sabato 28 febbraio 2009

Ostia-Infernetto-Collevecchio



Vuoto la tazza di caffè e vado in bagno, dove apro l’acqua della doccia.
Lascio cadere l’accappatoio, e mentre aspetto che l’acqua diventi calda esamino il mio corpo allo specchio.
Con il pollice e l’indice afferro le maniglie sopra i fianchi e le fisso incuriosito, quasi siano vesciche gonfiatesi durante la notte.
Dieci anni prima avevo una pancia piatta come un’asse da stiro, a poco a poco i contorni netti sono stati cancellati da una specie di marea crescente.
Mentre sono sotto la doccia squilla il cellulare, ma io sciacquo con tutta calma lo shampoo e completo il mio rito mattutino prima di controllare chi abbia chiamato.
E’ Ferruccio.
Nel messaggio mi spiega con l’abituale tono scanzonato che mi sta aspettando per andare a Collevecchio, a raggiungere le nostre moglie che sono lì da qualche giorno.
Quando lo richiamo trovo il numero occupato e mi limito a lasciare un messaggio sulla segreteria per avvertire che sto arrivando.
Fuori piove, raggiungo di corsa la macchina, una Opel corsa, e lancio il cappotto sul sedile del passeggero prima di mettermi a mia volta al riparo.
Oltre i finestrini bagnati il mondo sembra liquefarsi, figure in impermeabili dai colori sgargianti si fondono come creature fantastiche nel disegno di un bambino.
Ma appena metto in moto e faccio scattare i tergicristalli, insieme all’acqua spariscono le creature fantastiche, rimpiazzate da lidensi scontrosi che avanzano a fatica sotto la pioggia o se ne stanno ammassati sotto le pensiline. Il traffico in direzione dell’Infernetto si muove a rilento, anche per via del brutto tempo.
Guardo più volte l’orologio.
Arrivare in ritardo non è mai bello, e per me la puntualità è una questione d’onore.
Finalmente posso lasciare la Cristoforo Colombo, imboccare il canale della Lingua e proseguire lungo Via di Castel Porziano dove abita Ferruccio.
In una villetta. Bella.
Poco dopo sono davanti al cancello di Ferruccio.
Ha smesso di piovere; squarci nelle nuvole grigio chiaro rivelano frammenti di cielo azzurro.
Infilo le mani in tasca e traggo un profondo respiro.
Suono il campanello.
L’aria ancora umida e fredda di pioggia.
Ferruccio rabbrividisce nella giacca leggera.
Batte i piedi cercando di scaldarsi.
Squilla il cellulare, e di riflesso infilo la mano nella tasca interna.
Non è un numero conosciuto, ma vedo che questa mattina ho ricevuto tre chiamate dallo stesso numero.
Senza guardare il display premo la combinazione dei tasti per sentire la segreteria.
Ascolto il messaggio registrato con stupore crescente.
E’ di un tale Marco Neri, che con un tono impersonale mi informa di dovermi parlare a proposito di un mio amico, Peppone.
Aggrotto la fronte.
Non sono abituato a ricevere telefonate strane e, perciò non riesco a capire cosa c’entri Peppone.
Non faccio in tempo a richiamare che Ferruccio esce dal portone e mi chiama.
Ha acceso la macchina.
A Collevecchio ci andiamo con la sua.
Ancora il cellulare.
Simonetta e Silvia.
Ci informano che ci aspettano per pranzo.
Del resto, mia moglie non sopporta che si mangi fuori, secondo lei andare in un ristorante, anche segnato con cinque forchette, o in una pizzeria per miliardari, significa avvelenamento quasi garantito.
Partiamo.
Ferruccio accende l'autoradio: Bruce Springsteen. Perfetto.
Ci siamo allontanati di qualche chilometro quando lo squillo del telefonino sovrasta il rumore della muisica.
Stefano, mio fratello.
Ha un carattere forte.
Il suo non è un comportamento dettato dall’acredine o dalla rabbia in cui indulgono certe persone, ma da un sano divertimento e dall’autoironia.
"Mario, ho scelto il nome"
"Quale...quale nome" farfuglio.
"Valerio, come papà"
Ritrovo le parole tutto a un tratto: "Mi piace. Anche se papà si chiamava Antonio Valeriano".
"Sciocchezze" dice lui "Valerio sarà il nome del mio secondogenito."
"Certo, certo..." dico riscuotendomi e cercando di ritrovare la calma.
"Bé, allora ci vediamo domani" e riattacca.
Valerio Pulimanti, suona bene.
Lo dico a Ferruccio.
"Accidenti. E' davvero un bel nome" commenta.
Ci fermiamo a un bar.
Un caffè veloce, e poi ripartiamo per il nostro breve viaggio in direzione di Collevecchio.
Un'ora e un quarto ma intensa.
Per arrivare a Collevecchio percorriamo l'autostrada A1 dall'uscita del raccordo fino al casello di Ponzano Romano.
Potete anche non credere a quello che sto per dirvi, ma vi assicuro che comunque corrisponde tutto alla realtà.
Difatti, nonostante che quello della sicurezza stradale sia uno dei temi più dibattuti in questo periodo, la gente sull'autostrada guida male.
Non é che vanno più veloci del dovuto -io stesso a volte vado a tavoletta- ma c'è una specie di rabbia nel loro modo di guidare. Sappiamo tutti che la guida pericolosa mette a rischio la vita di esseri umani e causa ogni anno morti e invalidi permanenti purtroppo, eppure gli automobilisti su questa A1 si tallonano, lampeggiano furiosamente quando qualcuno resta sulla corsia di sorpasso pochi secondi più del necessario.
Anche se critichiamo spesso i comportamenti irresponsabili nel traffico, sembra ci sia tutta una nuova classe di guidatori che si piazza sulla corsia di mezzo e non vuole saperne di spostarsi, il che sembra mandare in bestia tutti gli altri: per un pò si tengono a una distanza di cinque o sei metri, premendo per farli spostare poi, visto che non lo fanno, sterzano bruscamente sulla corsia esterna e poi rientrano a razzo prima che la manovra sia sicura, tagliando loro la strada.
Ho visto una Ferrari 512 TR all'inseguimento di una Maserati 520 sul pezzo di A1, dopo il casello di Roma Nord, che é a quattro corsie molto trafficate, con tanto di slalom in mezzo a noi ed agli altri veicoli.
Prodezze da imitare solo alla guida di una consolle per videogiochi, come fa Alessandro -ma anche Gabriele devo dire- giocando sulla sua PS2 a Gran Turismo 4.
Un altro procedeva a zig-zag, a bordo di una Volkswagen Golf nera fiammante.
In particolare, la guida pericolosa costituisce per i giovani neo-patentati una novità fortemente eccitante e trasgressiva, nonostante metta a repentaglio la vita e l'incolumità propria ed altrui.
Sotto questo punto di vista gli incidenti automobilistici rappresenterebbero la prima causa di morte per i giovani di tutto il mondo.
Ad un certo punto mi accorgo che ci sono automobilisti che procedono felici ad una velocità di crociera sui novanta all?ora, ma appena si accorgono che qualcuno li sta sorpassando, accelerano di colpo, fino a centoventi, come se fosse un affronto personale supporre che la macchina di Ferrucio, una monovolume verde, possa sorpassare la loro Fiat Stilo, e non sono disposti a sopportarlo.
Probabilmente lo considerano un insulto alla parte più indifesa e tenera del loro essere.
Forse sto esagerando, ma non troppo, vi assicuro.
Dopotutto é sabato mattina, e indubbiamente la maggior parte di quella gente sta andando a far compere, o semplicemente a divertirsi, eppure sembra che questo sabato mattina stia montando una furia collettiva sull'A1.
Sono teso e compresso, tanto da darmi l'impressione che potrebbe bastare che qualcuno commetta un'infrazione veramente grave per farci esplodere tutti.
Comunque: arriviamo a Collevecchio.
Ci aspettano delle ottime fettuccine al sugo di castrato, accompagnate da un Colli della sabina rosso frizzante, fermentato in rovere e raffinato in bottiglia.
Rosso come un tramonto.
Rosso come il sangue.
Rosso come il fuoco.
Rosso come una rosa.
La rosa dell'amore.

Mario Pulimanti (Lido di Ostia -Roma)

giovedì 26 febbraio 2009

Paperino



Ciao, mi chiamo Mario.

Mario Pulimanti.
Negli ultimi tempi fluttuo in un mare di dolori fantasma e sensazioni fasulle, create dal cervello per tormentarmi e confondermi.
Sento il solletico di una mosca anche se non c’è nessuna mosca.
Sono sempre più distratto.
Non avverto nulla e mi rendo conto in ritardo al bar che una tazza di caffè bollente mi si è rovesciata addosso e mi sta ustionando.
Sarà perché ho 53 anni?
Eppure ero convinto che la mia sensibilità fosse di recente perfino aumentata.
Non mi ritengo un uomo coraggioso, fisicamente e moralmente.
Ma prima no, era diverso.
Prima ero sempre pronto a tutto.
Ora invece il mio coraggio viene meno.
Al lavoro cerco sempre di spuntarla, di essere all’altezza.
Ho fatto castelli in aria, ho fantasticato, ma i risultati non sono stati del tutto quelli desiderati.
Nella mia incessante battaglia non ho raggiunto nemmeno una delle importanti vittorie di cui sognavo.
Buoni risultati sì, ma, alla fin dei conti, sempre piccoli successi.
Sono convinto che per me è arrivato il momento della fine dei sogni.
Dei veri sogni.
Ho cercato invano un posto migliore.
Dov’è quel posto?
Nella Terra-che-non-c’è?
A Oz?
Temo che arrivino i pensieri più oscuri, che mi potrebbero sommergere come una marea crescente.
In ogni modo potrei, una volta per tutte, anche lasciar stare, non essendo stato in grado di raggiungere l’obiettivo principale.
Di fatto il risultato conseguito è diverso, molto diverso da quello sperato.
Ho paura che, se non ci saranno altri miglioramenti, potrei precipitare nell’apatia.
Nell’indifferenza.
Di sicuro non tratterrò il fiato nell’attesa di progressi più vantaggiosi.
E’ giusto così!
A questo punto mi chiedo quando tornerò a casa?
Lì, la mia tana trabocca di libri di letteratura e di filosofia, di dischi jazz e di film di Woody Allen.
A casa ci sono i miei due figli.
Ragazzi abituati a cavarsela nello studio e nello sport.
Riflessi pronti.
Allora, Mario, muoviti!
Mentre cammino, ascolto Bob Dylan con il mio MD tascabile pensando a quando ero giovane.
Che bei tempi!
Mi è sempre piaciuto Paperino.
L’ho sempre amato, e forse per questo sono simile a lui.
Mentre non assomiglio per niente a Gastone, probabilmente perché l’ho sempre trovato insopportabile.
Mi irrita, infatti, vederlo con una nuova macchina fiammante vinta alla lotteria, andare via con Paperina lasciando Paperino a dare testate sui muri.
Infatti Gastone è sempre fortunato.
Esce con Paperina sotto gli occhi di Paperino ed ogni volta riesce ad ottenere quello che vuole. Zio Paperone non è mai in grado di tiranneggiarlo.
Oltretutto è prepotente, arrogante e non è mai generoso. Infatti Gastone, vestito con la sua elegante giacca verde con fiore all'occhiello, cappello rosso in testa e riccioli biondi sempre in ordine, non ha mai bisogno di lavorare, tanto è la fortuna a pensare a lui.
E' anche vero, però, che anche Paperino ha un pò di fortuna: non è solo!
Gastone invece è sempre solo.
Niente male.
Questa volta ho fatto centro.
Ma adesso basta.
Riempio il bicchiere.
Telefona mia moglie.
Ha detto di non aspettare per mangiare.
E va bene.
Capisco.
Mi siedo sul divano.
Spengo la luce e rimango un pò ad ascoltare il mio respiro nel buio.
Mario Pulimanti (Lido di Ostia –Roma)

domenica 22 febbraio 2009

Nessuna pietà



Sono uomo, sono romano.
E abito a Ostia.
Vagare senza meta, senza doveri né obblighi da assolvere, dà una piacevole sensazione di libertà.
La mia unica preoccupazione riguarda le persone che non desidero incontrare, anzitutto rigidi integralisti e falsi amici.
Sono fortunato.
Incontro un'amica.
Ha un cane al guinzaglio.
Pastore.
Puzza.
Appunto.
Del resto non si può impedire a un cane di puzzare di cane.
Incontro un amico.
Ha una bella camminata, sicura, con una certa elasticità, e con i piedi che puntano avanti, non ai lati come le anatre.
Non ho mai trovato attraenti quelle che camminano come anatre.
Ma é triste.
La moglie se n'è andata.
Per sempre.
"Coraggio" gli sussurro.
Cammino finché non mi trovo di fronte a un ampio belvedere che da sul mare.
Oltre la linea dell'orizzonte si staglia netto il profilo di una nave.
Cisterna.
Mi siedo sul parapetto, il vuoto sotto ai piedi.
Rimango per un pezzo a contemplare l'orizzonte.
Entro in un bar.
Mi siedo a un tavolo.
Di fronte a me, un signore.
Anziano.
Ex consigliere circoscrizionale.
Mentre parla in un tono monotono, inevitabilmente mi ritrovo inondato da un oceano di retorica che martella contro scogliere di metafore.
Mi squilla il cellulare.
Un amico mi invita per un aperitivo.
Arrivo a casa sua.
L’atrio è male illuminato, la moquette logora, il riscaldamento appena percepibile.
Vedo uno scarafaggio correre lungo una parete e sparire fondendosi con l’intonaco scrostato.
Preso il drink, lo saluto.
Una buca.
Inciampo.
Torno a casa imprecando contro tutti gli dei.
Pranzo.
Più tardi, leggo.
Sul divano.
Prendo in mano il libro che sto leggendo, ma le parole sembrano scivolare via dal foglio.
"Mario, vado al cinema con Silvia e Liliana".
Simonetta si allontana.
Quando scompare, mi guardo intorno.
Non c'é nessuno.
Gabriele ha raggiunto un amico.
Alessandro é andato all'oratorio.
All'improvviso, però, la mia mascella prende a tremare.
Le labbra fremono.
Il mento si corruga e infine, pur tentando di tenerla chiusa, apro la bocca in uno sbadiglio.
Poi sbatto le palpebre.
Prima ancora di chiudere gli occhi, tuttavia, sprofondo nell'incoscienza.
Il sonno mi avvolge completamente, privo di sogni e punti di riferimento.
Un sonno così somiglia all'eternità, senza nulla che aiuti a misurare il trascorrere del tempo, senza una traccia che indichi la vastità dello spazio, dove un singolo istante non é molto diverso da un miliardo di anni e un atomo é grande quanto l'universo.
Tutte le diversità della vita, il piacere e il dolore, si dissolvono in un'unità primordiale, che abbraccia ogni cosa, persino il nulla.
E' a questo che somiglia la morte?
Poi all'improvviso, mi sveglio.
Nella stanza la luce si colora del rosa pallido del tramonto.
Guardo a lungo il soffitto, non riesco ad alzarmi.
Accendo la tivvù.
La giornalista sorride e un attimo dopo apprendo che nel mese di maggio 2009 i jeans compiranno 136 anni.
Ma non li dimostrano.
A pensarci bene, sono l'unica invenzione umana che sembra non invecchiare affatto.
Spengo la tivvù.
Mentre leggo una rivista dove sono raffigurati dei minatori dell’ottocento al tempo della corsa dell’oro che indossavano dei blue jeans, mi chiedo dov’é la differenza con i jeans indossati oggi.
Mi metto al computer per saperne di più.
Nemmeno il tempo di digitare il nome jeans su un famoso portale e mi trovo subito davanti alla loro storia.
E che storia avventurosa!
Vengo subito a sapere che il tessuto jeans, molto robusto e resistente agli strappi, veniva usato per fabbricare i teloni da imballo e le coperture delle vele.
In seguito, per la sua resistenza, fu utilizzato per confezionare i pantaloni da lavoro degli scaricatori del porto in partenza da Genova per l'America.
E così nell'ottocento, con le grandi emigrazioni, la tela Blu di Genova (tela jeans vuol dire infatti tela Genova) arrivò negli Stati Uniti d'America, dove venne utilizzata per realizzare gli abiti dei cercatori d'oro.
Nient'altro ha resistito così bene alla prova del tempo.
Il jeans, nato a Genova, difatti fu migliorato in America, ma da un emigrante europeo: il bavarese Levi Strass al quale bisogna dare atto di aver capito che quelle brache pratiche ma poco eleganti potevano essere migliorate.
E i miglioramenti che lui vi apportò sono quelli che le hanno rese immortali.
Egli cominciò a realizzare dei grossi pantaloni in tela robusta per i cercatori d'oro, delle tute color marrone, senza passanti nè tasche dietro, e presero il numero in codice 501, che resiste tuttora.
E, anche se non era stato lui a inventarli, fu comunque lui a trasformarli in un capo praticamente indistruttibile grazie a quei rinforzi alle tasche e alla ribattitura lungo le cuciture laterali.
Levi Strass presto li trasformò nella divisa del West, tanto che alla fine dell'ottocento, in America, il tessuto jeans diventò sinonimo di pantaloni.
E Levi Strass, che vide l'America vestire i suoi jeans, non avrebbe comunque mai immaginato che sarebbero diventati la divisa dei giovani di tutto il mondo, che avrebbero resistito negli anni al succedersi delle mode, senza mai tramontare: divisa dei lavoratori, delle classi più povere e rudi, poi divisa dei giovani ribelli negli anni Cinquanta, dei contestatori anni Sessanta-Settanta, e infine capo alla moda presente su tutte le passerelle.
Oggi, i Levi's non sono più l'unica marca di jeans nel mondo, ma rimangono la marca più universalmente nota e desiderata.
Neanche l'assedio di famosi sarti come Calvin Klein e Ralph Lauren ha diminuito il loro dominio sul mercato mondiale.
Ed ora, che siamo nel 2009, i vecchi jeans si meritano un brindisi: ai prossimi 136 anni!
Chissà, forse nel 2144 saranno di nuovi i cercatori d'oro a indossarli.
Su altri pianeti.
Spengo il pc.
Accendo lo stereo.
Lester Young.
Penso all'ufficio.
E a certi colleghi.
Fortunati e con incarichi.
Mmh...e poi dicono che le conoscenze non servono!
Smetto di pensare.
Non lascio che mi si guasti il buonumore.
Esco.
Il cielo è diventato un’enorme cappa nera che si estende in tutte le direzioni.
Guardo su, cercando di vedere le stelle attraverso lo smog.
Non ci riesco.
Per quello che ne so, potrebbero anche non esserci più.
Ma so che ci sono.
Sono anni che non vedo le stelle.
A Ostia lo smog è così fitto che le cancella.
Mi domando che senso ha tutto quanto.
Nessuno è felice.
Ogni giorno porta altre seccature, altri problemi, altro dolore.
E se riesci ad evitare il cancro, l’Aids, le droghe, gli incidenti d’auto, i malevoli interventi di Dio, c’è sempre la possibilità che uno barellato ti picchi, stupri tua sorella, o rapisca i tuoi figli e ….mmmh, meglio interrompere subito questi mie tristi elucubrazioni mentali.
Mi é passata la voglia di passeggiare.
Torno a casa.
Ceno.
C’è una bottiglia d’amaro nel mobile della cucina.
Dato che di dormire non se ne parla, mi attacco alla bottiglia finché non crollo.
Riesco a malapena a raggiungere il letto.
Simonetta brontola sospettosa quando annusa il profumo di rabbia che mi é rimasto sulla pelle.
Mi sento troppo stanco per dare spiegazioni o per prenderla in giro.
Le volto la schiena.
Poi scivolo in un sonno agitato.
Mi sveglia il dolore.
Dolore alla testa.
Dolore al cuore.
Dolore emotivo.
Sono quasi le nove.
Il mio stomaco sta ballando il mambo, protestando per tutto l’alcol che ho ingurgitato.
Butto due Alka-Seltzer in un bicchiere d’acqua e lo bevo prima che sia sciolto del tutto.
Mi sento disintegrato.
Mi sento come se fossi stato preso a botte fino allo sfinimento.
Ci sono pezzi di me che continuano a cadere.
Scoppio a piangere lacrime meritate e, in un certo senso, benefiche.
Ma ora basta.
Ho la sensazione che è solo una totale perdita di tempo inseguire questi pensieri.
Mi hanno fatto nero.
Ho tanto bisogno di fermarmi.
Allora, esco.
Entro in un bar.
Prendo un caffè.
Il momento è passato.
Nessun problema: ora sto meglio.
Non c’è nient’altro da pensare. Non ho nient’altro da dire.
So long.
Mario Pulimanti (Lido di Ostia -Roma)

martedì 17 febbraio 2009

Povia a Sanremo con "Luca era gay"


Stasera mi sento di schifo.
Un perfetto idiota.
Ormai sono maturo per qualche ospedale psichiatrico per lungodegenti.
Gabriele mi consiglia di riposarmi, finendo di parlare con un sorrisetto.
Liturgia.
Alzo le spalle.
Tanto sono sicuro che non servirebbe a nulla.
Grazie al cielo a Sanremo c’è Roberto Benigni.
Così mi limito a sedermi davanti alla TV ad aspettarla e, detto per inciso, a godermi lo spettacolo.
Sono sicuro di aver piazzato il colpo mortale alla tristezza.
Giusto.
Ogni tanto ho l’impulso di cambiare canale, dopo aver ascoltato canzoni belle, canzoni ballabili basate su ritornelli accattivanti e canzoni bruttine ma cantate da famose star, quando eccolo arrivare sul palco dell’Ariston.
Roberto Benigni: un grandissimo talento unito ad una vivace intelligenza.
Inutile dire di più.
Termina di recitare.
Rimango in silenzio ancora per qualche minuto, poi rimetto a posto il cuscino del divano e mi alzo.
Uscendo dalla sala da pranzo, mio figlio Alessandro mi chiede cosa ne pensi di Povia.
Non so cosa rispondergli.
Ho ascoltato la contestata canzone “Luca era gay”, la storia di un omosessuale che diventa eterosessuale.
Mah…Povia racconta semplicemente una storia di confusione, ed è anche apprezzabile sul piano musicale, ma Sanremo è un amplificatore tremendo e distorcente.
Quindi ci sono state manifestazioni antipovia da parte di associazioni gay e del “Comitato di liberazione da Povia” che ritengono il testo offensivo.
“I diritti non si barattano per quattro soldi: venduto”. “L’unico malato sei tu”. “Benigni, coraggio: schierati contro l’omofobia”.
A sollevare i primi cartelloni anti-Povia davanti all’ingresso dell’Ariston sono stati alcuni rappresentanti della federazione giovanile dei Comunisti italiani.
Dichiarazioni attribuite a Povia in interviste a varie riviste in verità non hanno facilitato la distensione.
Sabato, poi, sarà la volta della manifestazionedell’Arcigay.
Vabbè, però ritengo eccessivo tutte queste polemiche su una semplice canzone.
I problemi sono ben altri, come quelli affrontati da Benigni che a un certo punto del suo bell’intervento ha detto che “gli italiani non hanno bisogno della certezza della pena, bensì della certezza della cena”, alludendo chiaramente alla continua perdita d’acquisto dei nostri salari.
Poi spengo le luci e vado a letto.
A dormire, o a provarci.
Nella penombra, penso a tante cose.
Penso che mi è piaciuta più la canzone di Marco Carta di quella di Povia.
Cavolo, non sarò mica gay?
Mario Pulimanti (Lido di Ostia -Roma)

lunedì 16 febbraio 2009

"Fra un anno alla stessa ora" con Pietro Longhi, al Teatro Nino Manfredi



Regia: Silvio Giordani
Attori: Pietro Longhi Isabel Russinova Tito Manganelli Da: martedì 17 febbraio 2009 A: domenica 1 marzo 2009 Autore: Bernard Slade Regia: Silvio Giordani Compagnia/Produzione: Teatro Artigiano Cast: Pietro Longhi, Isabel Russinova Descrizione Fra un anno alla stessa ora… l’ ora dell’ amore. La deliziosa commedia di Bernard Slade ci racconta gli incontri clandestini di due amanti che hanno preso l’abitudine di vedersi una volta all’anno nello stesso motel dove hanno fatto l’ amore la prima volta. Lo spettacolo ha inizio con i protagonisti George e Doris che si incontrano per caso in un ristorante, e si ritrovano in una stanza di albergo per una notte d’amore. Entrambi sposati con figli, entrambi benestanti, la mattina si trovano oppressi e devastati da un grande senso di colpa. Tanto da decidere di rivedersi il prossimo anno, lo stesso giorno, alla stessa ora nello stesso motel, nella stessa camera. In sei grandi quadri, dal 1951 al 1976, questo rituale si ripeterà ogni anno, alla stessa ora, presso lo stesso albergo ed addirittura la stessa stanza. Lo spettacolo, in due atti, è suddiviso in sei ampi quadri, e ripercorre in maniera coinvolgente quella che è la storia dei protagonisti tra dubbi, incertezze, paure e colpi di scena. La scena è sempre la stessa, la camera d’albergo, che vede i due protagonisti cambiare di anno in anno ed essere testimoni del periodo che stanno vivendo, il cambiamento riguarda soprattutto Doris e lo si nota attraverso il suo abbigliamento: da giovane signora sposata da qualche anno e benestante, a figlia dei fiori, per arrivare poi alla fase di donna quarantenne manager in carriera ed infine donna di mezz’età e bellissima nonna. George, nello stile, è più costantemente legato alla figura di uomo benestante, con un abbigliamento sempre elegante. Il cambiamento si nota però caratterialmente: da giovane uomo ingenuo che dichiara il suo amore candidamente ad una donna conosciuta la sera prima, si ritrova tra alti e bassi a vivere la dolorosa scomparsa del figlio e addirittura a parlare telefonicamente con il marito della sua amante e a far da paciere ad una crisi in atto tra la coppia. Nei loro incontri annuali Doris e George ci raccontano la loro vita che è anche un po’ la nostra vita. Con una comicità incalzante e sofisticata, l’autore narra lo scorrere della relazione tra i due innamorati. La commedia diverte ed emoziona soprattutto per la forza introspettiva e la sintesi con cui riesce a registrare l’intero arco di un’esistenza: figli che nascono, dubbi, ripensamenti, abbandoni, slanci e situazioni tragicomiche. Su tutto l’effetto disgregatore che il tempo esercita su persone e sentimenti. Ci ritroveremo, così, sempre maggiormente coinvolti a vivere con George e Doris una bellissima e particolare storia d’amore. “Fra un anno alla stessa ora” è soprattutto un’appuntamento d’amore. Amore anche per il teatro, così straordinario quando manda in scena lo spettacolo della vita. Da sottolineare la bravura dei due attori, Pietro Longhi ed Isabel Russinova, che già hanno avuto l’occasione di lavorare assieme in “Come uno scandalo al Sole” di Roberta Skerl.

venerdì 13 febbraio 2009

Le ore della notte


Lavoro troppo, sono sottopagato e socialmente disadattato.
E sono un paranoico ipocondriaco.
Se per caso sento un dolorino al braccio, penso di essere sull’orlo dell’infarto anche se il braccio è quello destro.
Certi disturbi comportamentali non spariscono così, in un amen.
Simonetta e Alessandro sono andati da mia suocera.
Gabriele è uscito con gli amici.
Accendo la tivvù.
C’è un dibattito sulle sette.
Così vengo a sapere che i capi di queste associazioni esercitano un controllo assoluto sugli adepti, che sono tenuti a rinunciare al loro passato. Scelgono preferibilmente individui vulnerabili e giocano sulle loro insicurezze. Cercano in preferenza soggetti solitari e li convincono ad abbandonare gli amici e la famiglia. Gli adepti cominciano a vedere in loro l’unica fonte di sussistenza mentale. Fare il leader di una setta è molto impegnativo: devono mantenere un controllo ininterrotto sugli adepti, intuire i dissensi e stroncarli sul nascere. Quindi, qualora possano sussistere influenze esterne per strada o in luoghi pubblici, rimangono particolarmente cauti. Nel loro ambiente, al contrario, sono più rilassati. I leader di una setta detengono il potere al cento per cento; sono loro a stabilire come gli affiliati trascorrano ogni minuto del loro tempo. Assegnano loro compiti di ogni genere, anche solo per tenerli impegnati ed evitare che abbiano tempo libero, tempo per pensare. I capi-setta si creano la loro etica, definita esclusivamente in base a ciò che è bene per la setta e per mantenere in vita il culto; leggi e moralità esterne sono irrilevanti. Loro convincono i seguaci che è eticamente giusto fare ciò che loro dicono, o suggeriscono loro di fare. E’ perciò pericoloso affidarsi a questa sette organizzate. Ci rimetti troppo: non ti lasciano pensare come vuoi. Ti controllano. So che sembra stupido, ma non mi piace l’idea di predatori che approfittano della vulnerabilità altrui. Sette. Comunque sia, le sette non vanno confuse con le religioni. Religioni. Per molti la religione non ha una posizione centrale nella loro vita. Sì, celebrano Pasqua e Natale, anche se in quei casi i simboli delle feste sono un coniglio e un ometto allegro vestito di rosso. Queste persone preferiscono trasmettere ai figli la propria etica: regole solide e incontrovertibili, comuni quasi a ogni fede e hanno la fastidiosa sensazione che la religiosità portata all’estremo possa essere molto pericolosa. Hanno una filosofia di vita sorprendentemente semplice: non credono nel bene e nel male, tantomeno in Dio e Satana. Per loro, queste sono astrazioni che distraggono dalla realtà.
Improvvisamente un rumore mi allontana da queste meditazioni.
Riesco a recuperare i popcorn dal forno a microonde un attimo prima che si trasformino in un’arma di distruzione di massa, com’è successo la settimana prima. Bevo un sorso di passito. Vino da meditazione.
Mi avvicino la mia piccola pila di quotidiani e settimanali, dando un’occhiata alla foto di Nicole Kidman.
Ho comprato un pollo in rosticceria. Ma quando lo guardo, il mio stomaco si rivolta. Lo metto in frigo per domani, preparando al suo posto un gin tonic bello carico.
Prendo fiato e ne mando giù un sorso. Mah. Forse per oggi può bastare
Il mio stomaco non gradisce nemmeno quello, ma il cocktail mi aiuta a eliminare un po’ di tensione.
E infatti quando lo termino mi metto a sbadigliare.
Incoraggiato da questo fausto presagio, mi dirigo in camera da letto.
Mi spoglio, lasciando cadere i vestiti dove capita.
Poi mi infilo sotto le coperte e spengo la luce.
Sospiro, rassegnato a un’altra notte insonne.
Intanto penso.
Ricordi, sensazioni, cose così…Non so perché.
Collevecchio. Ripenso a un giorno di primavera. Mi trovo nell’impossibilità di distinguere la fantasia dalla realtà. Oltre il Parco della Rimembranza, ai margini del cimitero, il mare delle vette d’albero che ondulavano al vento. La fragile luminosità pomeridiana s’incupiva e rischiarava sugli occhi di mia madre secondo il passaggio delle nuvole. E poi, oltre la linea dei campi, il rumore dei trattori che transitavano cigolando a brevi intervalli.
Un altro debolissimo ricordo mi attraversa la memoria, un esile guizzo reminiscente… Erano i tempi di Jimi Hendrix e Janis Joplin. Non vedevo l’ora di andare all’università; per quanto mi riguardava, era lì che la vita diventava davvero emozionante, a differenza del noioso e vecchio liceo. Sacro Cuore dai salesiani, al ginnasio e Socrate, al liceo. In questi posti mi trattavano ancora come un ragazzino e nessuno si interessava a quello che pensavo del mondo. All’università sono diventato un vero studente. Partecipavo alle manifestazioni di GS e a cose di quel tipo.
Ricordo i miei primi giorni di lavoro. Neoassunto e infimo nella gerarchia. Con uno zelo da ultimo arrivato profondevo su quelle antiche pratiche settimane di fatica, e ancora mi stavo arrovellando su quali fossero necessarie e quali superflue quando mi chiamarono dalla direzione e mi dissero che c’era un lavoro importante di un collega in malattia. Io avrei dovuto sostituirlo, il che comportava la piacevole incombenza di redigere relazioni su prestigiosi istituti di ricerca italiani.
No, non devo pensare.
Smetto di farlo.
Devo avere la mente vuota.
E’ quello il trucco.
Se non avessi niente a cui pensare, non ci sarebbe niente che mi tenga sveglio. Immagino un immenso campo di grano, mosso dal vento, circondato da un alto recinto. Fuori dal recinto ci sono milioni di pensieri: la famiglia, il lavoro, i soldi, eccetera eccetera. Ma il mio recinto è troppo alto, troppo solido, e io non li lascerei entrare.
Sono proprio sull’orlo del sonno, pronto a caderci dentro senza riserve, quando il telefono squilla.
“Pulimanti.”
“Mario? Vedo che sei ancora sveglio.”
Batto le palpebre per un paio di volte. Per quanto brami il sonno, ci sono cose più importanti.
“Ciao, mamma. Va tutto berne?”
“Va tutto a meraviglia, Mario. Non è che ti ho svegliato vero? So che sei un animale notturno e dopo le ventitré le telefonate costano meno.”
Sbadiglio. “Sono sveglio. Lo sai che puoi chiamarmi quando vuoi, mamma.”
Poi parliamo del più e del meno.
Poi riattacca.
Adesso il sonno è lontanissimo.
Ricordo mio padre. Per poco non mi usciva di bocca una parola che non pronuncio da diciassette anni. La prima in assoluto che ho imparato a formulare, quando ancora non ero nemmeno capace di stare in piedi. Da quando è morto, nella pasquetta del novantadue, non mi sono più capacitato dal non riuscire più a rivederlo davvero. Papà. Piango, tanto non mi vede nessuno.
Ma mia madre…la mamma è tutto per me. E’ stata la mia migliore amica, la mia giuda, la mia eroina. E’ stata lei la ragione che mi ha fatto essere quello che sono ora.
Alle madri non dovrebbe essere permesso diventare vecchie e fragili.
Scaccio con decisione quel pensiero dalla mia testa, per evitare di scivolare nella svenevolezza.
Nel frattempo, rientra Gabriele.
“Dove sei stato” gli chiedo quando entra in soggiorno con i suoi jeans chiari e una maglietta rossa. Ha gli occhi un po’ stanchi, ma a parte questo sembra che stia bene. “Che bella accoglienza” replica. “Vuoi rispondermi?” “Se proprio lo vuoi sapere, sono stato al Boa.” “Dove si trova?” “Vicino al Pontile”. “E che succede lì?” “Non succede un bel niente. C’è birra buona. La gente canta canzoni e si diverte.” “Puzzi di fumo.” “E’ un pub, papà. La gente fuma. Senti se hai intenzione di assillarmi in questo modo, me ne vado a letto. Devo andare all’Università domani, non te lo ricordi?” E con questa ultima frase Gabriele va a passi pesanti nella sua stanza. Faccio per andargli dietro, ma poi ci ripenso. Per quanto sia agitato, capisco che non è il caso di intraprendere una lunga discussione con mio figlio. Me la vedrò con lui domani. Lo sento fare rumore in cucina, tirare l’acqua del bagno e chiudere la porta della sua camera da letto.
Ormai è impossibile tornare a dormire, malgrado la stanchezza.
Se avessi un cane lo porterei a spasso.
Mi alzo.
Mi verso un dito di cognac.
Nella stanza accanto tutto tace.
Forse con Gabriele ho sbagliato. Ricevuto. Sono stato inescusabilmente malaccorto. Chiaramente.
Vado in bagno.
Decido di uscire, anche se è molto tardi.
Esamino mentalmente il mio guardaroba.
Il vestito migliore è di Armani. Normalmente non posso permettermi abiti firmati, infatti questo l’ho comprato in un outlet. Quello di Ponzano Romano. Il prezzo era comunque alto, nonostante lo sconto, però quando lo indosso mi sento molto più sicuro di me.
Poi ci ripenso, e torno a letto.
Quando finalmente arriva il sonno, arrivano anche gli incubi.
Mario Pulimanti (Lido di Ostia -Roma)

lunedì 9 febbraio 2009

Eluana Englaro


Eluana Englaro, la donna in stato di coma vegetativo da 17 anni, è morta nella clinica La Quiete di Udine dove era ricoverata. La conferma della morte di Eluana Englaro è arrivata dalla presidente della Quiete, Ines Domenicali. "È morta, non so dire l’ora. Non chiedetemi altro". Poi, a comunicare che è morta alle 20:10, è stato il primario di rianimazione Amato De Monte. Prima che Eluana morisse, avevo scritto queste riflessioni. Molti dicevano che Eluana era morta diciassette anni fa, e che ognuno ha il diritto di disporre di sé e della propria vita. Ma da quando Eluana è stata trasportata di notte da Lecco a Udine per morire, ecco che tutto cambia: si viene a sapere che per morire ci metterà da due a tre settimane, che sarà necessario somministrare dei sedativi - perché non possiamo essere sicuri che non senta dolore - e che ci vorrà un'équipe di medici e di volontari per assisterla. Allora, anche chi non aveva voluto informarsi seriamente, chi pensava che si trattasse semplicemente di un caso di accanimento terapeutico, comincia ad avere dei dubbi: il fatto che questa donna sia viva e non tenuta in vita da macchine, che non sia una paziente moribonda, balza finalmente agli occhi di tutti. Non sono più le parole di un medico contro un altro, ma è la realtà che parla. Così pure l'ammissione - anche da parte del neurologo Carlo Alberto Defanti, medico curante solidale con il padre - che non sappiamo se soffrirà o no, fa capire come in fondo, a proposito dei livelli di consapevolezza di Eluana, non si possa escludere nulla. Sempre in questi ultimi giorni, il tentativo del procuratore della Repubblica di Udine di riaprire il fascicolo relativo alla sentenza del tribunale lombardo che ha accettato la tesi del papà di Eluana non ha avuto esito, ma è servito a dare voce a nuovi testimoni, non ascoltati nel procedimento, importanti e attendibili. In sostanza, emerge con chiarezza che la sentenza alla fine favorevole alle ragioni del padre sia, a dire poco, controversa. Questo fatto, naturalmente gravissimo, mostra come sia difficile, se non impossibile, appurare le intenzioni sulla propria vita non espresse per scritto, davanti a testimoni, in modo chiaro e indiscutibile. E senza aprire il problema di un possibile cambiamento qualora ci si trovi in condizioni di malattia, già solo le difficoltà di accertamento della volontà fanno comprendere a quale fragile e inconsistente filo sia legata l'utopia della libertà di disporre della propria vita. Privata della protezione di una legge che la consideri essere umano anche nelle condizioni di stato vegetativo persistente, che non la lasci in balia dei desideri - se pure dolorosamente comprensibili - dei familiari provati dalla disgrazia, Eluana viene condotta a una morte che si avvicina molto più all'eutanasia che al rifiuto di cure sproporzionate. Questo caso, lacerando l'Italia e costringendoci a riflettere, ha messo in luce tutte le ambiguità che stanno dietro le ideologie, in apparenza pietose, della morte dignitosa e della libertà di disporre della propria vita. E fa capire, più di mille discorsi, quale può essere la deriva di una società che decide chi non è più "degno di vivere" promuovendone la morte, una società per cui la morte diventa un confine convenzionale e non naturale, quindi da definirsi attraverso leggi e pareri medici. Il tutto sempre velato dal mito della libertà individuale, che sembra raggiungere il suo apice nell'ottenimento del diritto di decidere della propria fine. Questo discorso risulta poi particolarmente fuori luogo, e giustificato solo dall'ideologia, se lo confrontiamo con il modo in cui si muore nelle nostre società occidentali: chiunque ha assistito un parente gravemente malato sa che fino all'ultimo al paziente viene celata la prossimità della morte, come se fosse qualcosa di indicibile e insopportabile, per lui e per le persone che gli stanno intorno. In genere, oggi si tende a circondare la morte di veli, facendo di tutto per ignorare che si sta per morire: e questa sarebbe la morte dignitosa? Dal momento che la morte è parte fondamentale della vita umana, questa sua rimozione, sulla quale sono state spese tante pagine di storici, sociologi e filosofi - senza però incidere sulla realtà del vissuto - costituisce una prova dell'abbrutimento culturale in cui viviamo. Se non si ha il coraggio di guardare negli occhi una persona cara che sta per morire, dicendo la verità e aiutandola, come si può parlare di morte dignitosa per Eluana? Come possiamo discutere di "disponibilità della vita"? È da lì che dobbiamo cominciare per pensare a una morte davvero dignitosa, senza lasciarci condizionare dalle ideologie di chi vorrebbe decidere per una persona debole, quando non è più in grado di difendersi. Mario Pulimanti (Lido di Ostia –Roma)

venerdì 6 febbraio 2009

Crisi economica e parole al vento


A casa, il letto è scomodo, la mia mente rifiuta di rilassarsi e l’orologio mi sfotte a ogni minuto che passa.
Sono stanco, addirittura esausto, ma i pensieri mi balenano nel cranio e non mi lasciano in pace.
Non c’è niente che funzioni.
Il tempo continua ad avanzare, portandomi con sé.
Quando comincio a sentire una lieve sonnolenza, il sole spunta filtrando dalle persiane e devo alzarmi per andare al lavoro.
Mi alzo e stiro le mie ossa stanche, poi faccio i miei soliti esercizi mattutini.
Due addominali, con l’intento di farne dieci l’indomani.
Tre flessioni sulle braccia, con un proposito simile.
E quindi via con la doccia.
Poi, faccio un rapido giro della casa.
Non ci vuole molto, dato che l’appartamento è grande più o meno come una scatola di biscotti. Però non ha la sorpresa dentro.
Ma non mi scoraggio.
Apro il frigorifero e tiro fuori il portaghiaccio.
Tre cubetti finiscono dentro un bicchiere, insieme a un dito di campari e una spruzzata di gin.
Mi siedo e penso, poi bevo e penso ancora.
Quando il cocktail finisce ne preparo un altro.
Sto sguazzando in una pozza di autocommiserazione.
Guardo il bicchiere semi vuoto che tengo in mano.
Ingollo il resto del cocktail e sto per prepararne un altro, quando mi squilla il cellulare.
E’ Ferruccio.
Mi chiede se posso accompagnarlo da una sua collega.
Le deve riconsegnare un libro.
Lo accompagno, volentieri.
A Casal Palocco lasciano aperta la porta di servizio per far entrare il fresco.
La cosa mi sembra molto strana, ma io sono un uomo di città.
Gli abitanti dei sobborghi residenziali non hanno la mentalità da porta blindata.
Compri una casa da un milione di euro in un bel quartierino e credi che non potrà mai accaderti nulla di male.
Sono quasi le undici quando entriamo nel vialetto di casa Martini, ristretto fra due vecchi pini.
La casa è marrone, a due piani, parzialmente nascosta da alberi e cespugli che hanno bisogno di essere potati.
Il prato è trascurato e coperto di foglie secche, che scricchiolano sotto i nostri piedi mentre ci avviciniamo alla porta d’ingresso.
Daniela ci apre subito, probabilmente ci ha visto arrivare.
E’ di corporatura robusta: aggiungete una cinquantina di chili alle modelle di Armani e vi farete un’idea.
Credo che in termini politicamente corretti si possa definire affetta da una disfunzione ghiandolare o da un eccesso di apporto calorico. Indossa una vestaglia rossa che la riveste come un tendaggio.
E’ truccata in modo semplice ma esperto, i suoi occhi castani ci guardano allegri attraverso il tessuto adiposo della sua faccia.
Il suo triplo mento traballa in un sorriso cordiale mentre ci invita a entrare.
“Scusa il ritardo” le dice Ferruccio “lui è Mario.” Le porgo la mano.
Ci fa entrare.
La seguiamo nel soggiorno dove ci fa accomodare su un divano, davanti a un tavolino pieno di polvere, poi traballa verso la cucina, insistendo per offrirci un caffè.
Ferruccio mi da una gomitata di nascosto. “Un gran pezzo di donna.” E ride di gusto.
Lei torna con due tazze di caffè sopra una scatola di biscotti. Mi porge una tazza.
Ferruccio prende la scatola di biscotti. Pesca qualcosa di appiccicoso emettendo un gemito di soddisfazione.
“Mi dispiace per la casa.” Daniela lascia cadere la propria mole sul divanetto di fronte a noi, che cigola la sua protesta. “La cameriera è influenzata.”
Parliamo del più e del meno. Parliamo dell’aumento del costo della vita. E della diminuzione del potere d’acquisto di stipendi e pensioni.
Lei ci dice che povero è anche chi ha un lavoro sottopagato e se lo tiene stretto: la sopravvivenza è fatta di uno stipendio di mille euro al mese per due persone, secondo il cosiddetto indice di povertà relativa, come è lo stipendio medio, per esempio, di un impiegato. E’ proprio il caso di dire che in Italia ci sono molte persone con pensioni di importo pari o inferiore al minimo, tanti anziani vivono soli. La disoccupazione è l’anticamera della povertà. Ma lo Stato e le varie autorità competenti non potrebbero cercare seriamente di porre un freno a questa triste situazione e, con un brusco testa-coda, provare, una volta per tutte, ad invertire il senso di marcia risolvendo questi scottanti problemi, riportando i cittadini a condizioni di vita più tranquille?
Poi cambia discorso, e ci parla del papà, morto da poco. I suoi occhi diventano lucidi, poi comincia a singhiozzare. Otto mesi non sono bastati per superare la morte di un genitore. C’è gente che non la supera mai. Come me. Maledetta pasquetta del novantadue. Ma questa è un’altra storia.
Ferruccio, dopo aver condiviso le sue opinioni su Berlusconi, ora condivide un abbraccio con la giovane donna. Lei si calma un po’ e riesce persino a rivolgerci un debole sorriso in mezzo alle lacrime.
Dopo un po’, le diciamo che è ora di andare via.
Lei posa i biscotti sul tavolino e oscilla un paio di volte sul divano, riuscendo a sollevare il suo considerevole peso al terzo tentativo.
La seguiamo nel corridoio, fino a raggiungere l’ingresso.
Poi la salutiamo.
Con la mente lucida, riesco a far partire la macchina al terzo tentativo.
Mentre guido, cerco di togliermi dalla mente l’immagine del dolore di Daniela.
Non ci riesco.
Lascio Ferruccio all’Infernetto e proseguo per Ostia.
Arrivo a casa e passo le successive quattro ore a riflettere.
Papà, mi manchi. Tanto!
Mario Pulimanti (Lido di Ostia -Roma)

mercoledì 4 febbraio 2009

Cancro d'oro

Ho 53 anni.
Non mi sento sono vecchio.
Eppure mi sembrano trascorsi dei secoli da quando frequentavo l'università.
Da quando tutti avevamo degli ideali e credevamo che il mondo potesse cambiare.
Ora non è così.
E io, che a differenza degli altri non sono cambiato, mi sento fuori posto.
Viviamo in una società che dimentica tutto in brevissimo tempo, consumiamo idoli e miti nel volgere di pochi giorni.
In realtà, ciò che vorrei é sentirmi meno inutile.
Vorrei credere che il mestiere che mi sono scelto e i principi in cui credo servino realmente a qualcosa.
Vabbè: a lavorà e a morì c'é sempre tempo.
Nel frattempo, leggo il giornale. Silvio Berlusconi contro i magistrati.
Certi magistrati che "usano il loro potere non a fini di giustizia, ma a fini di lotta politica".
Ascolto la radio.
Foibe.
Cavità scavate dall'acqua e colmate dalla morte.
Una memoria a lungo seminascosta alla coscienza nazionale e che nel 2009 il Comune di Roma intende far scoprire ai propri giovani: la capitale ha stanziato cinquantamila euro per organizzare visite di studenti sul posto.
Bravo Alemanno.
Ascolto il telegiornale.
Oltre cento diverse nazionalità e un alunno su sei che parla un'altra lingua. Le scuole italiane scoppiano di immigrati e nelle pre-iscrizioni per il prossimo anno scolastico si registra un boom per le private, soprattutto materne ed elementari.
La presenza di extracomunitari condiziona le scelte delle famiglie italiane.
Negli istituti paritari si ricorre già alle liste d'attesa. La fuga dalla scuola pubblica è dovuta al sovraffollamento di extracomunitari?
Ritengo, comunque, che il Ministero dell'Istruzione dovrebbe correre ai ripari.
Navigo su internet, a caccia di notizie: é scioccante osservare come la politica sanitaria non sia più sotto il diretto controllo democratico locale.

Ogni cosa è progettata ed organizzata nei minimi dettagli al più alto livello internazionale da quelli che ne traggono profitto:
le industrie farmaceutiche,
il mondo finanziario,
i politici corrotti.

Questi individui, grazie alle loro alleanze e ai mezzi di cui dispongono, tengono il mondo scientifico e quello politico locale sotto una tale pressione che non vi è via di scampo.
Allo stesso tempo i medici e l’opinione pubblica sono sottoposti ad un sistematico lavaggio del cervello, utilizzando tutti i moderni mezzi di quella che potremo definire come "l’industria delle coscienze", ovvero la stampa, la televisione, la radio, internet . Tutto questo è una coincidenza?
O si tratta, invece, di un piano ben architettato ed organizzato.
Mmh...

Del resto, tanto per fare un esempio, il cancro é il più grande affare che sia mai capitato alle industri farmaceutiche.

Trovare una cura che debelli la malattia non conviene a nessuno.

Molto meglio sfornare ogni anno nuove medicine che prolunghino la sopravvivenza dei malati.

Ogni anno escono nuovi protocolli di cura, sempre più costosi, ma di fatto la situazione non cambia.
La mortalità negli ultimi anni é diminuita, ma nessuno é guarito.
Questo che cosa vuo dire? Ho dei sospetti, solo dei sospetti.
Ma, secondo me, ritengo che ci stiano imbrogliando.
Il cancro, tra spese per la ricerca e sovvenzionamento a istituti di degenza, assorbe da solo il dieci per cento di fondi stanziati per la sanità.
Se venisse trovata una cura reale della malattia, un sacco di gente smetterebbe di guadagnare valanghe di soldi.
Viviamo in un mondo in cui la ricerca del profitto é la grande molla che muove ogni cosa.
Preferirei un sonno senza sogni.
Forse mi sono stancato di assecondare la smania di profitto di chi pensa solo ai guadagni dell'azienda passando sopra ogni altra cosa.
Vabbè...non spingerò il confronto oltre l'orlo del baratro.

De profundis clamavi ad te, Domine: Domine, exaudi vocem meam.
Mario Pulimanti (Lido di Ostia -Roma)

domenica 1 febbraio 2009

Cesare Battisti



Sul giornale leggo una notizia.

Mi risulta indigesta come il trapano di un dentista.

Cesare Battisti dal Brasile ha additati i suoi vecchi compagni come i veri autori degli omicidi per cui è stato condannato, definendoli "collaboratori di giustizia e pentiti". Due di loro: Giuseppe Memeo e Sebastiano Masala, più la moglie del terzo, Gabriele Grimaldi, morto alcuni anni fa, hanno risposto a "questa infamia". Il quarto, Sante Fatone non ha replicato perché collaborò con i magistrati. "Consideriamo riprovevoli le dichiarazioni di Battisti che ci ha qualificati come collaboratori di giustizia o pentiti", sostengono Giuseppe Memeo, Sebastiano Masala e Pia Ferrari Grimaldi. "Pensiamo che l'atteggiamento complessivo del personaggio - dicono - non aiuti, a distanza di anni, il dibattito per il superamento di quella tragica storia che tanti lutti e sofferenze ha provocato". Memeo, Masala e Grimaldi, insieme a Fatone, tutti componenti dei Pac (Proletari armati per il comunismo), sono stati condannati a pene variabili per l'omicidio del gioielliere Pierluigi Torregiani avvenuto a Milano il 16 febbraio del 1979, e per altri delitti compiuti dai Pac, ai quali vennero attribuiti gli omicidi del macellaio veneto Lino Sabbadin, avvenuto lo stesso 16 febbraio '79, del maresciallo Antonio Santoro, ucciso a Udine il 6 giugno 1978, e dell'agente della Digos Andrea Campagna, assassinato a Milano il 19 aprile 1978. "A distanza di 30 anni da quei drammatici fatti che ci videro coinvolti e per i quali venimmo condannati -dicono ancora- ci rivediamo ributtati in prima pagina con una falsificazione delle nostre posizioni processuali a dir poco infamante. Ognuno allora fece la scelta che ritenne più opportuna. Noi -aggiungono- non barattammo la libertà con quella degli altri coimputati, infatti venimmo condannati a 30 anni di reclusione ciascuno, a differenza dei pentiti che se la cavarono con qualche annetto di protezione da parte dello Stato". Inoltre, ricordano di avere scontato la pena fino all'ultimo minuto, usufruendo dei benefici previsti per tutti i detenuti dall'ordinamento penitenziario e ammettono che, durante la loro detenzione si è sviluppato un dibattito che negli anni ha portato a una revisione critica da parte dei protagonisti di quella storia culminata in quel movimento conosciuto come della dissociazione, che però ha rifiutato ogni delazione. "Il percorso, cui abbiamo aderito -proseguono- è stato riconosciuto con una legge dello Stato anche in termini di riduzione delle pene. Mai -ribadiscono- abbiamo accusato nessuno davanti a un giudice, al contrario, siamo stati accusati dai pentiti e condannati sulla base di quelle dichiarazioni e delle risultanze processuali". Degne di rilievo sono state, infine, le dichiarazioni del ministro della Difesa, Ignazio La Russa che, commentando proprio queste ultime dichiarazioni di Cesare Battisti che dal Brasile si è proclamato innocente e non responsabile degli omicidi di cui e' stato accusato, ha detto: "Quando mai si e' visto un terrorista assassino che non sia bugiardo?" Anche io la penso così. Mario Pulimanti (Lido di Ostia -Roma)