti dove capita. Poi mi infilo sotto le coperte e spengo la luce. Sospiro, rassegnato a un’altra notte insonne. Intanto penso. Ricordi, sensazioni, cose così… Come gocce di sale e di vento. Cattedrali di smeraldo. Non so perché. Colpevole d’amare. Collevecchio. Ripenso a un giorno di primavera. Mi trovo nell’impossibilità di distinguere la fantasia dalla realtà. Più lontano ancora. Oltre il Parco della Rimembranza, ai margini del cimitero, il mare delle vette d’albero che ondulavano al vento. La fragile luminosità pomeridiana s’incupiva e rischiarava sugli occhi di mia madre secondo il passaggio delle nuvole. E poi, oltre la linea dei campi, il rumore dei trattori che transitavano cigolando a brevi intervalli. Io, bambino selvaggio, mangiavo mirtilli senza lavarli. Dannazione: una cosa divertente che non ho fatto mai più. Collevecchio. Simonetta. Fiore di neve. Una moglie affidabile. A lei piaceva aiutare nonna Ida a preparare il pane. Nonna raccoglieva la farina sino a farne una montagnola e poi ci faceva un cratere, come quello dei vulcani. Il compito della piccola Simonetta era quello di versare dentro il cratere un po’ di lievito sciolto in una tazzina. Poi la nonna Ida cominciava a lavorare la farina con le mani, domandandole ogni tanto di aggiungere altro lievito. Dopo metteva la pasta di pane in due grandi piatti di portata e li sistemava vicino al camino spento, lontani dalle correnti d’aria e con sopra una coperta di lana. L’altro suo compito, e questo le piaceva moltissimo, era quello di andare a controllare se la pasta era lievitata. Sollevava un lembo della coperta e guardava. Quando era triplicata di volume ed era diventata una massa compatta e compiuta, avvertiva nonna che riportava i piatti in cucina e, coltello alla mano, tagliava pezzi di pasta e dava loro forma di pagnotte. Infine cominciava a infilarle dentro il forno. Come è buono il pane appena sfornato! Un altro debolissimo ricordo mi attraversa la memoria, un esile guizzo reminiscente… La figlia dei ricordi. Erano i tempi di Jimi Hendrix e Janis Joplin. Non vedevo l’ora di andare all’università; per quanto mi riguardava, era lì che la vita diventava davvero emozionante, a differenza del noioso e vecchio liceo. Sacro Cuore dai salesiani, al ginnasio e Socrate, al liceo. In questi posti mi trattavano ancora come un ragazzino e nessuno si interessava a quello che pensavo del mondo. All’università sono diventato un vero studente. Partecipavo alle manifestazioni di GS e a cose di quel tipo. Ricordo i miei primi giorni di lavoro. Come una gabbia. Neoassunto e infimo nella gerarchia. Con uno zelo da ultimo arrivato profondevo su quelle antiche pratiche settimane di fatica, e ancora mi stavo arrovellando su quali fossero necessarie e quali superflue quando mi chiamarono dalla direzione e mi dissero che c’era un lavoro importante di un collega in malattia. Io avrei dovuto sostituirlo, il che comportava la piacevole incombenza di redigere relazioni su prestigiosi istituti di ricerca italiani. Io, contro l’uragano. Da una vita. Ma ora, basta! No, non devo pensare. Smetto di farlo. Devo avere la mente vuota. E’ quello il trucco. Se non avessi niente a cui pensare, non ci sarebbe niente che mi tenga sveglio. Immagino un immenso campo di grano, mosso dal vento, circondato da un alto recinto. Fuori dal recinto ci sono milioni di pensieri: la famiglia, il lavoro, i soldi, eccetera eccetera. Ma il mio recinto è troppo alto, troppo solido, e io non li lascerei entrare. Voglio lessarmi nella mia vasca. Sono proprio sull’orlo del sonno, pronto a caderci dentro senza riserve, quando il telefono squilla. “Pulimanti.” “Mario? Vedo che sei ancora sveglio.” Batto le palpebre per un paio di volte. Per quanto brami il sonno, ci sono cose più importanti. “Ciao, Stefano Va tutto bene?” “Va tutto a meraviglia, Mario. Non è che ti ho svegliato vero? So che sei un animale notturno e dopo le ventitré le telefonate costano meno.” Sbadiglio. “Sono sveglio. Lo sai che puoi chiamarmi quando vuoi, fratellone.” Parliamo del più e del meno. Poi riattacca. Adesso il sonno è lontanissimo. Ricordo mio padre. Per poco non mi usciva di bocca una parola che non pronuncio da ventun anni. La prima in assoluto che ho imparato a formulare, quando ancora non ero nemmeno capace di stare in piedi. Da quando è morto, nella pasquetta del novantadue, non mi sono più capacitato dal non riuscire più a rivederlo davvero. Papà. Ho sempre pensato che mio padre fosse un Dio. Piango, tanto non mi vede nessuno. Ma mamma… mamma era tutto per me. La mia migliore amica, la mia guida, la mia eroina. L’ultimo angelo. Promessa di paradiso. E’ stata lei la ragione che mi ha fatto essere quello che sono ora. Ricordo il dottore dell’ospedale San Camillo, col viso di falco, dirmi “sua madre è deceduta!”. Mamma. L’amore più grande del mondo. Mi ha sempre difeso come una leonessa difende i suoi cuccioli, anche a costo di subire biasimi e critiche. Alle mamme non dovrebbe essere permesso morire. Scaccio con decisione quel pensiero dalla mia testa, per evitare di scivolare nella svenevolezza. Esco così dalla porta delle lacrime. Nel frattempo, rientra Gabriele. “Dove sei stato” gli chiedo quando entra in soggiorno con i suoi jeans chiari e una maglietta rossa. Ha gli occhi un po’ stanchi, ma a parte questo sembra che stia bene. “Che bella accoglienza” replica. “Vuoi rispondermi?” “Se proprio lo vuoi sapere, sono stato a FreakOut ” “Dove si trova?” A Via Poggio di Venaco”. “E che succede lì?” “Non succede un bel niente. C’è birra buona. La gente canta canzoni e si diverte.” “Puzzi di fumo.” “E’ un pub, papà. La gente fuma. Senti se hai intenzione di assillarmi in questo modo, me ne vado a letto. Devo andare alla Scuola di Notariato domani, non te lo ricordi?” E con questa ultima frase Gabriele va a passi pesanti nella sua stanza. Faccio per andargli dietro, ma poi ci ripenso. Per quanto sia agitato, capisco che non è il caso di intraprendere una lunga discussione con mio figlio. Me la vedrò con lui domani. Lo sento fare rumore in cucina, tirare l’acqua del bagno e chiudere la porta della sua camera da letto. Ormai è impossibile tornare a dormire, malgrado la stanchezza. Se avessi un cane lo porterei a spasso. Mi alzo. Mi verso un dito di cognac. Nella stanza accanto tutto tace. Forse con Gabriele ho sbagliato. Ricevuto. Sono stato inescusabilmente malaccorto. Chiaramente. Vado in bagno. Ho voglia di grattarmi sotto le ascelle. Decido di uscire, anche se è molto tardi. Esamino mentalmente il mio guardaroba. Il vestito migliore è di Armani. Normalmente non posso permettermi abiti firmati, infatti questo l’ho comprato in un outlet. Quello di Ponzano Romano. Il prezzo era comunque alto, nonostante lo sconto, però quando lo indosso mi sento molto più sicuro di me. Poi ci ripenso, e torno a letto. Tra le braccia della notte. La vita è un’altra storia. Tartufi bianchi in inverno. La notte ha occhi curiosi. Quando finalmente arriva il sonno, arrivano anche gli incubi. Repellenti. Mario Pulimanti (Lido di Ostia –Roma) 47) PER ORA NO Paolo. Bé, era solito assaporare il perfetto piacere della pace della montagna e della pesca sportiva in compagnia di mio suocero Rosato. Ummmh, si scolavano due birre, mangiavano deliziosi formaggi d’alta quota, fumavano quattro sigarette e pescavano nelle acque trasparenti dove nuotavano trote fario e salmerini. Insomma, morale della favola: nelle acque fredde, limpide e molto ossigenate di selvaggi torrenti alpini, ma anche di laghetti alimentati da torrenti. Certo, non andavano lì per fare un bottino da record, ma per godersi la natura, e se poi c’era anche una coloratissima trota fario a far loro compagnia al ritorno, meglio ancora. Paolo. Sgridato dal padre per la sua timidezza e coccolato dalla madre per quella stessa timidezza che lei chiamava riservatezza, aveva finito per andare in confusione. Timido o riservato che fosse, faceva fatica a relazionarsi con gli altri. Col tempo aveva superato questa sua debolezza nei rapporti di lavoro, ma non l’aveva mai vinta nella vita privata, prima con i compagni di scuola, che leggevano la sua ritrosia come una presuntuosa pretesa di solitudine, poi con gli amici -sempre che si potessero considera tali- che scambiavano i suoi silenzi per un vago disprezzo, e infine con le donne che, trovando fastidiosa quella sua vergognosa adorazione, non riusciva mai a conquistare. “Mario, vieni con noi?” chiede mio suocero. “Per ora no. Forse domani” rispondo da perfetto Paperino. Non farò mai in tempo ad accompagnarli. Rosato morirà l’anno dopo. Ferragosto del novantotto. Paolo lo seguirà a ruota. “Ciao, Rosato. Ciao, Paolo ” sussurro mentre la voce mi si spezza. E’ sempre così. Ricordi… Tornano sempre, anche quando non dovrebbero… Quando una persona che amiamo va via per sempre, è difficile vivere con quel vuoto profondo che si spalanca all’improvviso. Non basta semplicemente voltare pagina. Non basta ripetersi che la vita continua e che non serve a nulla piangere. Non basta imporsi di non pensarci. Quel vuoto è lì. Come una ferita profonda. Che pian piano cerchiamo di far cicatrizzare. Anche se alcune ferite non si cicatrizzano mai completamente. Papà Valeriano. Mi mancano le sue parole, i suoi messaggi, le sue battute con i tempi comici perfetti. Mi manca il suo umorismo, la sua acuta osservazione degli altri. Mi manca la sua educazione, la sua cultura che non esibiva mai. 20 aprile 1992. Poco prima di addormentarsi, mi chiama. Sono le undici di una pasquetta amara. Maledetta. "Mariuccio, ho appena fatto un sogno. Mi sono spaventato un pò", mi dice. "Vuoi una camomilla?" "No, Mariuccio. Per ora no”. L'abbraccio forte. Si addormenta subito. Per l'ultima volta. Per sempre. “Ciao, papà ” sussurro mentre la voce mi si spezza. Brandelli di passato. Stilettate di dolore, di angoscia. Mamma Ernesta. Mi ha sempre difeso come una leonessa difende i suoi cuccioli, anche a costo di subire biasimi e critiche. Lei, uno sguardo che non aveva bisogno di parole. Con quell’odore di buono che mi faceva tornare bambino. Che mi lasciava andare anche se avrebbe voluto tenermi stretto a sé. 29 luglio 2012. Ospedale San Camillo. Le chiedo se vuole un po’ d’acqua. “Per ora no, Mariuccio. Più tardi” sussurra con un filo di voce. Sto uscendo dalla sua stanza. Improvvisamente, mi volto: lei mi sta sorridendo, facendomi ciao con la mano. Sto prendendo un caffè dalla macchinetta quando sento una mano sulla spalla. Mi volto. Un dottore, col viso di falco, mi dice “sua madre è deceduta!”. “Ciao, mamma ” sussurro mentre la voce mi si spezza. Ricordi… Tornano sempre, anche quando non dovrebbero… Brandelli di passato. Stilettate di dolore, di angoscia. Per ora no. Non ci sarebbero stati più “ora”, “domani”, “presto”, “tardi”. Ci sarebbero stati solo “mai”. Per ora no? Per sempre, no. Mi lascio cadere sul letto e finalmente piango. Mario Pulimanti (Lido di Ostia –Roma) 48) LIBIDO La libido vacilla e il talamo annoia al punto tale che neppure la più sensuale delle guepière riesce a risvegliare gli stanchi sensi. Certo, non è ancora arrivato il momento di mettere la sensualità in pensione. Ehilà, basta affinare la fantasia e trovare nuove rotte. E se il letto annoia, il divano é troppo scontato e la casa non è dotata di un ascensore che prometta una bollente risalita, ecco sbucare dal cilindro la “sexy room” del momento. La cucina. Sì, proprio il regno della casalinga, quello fatto di pentole, mestoli e coltellacci. Tra un minestrone che bolle e un brasato che si rosola la fantasia erotica galoppa, quasi a far invidia a Jack Nicholson e Jessica Lange, magistralmente avvinghiati su un tavolino dopo che lui ha trillato il campanello per ben due volte. Non è la perversione del momento, ma è la nuova tendenza del sesso domestico. Nei sogni di noi italiani a quanto pare le lenzuola di seta, gli avvolgenti materassi ad acqua e i celebrati effluvi di N.5 hanno lasciato il posto a tovaglie quadrettate, ampi grembiuli, zaffate di aglio e peperoncino e tavoli sui quali… consumare. Del resto con il frenetico modificarsi della vita non poteva che cambiare anche l’uso dello strumento che ci appartiene di più: la nostra casa, appunto. Sfidando le ire dei nutrizionisti ormai si mangia in salotto, davanti a maxi schermi che lasciano i più con la forchetta sospesa tra una soap e una partita. Le camere da letto sono diventate delle biblioteche, sommerse di riviste, libri, computer portatili e blocchi notes: letti come immense scrivanie dove tra penne e quotidiani anche il più ben disposto degli spiriti cerca un’altra strada. Non rimane che la cucina: avvolgente, calda, sensuale, ahimè spesso disertata dalla donna che trascorre ormai la maggior parte del proprio tempo fuori casa. Bisognava pur consegnarle un nuovo ruolo. E cosa c’è di più nobile di votarla a talamo: luci soffuse, profumi che se non inebriano i sensi senza dubbio stuzzicano l’olfatto e il gusto, qualche fantasia la fanno pur venire. Diciamolo, gli ingredienti ci sono tutti, basta saperli cogliere: i grandi amatori teorizzano da secoli che il sesso va giocato coinvolgendo tutti i cinque sensi. E se poi si vuol strafare, si possono allargare gli orizzonti, d’altra parte le moderne soluzioni di design di spazi sui quali accoccolarsi ne offrono più d’uno. Il tavolo è scontato? C’è il piano lavoro, ci sono le sedie che diventano sempre più poltrone e meno sedili. Insomma, aguzziamo l’ingegno. Un solo piccolo accorgimento. Occhio ai nuovi spazi, oggi tanto di moda: se le alcove infatti avevano il dono della privacy, la cucina e gli spazi aperti non si sono ancora attrezzati, e con porte inesistenti e ampie vetrate come vuole la moda, è molto facile passare da un momento di intimità ad una pubblica esibizione. Questo sì che sarebbe fare una frittata! Mario Pulimanti (Lido di Ostia –Roma) 49) CARNEVALE E’ arrivato il carnevale: perfetto, ridere fa bene alla salute. A questo punto mi sembra già di vedervi freddi fino alla scortesia, perché secondo voi sto dicendo una cosa ovvia. Eppure lo sto scrivendo non per rilevare un codice segreto che apra una porta nascosta su un mondo d'insperate possibilità, ma per dire una cosa, sì ovvia, ma ugualmente importante: ridere stimola il sistema cardiovascolare tanto quanto l'esercizio fisico. Ridere fa bene al cuore, mentre la depressione aumenta il rischio di mortalità. Quindi non dobbiamo offenderci se a volte amici, colleghi o semplici conoscenti scherzano su questioni che ci toccano. È umano, naturalmente, ma riuscire a ridere di noi stessi è salutare. Come ho detto fa bene al cuore. Una medicina che va bene per tutti, grandi e piccoli, uomini e donne. Quindici minuti quotidiani di sane risate rappresentano una cura molto efficace per il sistema cardiovascolare. Tanto è vero che il riso fa buon sangue ed il ridere anche di noi stessi è la migliore medicina perché il buon umore sembra attivare le reti del cervello che sono coinvolte nel benessere psicofisico. L'umore ha un grande impatto sulla nostra salute psicologica e fisica. Il nostro senso dell'umorismo, intendendo con questa espressione anche la capacità di stabilire amicizie ma anche rapporti di coppia duraturi, è una potente medicina anti-stress. Vivere con il sorriso sulle labbra -anche quando si viene derisi o criticati ingiustamente- aiuta ad affrontare meglio le difficoltà della vita. Non costa nulla e non ha effetti collaterali. Ho sempre saputo che il riso aiuta la salute e che ridere difende dal logorio. L'umorismo è una necessità, risultato di un impulso a eludere la ragione, ricreando in noi adulti uno stato infantile della mente, come rimozione di inibizioni interne. E' basato spesso su un meccanismo psicologico che cela l'orgoglio di sentirsi migliori degli altri. Perché l'umorismo permette di parlare di cose che in società sono inammissibili. In questo senso ha a che fare con l'aggressività, come la sessualità. Si possono dire battute sessuali senza scandalizzare. Mentre la volgarità dà fastidio. Eppure persino questo tipo un po' becero di umorismo affranca, ridendo, da uno dei tabù imposti dalla società e assorbito nella coscienza. Ecco perché i bambini si divertono a dire parolacce. A parlare di cose proibite. Sembra che sia terapeutico anche l'umorismo nero, perché aiuta ad allontanare l'ansia nei confronti della morte. Scarica tensioni, eliminando le quali restano più energie per affrontare la giornata, il lavoro, lo studio, la famiglia. Non si migliorano così le capacità intellettive, ma queste vengono sfruttate meglio. Mentre se si è tesi non si riesce a concentrarsi, per essere creativi. Curarsi ridendo, guarire ridendo, è forse più difficile da quando il carnevale dura tutto l'anno, e non solamente nei pochi giorni in cui il Buffone diventava Re. Buon Carnevale a tutti! Mario Pulimanti (Lido di Ostia –Roma) 50) PAPA’ Davanti al camino, sfoglio un album di fotografie. Sorrido vedendo le foto di papà. Da quanto è morto? Da diciotto anni. Ne è passato di tempo, ormai, ma il ricordo è ancora vivo. Bruciante. Proprio come allora. Da quando papà non c’è più,mi sento ancor più legato a lui. Perché mi manca. Probabilmente è il segno di una volontà che ci vuole legati per sempre. Mi manca il suo umorismo, la sua acuta osservazione degli altri. Mi manca la sua educazione, la sua cultura che non esibiva mai. Mi mancano le sue parole, i suoi messaggi, le sue battute con i tempi comici perfetti. Mi manca la sua faccia tonda, aperta e fiduciosa. Con un accenno di opulenza che lui per altro portava con molta leggerezza. Mi manca la sua stuzzicante ingenuità sempre pronta a rilevarsi in un sorriso. Ricordi… Tornano sempre, anche quando non dovrebbero… Brandelli di passato. Stilettate di dolore, di angoscia. “La vita è solo un sogno.” Quella frase, le ultime parole di un uomo che credevo invincibile. Immortale. Oggi vorrei tanto telefonargli per dirgli, sottovoce, che gli voglio sempre bene. Che lo ricordo com’era veramente: un papà speciale. Un papà intelligente. Soprattutto un papà buono. Quando mi addormento in poltrona, mentre nel camino il fuoco si spegne lentamente, sulle pagine lucide dell’album spiccano ancora le tracce delle mie lacrime. Mario Pulimanti (Lido di Ostia –Roma) 51) A cena da Marco e Rita Mi chiamo Mario. Mario Pulimanti. Ma molti ultimamente hanno preso a chiamarmi Mariolino Paperino perché, a loro dire, somiglio a Paperino. Sì proprio lui, Paolino Paperino, il simpatico, ma impacciato papero disneyano. L’antieroe per eccellenza. Paperino è un pasticcione, combinaguai, dispettoso, irascibile, testardo, pigro, fifone, ma si ingegna sempre nel trovare una soluzione che gli eviti un po' di fatica, a volte ci riesce, ma altre volte va incontro ad un mare di guai, complicandosi la vita per una sciocchezza, soprattutto perché è perseguitato da una tremenda e proverbiale sfortuna. Proprio come me. Infatti, così come, sul versante femminile, esistono le mani di fata, su quello maschile esistono gli uomini veri, quelli da amaro Montenegro, capaci di salvare cavalli ma anche di aggiustare oggetti, di riparare guasti domestici, di lavare i piatti e di cucinare. Io, ahimé, come molti altri uomini, da buon Paperino, non appartengo a questa categoria. In realtà so fare tante altre cose. Leggo moltissimi libri e me li ricordo. Credo di cavarmela con la scrittura e malgrado quello che dicono certi miei colleghi, penso di lavorare con impegno e con discreta abilità. Faccio delle belle fotografie. E poi quando c’è da bere e da mangiare sono un vero professionista! Ma, come dice mia moglie Simonetta, in tutto il resto, o quasi, sono un disastro. E quando dico disastro non esagero. Perché la mia vita è punteggiata, quotidianamente, da sconfitte imbarazzanti. Prendiamo la botanica. Vi dico subito che Simonetta ha il pollice verde. Ogni pianta che lei mette in casa diventa un baobab. Io, invece, sono una catastrofe vivente. Ogni pianta che metto in ufficio muore dopo pochissimi giorni. Sono l’Attila delle azalee, dei ficus e degli oleandri. Passiamo alla cucina. Per sintetizzare il mio rapporto con i fornelli sarò esplicito: non so cucinare nemmeno un uovo al tegamino. Quando prendo in mano una padella divento Fantozzi. Confondo il sale con lo zucchero. Mi brucio le mani quando scolo l’acqua della pasta. E le poche volte che ho provato a cuocere una bistecca i vicini hanno chiamato i pompieri per via del fumo, che ho provocato nel palazzo. Poi c’è il bricolage. Se c’è da attaccare un quadro mi prendo a martellate da solo. Se devo bucare una parete col trapano mi ritrovo nel salotto dei vicini di casa. Non parliamo dei miei maldestri tentativi quando c’è da sturare un water: provoco un maremoto e allago l’appartamento. Se cerco di aggiustare una presa elettrica faccio saltare la corrente in tutto il quartiere. E pensare che ero stato sul punto di rifarmi da solo l’impianto elettrico di casa. Già, prima che i miei, saputolo, fuggissero in una sperduta isola dell’Oceano Indiano. Un ottimo motivo per cambiare subito idea e chiamare l’elettricista di fiducia, certo! Da solo non riesco a mettermi un cerotto al dito. E se prendo in mano un tubetto di attaccatutto resto per tre giorni con il pollice incollato all’indice. Piuttosto che cambiare una gomma della mia automobile, vendo l’automobile. Perché potrei restare lì, a combattere col crick, per intere settimane. Impazzisco quando c’è da registrare qualcosa in Tv usando il timer. Se decido di registrare un film mi ritrovo sul nastro un documentario sulla vita delle renne nella Lapponia orientale! L’atro giorno sono andato a trovare mia suocera a Collevecchio, un delizioso borgo collinare, immerso nel verde della Sabina. Ho fatto tutto quello che c’era da fare: zappare, potare, ripulire, non dovevo avere rimorsi di essere accusato di stare seduto con le mani in mano. Senza scompormi, vi avviso che mi sono tagliato un dito. Ho acceso il fuoco nella sala da pranzo: è stato purtroppo necessario l’intervento della Protezione Civile. Ho sbagliato, a quanto pare. E a Simonetta che mi inseguiva facendo dondolare pericolosamente l’accetta che teneva in mano, fischiettando allegramente le ho fatto presente che doveva, invece, premiare il mio piccolo sfoggio di zelo. Anche se, tuttavia, non è passato inosservato e ha fatto qualche danno. Vero, posso però dire che mi sento più a mio agio con penne e matite. In fin dei conti, nessuno è perfetto! Sono uno scrittore oppure solo uno che scrive? Forse sono uno che finge ideali inesistenti. Amo il mio libero arbitrio, il jazz e le mie infinite miserie. Non sono tipo da ansie, non mi consumo per beffe annunciate. Ok, veniamo al dunque: accusare la famiglia di non sapere più fare il proprio dovere e incapace di esercitare il proprio ruolo é un alibi per scaricare responsabilità che stanno fuori dalla famiglia. Dl resto in questi anni non è stato fatto molto per consentire ai genitori, che spesso lavorano entrambi al contrario di quanto accadeva un tempo, di fare meglio il proprio mestiere di madri e padri. Basta vedere le poche scuole d'infanzia aziendali che ancora ci sono in Italia, i costi spesso proibitivi degli asili nido, una scuola spesso intesa come area di parcheggio. E non sempre per colpa dei genitori. Non tutte le cose che vedo sono spettacolari. Garbatella: casa di mamma. La Garbatella a me piace così, con le facciate di alcuni palazzi che si sgretolano e sui marciapiedi cadono i gusci degli anni ormai andati. Sento l’odore della mia infanzia, mentre guardo un album di vecchie foto. L’album dei sogni. Ci sono mamma e papà, prima che si trasferissero sull’arcobaleno. Bevo un caffè. E’ nero e scuro come l’interno di un sarcofago. Intorno a me, silenzio. L’unico suono che sento è il pulsare delle mie tempie, il battito del mio cuore. Sudo mentre sfoglio pagina dopo pagina. Il sudore mi scorre sulla fronte, sulle tempie, mi entra negli occhi mentre me ne sto seduto, chino sul libro, senza più riuscire a distinguere il sudore dalle lacrime. All’esame della scuola per mimi, l’allievo fece scena muta. Su, meno stronzate, facciamo in fretta. Non ci sono più i bravi illusionisti di un tempo. Sono tutti spariti di scena. Sono nato in una casa umile di Testaccio. Adesso è cambiato tutto, adesso lì ci vivono poeti che ogni anno vincono premi letterari, artigiani che fabbricano ancora ombrelli e bastoni artigianali di alta fattura: oggetti unici e ricercati diventati famosi per design e qualità e pittori di pesci morti. Le case del Testaccio sono di moda perché si vede che in esse si trova lo spirito del popolo romano, in attesa che qualcuno lo colga. Ma ai miei tempi da lì uscivano solo le urla delle partorienti i cui mariti avevano sbagliato numero nel chiamare l’ambulanza. Gli strilli dei bambini. Le scoregge dei pensionati. Le manganellate regolamentari della polizia. Era un mondo spietato, con le tavole vuote e le condutture intasate. Che pensieri: sono così sconvolto che sento persino qualcosa di miracoloso, una specie di eccitazione sessuale. Ma l’unica cosa che riesco a dire è “Tutto questo è assurdo. Sto diventando matto!” Era un calciatore sciatto e impreciso. Lavorava con i piedi. Ora capisco. Sto per morire. Davanti al giudice, i due pianisti trovarono un accordo amichevole. E’ un modo di dire. Non credo che abbia particolare importanza. Ma mi ha scombinato un po’ la vita. Adoro il mare. Ostia, al mattino. Voglio riaprire la finestra dell’arcobaleno. Datemi le chiavi. Non mi fate perdere la pazienza! Cavolo, un milione di cose mi impediscono di aprire quella finestra, un milione di cose su cui non si deve ragionare, né calcolare, né fermarsi a vedere. Solo sentire. Un milione di cose che non stanno da nessuna parte, ma che sono comunque nell’aria. Ovunque, tranne che nei tuoi occhi. Fino a tal punto arriva il tuo disprezzo? Sì. Non mi offendo. E’ successo tutto in fretta: più in fretta di quanto cerchi di ricordare. Solo in qualche occasione mi è sembrato di perdere l’equilibrio. Solo in rari istanti ho avuto dei dubbi, mi sono chiesto se la realtà sia davvero come la sto vivendo. Assomiglio sempre più a mio padre. Passo il tempo pensando a cose basilari. E’ lunedì e ho i postumi di una sbronza. Tre ore di sonno, dopo una giornata a casa di mio fratello guardando partite di calcio e bevendo whisky torbato. Una figata. Sì, si dice così a Roma, o no? Sì, si dice così. A volte si fanno delle scelte che non si sanno spiegare, io ho la capacità di cambiare i miei piani, di voler vedere le conseguenze delle cose. Stefano, mio fratello, definisce questo mio modo di fare dicendo che voglio sempre portare le cose all’estremo. Ho sempre sentito dire che i soldi sono soldi. E che molti soldi sono potere. E che moltissimi soldi siano il massimo. Sarò sincero. Intuisco il tuo disprezzo. Me lo soffi in faccia. Accendo un sigaro d’alta classe. Lo lascio morire acceso e con dignità. Penso a sabato sera: cena a Torvaianica. Verbene colorate, surfinie, gerani. A casa di Marco e Rita, genitori di Francesca. Sì, Gabry ha una ragazza. Francesca. Rea. Molto attraente. Dall’aspetto fragile e delicato. Sembra la reincarnazione di un tenero bocciolo di rosa. Voce soave ed una risata cristallina. E canta. Meglio di Laura Pausini. Figlia di Marco e Rita. Marco: persona pacata, gentile e dotata di self control. Denti perfetti e uguali; bianchissimi e lucidi. Un uomo di carattere. Rita: capelli ricci, lunghi e biondi. Occhi azzurri; naso regolare; pelle chiara. Trucco leggero. Allegra, amante della danza. Proprietari di una delle ottiche più importanti di Ostia.. L’Ottica Rea. Di Viale Capitan Casella. “Dal 1964 l’Ottica Rea è a vostra disposizione per soddisfare qualsiasi esigenza nel campo degli occhiali da vista e delle lenti a contatto con estrema professionalità”. Oltre a noi, c’erano anche Marco e Rossella. Con Simone. La cena di Rita. Maccheroni con Spada e Gamberi. Finta pizza di pesce. Gamberoni al vino bianco. Gelato. Le grappe di Marco. Domens. Castagner: la "torba nera": profumata e fruttata.. Berta: la "tre soli tre", grappa di Nebbiolo invecchiata otto anni. Ampia, avvolgente, con grande personalità. Infine, una grappa di Serafino Levi: una volta versata nel bicchiere, prima di berla ne ammiro il colore granato, quasi rosso. E’ successo tutto in fretta, ho pensato, degustando la mia grappa, soffice. Prodotta con uve delle Langhe e del Monferrato. Profumatamente morbida: estremamente delicata. Serata indimenticabile! Quando penso di essere vicino alla verità sento che ogni fibra del mio corpo è vicina al nucleo dell’arcobaleno, alla sua nuda e pura essenza. Non riesco mai ad arrivare alla fine, non vado mai oltre questo punto. E i sogni continuano. Ernesta Aloisi. Moglie di Antonio Valeriano Pulimanti, poeta collevecchiano. Ah. Ok. Madre di Antonella. Madre di Stefano. E madre mia. E’ morta domenica 29 luglio, all'Ospedale San Camillo di Roma. Alle diciotto e trenta di un triste pomeriggio. Il rito funebre è stato celebrato a Testaccio, nella Chiesa di Santa Maria Liberatrice. Il feretro, al termine del funerale, è stato portato al cimitero storico di Collevecchio, in provincia di Rieti. Qui mamma è stata seppellita a mezzogiorno del secondo giorno di agosto. Mi chiedo se sento qualcosa, sollievo, rabbia. Non credo. Provo solo dolore. Questo tipo di cose ti divora dall’interno. Sono passati undici mesi. Ora mi trovo a Testaccio con Antonella e Stefano. Ad un bar, sotto casa loro. Durante il caffè e le conversazioni su argomenti leggeri, ciò che è accaduto a mamma è presente, ma nessuno di noi la menziona a voce alta. Forse è bello non parlare delle circostanze che hanno portato alla morte di qualcuno, ma parlare delle cose belle, dei ricordi e di ciò che ci mancherà, ma la verità su mamma, su tutti noi, cresce dentro di me. Dentro di noi. So cosa vuol dire. Abbiamo mai avuto dubbi? Portarla al San Camillo é stata la cosa giusta da fare? Certe cose fanno male. Fa male la morte di chi si ama. E’ qualcosa a cui non si smette mai di pensare. E’ stata una brava mamma. Sì. E’ vero. Torno a casa. A Ostia. Ora sono seduto su una panchina del Pontile, terrorizzato dallo scorrere del tempo, dagli istinti. Dal fatto di non avere il controllo di essi. Da ogni piccola scheggia di tempo, la trasformazione di un infinito numero di cellule. Dall’aria che cambia, il mare di fronte a me che è la stesso ma nello stesso tempo non lo è, da mio fratello Stefano che è invecchiato, io che sono invecchiato, impercettibilmente ma inevitabilmente invecchiato, e dal fatto che, in qualsiasi momento, può crollarmi qualcosa in testa dall’alto, e distruggermi. La verità può arrivare tramite un dettaglio, il tempo delle rivelazioni può arrivare e cogliermi impreparato, di sorpresa. Non appena mi sono assicurato che tutto è a posto, che ho io il controllo, questa sensazione lascia il posto a una nuova scheggia, anch’essa insicura, fugace, pericolosa, e come si fa a vivere una vita che appare così effimera, così temporanea? E costantemente quella sensazione di solitudine, nonostante la famiglia, la condivisione. Simonetta, mia moglie. Gabriele, mio figlio. Ventiseienne. Alessandro, l’altro mio figlio. Diciottenne. Loro sembrano pensare che quello che è successo non abbia toccato solo me, ma anche loro, forse nel tentativo di alleggerirmi il peso. La morte di mamma, quella perdita che conosco solo io e nessun altro, colora tutti i miei giorni, a parte qualche breve, quasi euforico, istante di oblio. Ed è di nuovo qui, come un peso. E’ come se mi avessero diagnosticato una malattia mortale e io tenessi la diagnosi per me, perché non ce la farei a sopportare le espressioni dei loro visi se lo dicessi. Certo, lo ripeto, dal 29 luglio la mia famiglia mi sta vicino. Questo mi trasmette una strana sensazione di sicurezza, di innocenza, ma le notti sono terribili. Mi sveglio con il cuore che batte talmente forte che ho paura che stia per fermarsi, che non ce la faccio più, che morirò. Sì, spesso la notte mi sveglio senza fiato. Mi alzo e mi siedo davanti alla tivvù, tiro fuori il vecchio videoregistratore dall’armadio e cerco i filmati registrati dai miei genitori quando eravamo piccoli. Tengo il volume basso e la luce spenta. Mia madre e mio padre si passano la telecamera, e la famiglia fa cose da tipica famiglia. Filmano me e Stefano che giochiamo con il pallone. Io e Antonella che corriamo al Parco della Rimembranza di Collevecchio. Io e mio padre che giochiamo a ping-pong, mentre mio fratello impara a camminare. Mia madre che fa un filmino di prova con mio padre, hanno appena comprato la videocamera. Cinquant’anni fa. Sembra così giovane, assomiglia a me. E io cerco qualcosa, un filo conduttore o un dettaglio nella mia storia, che possa spiegare ciò che è successo, perché è andata così, ma niente. Non trovo niente. Niente che possa giustificare la morte di una madre. Ciò che mi fa paura è il silenzio. Non poterle più parlare. Vorrei avere almeno un attimo, mamma, anche solo per dirti ciao. Me ne vado presto dal Pontile, per camminare verso casa. La morte di mamma mi fa ancora male. Credo di essere un po’ depresso. A volte mi viene da piangere nelle situazioni più strane, e vorrei essere in cattiva salute, vorrei stare per morire. Forse domani, forse non prima di altri cinquant’anni, ma prima o poi il mio corpo cambierà direzione, inizierà l’atterraggio. A parte qualche mal di testa e il fatto che sono ancora un po’ sovrappeso, fisicamente sto bene. Non mi sto spellando in maniera preoccupante, non mi sento raschiare quando respiro, i miei organi interni, il fegato, i reni, tutti eseguono le loro funzioni biologiche come dei bravi lavoratori obbedienti. Mi sembra uno spreco. Non finirò mai di ringraziare i miei genitori, che mi hanno insegnato fin da piccolo l’importanza di poter essere ciò che si è e di trattare gli altri con rispetto e dignità. Sono stati fantastici. Comunque, appena mi muovo un po' ho subito il fiatone. Cavolo, inizio a invecchiare. A volte sogno una cassa da morto ad assi povere con dentro un salma. La mia. Ma, proprio quando cerco di compatirmi un po’, la memoria mi fa strani scherzi e comincia un viaggio a balzelloni tra episodi della mai vita che io vorrei dimenticare, ma che la memoria, appunto, mi rimbalza indietro, pam, pam, pam, come un muro con un palla da ping pong! Pam: io dai salesiani del Testaccio. Pam: io alla Chiesa del Giglio che sposo Simonetta, la sabina. Pam: io, che cullo Gabry, ascoltando Bob Dylan. Pam: io, che cullo Alex, ascoltando Bruce Springsteen. Pam: io che mi laureo. Pam: io che lavoro alle Poste di Fiumicino. Pam: io che lavoro al Comune di Roma. Pam: io che lavoro al Ministero dell’Agricoltura. Pam: io che piango nonno Angelino, nonna Leonella, nonna Jole. E zia Valeria. Pam: io che seppellisco papà Valeriano. Pam: io che seppellisco mamma Ernesta. Pam: io, over the rainbow. Mi sembra di muovermi lateralmente, sempre più lontano dalla vita che mi sarebbe piaciuto fare, sospinto –dal destino o dalla incapacità do prendere decisioni giuste, che importa?- su terreni sempre più paludosi nei quali la virtù e le qualità che mi si riconoscono (ritengo di essere un uomo sensibile, discretamente colto, con un certo senso dell’umorismo, fondamentalmente buono) non servono a niente e i difetti di cui mi accuso (so di essere distratto, timoroso, poco determinato, persino ingenuo) finiscono col farmi affondare sempre di più. Dite che sto parlando a coda di porco, intorcinata, non in forma esplicita? Vabbè, ok. Arrivo a casa. Mi siedo sul divano, di fronte al mare. Ascolto Bob Dylan, a luci spente. Mi inganna l’oscurità. Sono un mercante di libri maledetti. Fuori dal tempo. Forse, non ho capito nulla. Né qui, né altrove. E morirò. In terre lontane? A Collevecchio? A Ostia? Sicuramente, sotto una cupola stellata. Alle radici del cuore. Addio arcobaleno, ciao. Con un sospiro, mi raggomitolo sul divano e rimango ad ascoltare il mare. Mario Pulimanti (Lido di Ostia –Roma)