domenica 22 febbraio 2009

Nessuna pietà



Sono uomo, sono romano.
E abito a Ostia.
Vagare senza meta, senza doveri né obblighi da assolvere, dà una piacevole sensazione di libertà.
La mia unica preoccupazione riguarda le persone che non desidero incontrare, anzitutto rigidi integralisti e falsi amici.
Sono fortunato.
Incontro un'amica.
Ha un cane al guinzaglio.
Pastore.
Puzza.
Appunto.
Del resto non si può impedire a un cane di puzzare di cane.
Incontro un amico.
Ha una bella camminata, sicura, con una certa elasticità, e con i piedi che puntano avanti, non ai lati come le anatre.
Non ho mai trovato attraenti quelle che camminano come anatre.
Ma é triste.
La moglie se n'è andata.
Per sempre.
"Coraggio" gli sussurro.
Cammino finché non mi trovo di fronte a un ampio belvedere che da sul mare.
Oltre la linea dell'orizzonte si staglia netto il profilo di una nave.
Cisterna.
Mi siedo sul parapetto, il vuoto sotto ai piedi.
Rimango per un pezzo a contemplare l'orizzonte.
Entro in un bar.
Mi siedo a un tavolo.
Di fronte a me, un signore.
Anziano.
Ex consigliere circoscrizionale.
Mentre parla in un tono monotono, inevitabilmente mi ritrovo inondato da un oceano di retorica che martella contro scogliere di metafore.
Mi squilla il cellulare.
Un amico mi invita per un aperitivo.
Arrivo a casa sua.
L’atrio è male illuminato, la moquette logora, il riscaldamento appena percepibile.
Vedo uno scarafaggio correre lungo una parete e sparire fondendosi con l’intonaco scrostato.
Preso il drink, lo saluto.
Una buca.
Inciampo.
Torno a casa imprecando contro tutti gli dei.
Pranzo.
Più tardi, leggo.
Sul divano.
Prendo in mano il libro che sto leggendo, ma le parole sembrano scivolare via dal foglio.
"Mario, vado al cinema con Silvia e Liliana".
Simonetta si allontana.
Quando scompare, mi guardo intorno.
Non c'é nessuno.
Gabriele ha raggiunto un amico.
Alessandro é andato all'oratorio.
All'improvviso, però, la mia mascella prende a tremare.
Le labbra fremono.
Il mento si corruga e infine, pur tentando di tenerla chiusa, apro la bocca in uno sbadiglio.
Poi sbatto le palpebre.
Prima ancora di chiudere gli occhi, tuttavia, sprofondo nell'incoscienza.
Il sonno mi avvolge completamente, privo di sogni e punti di riferimento.
Un sonno così somiglia all'eternità, senza nulla che aiuti a misurare il trascorrere del tempo, senza una traccia che indichi la vastità dello spazio, dove un singolo istante non é molto diverso da un miliardo di anni e un atomo é grande quanto l'universo.
Tutte le diversità della vita, il piacere e il dolore, si dissolvono in un'unità primordiale, che abbraccia ogni cosa, persino il nulla.
E' a questo che somiglia la morte?
Poi all'improvviso, mi sveglio.
Nella stanza la luce si colora del rosa pallido del tramonto.
Guardo a lungo il soffitto, non riesco ad alzarmi.
Accendo la tivvù.
La giornalista sorride e un attimo dopo apprendo che nel mese di maggio 2009 i jeans compiranno 136 anni.
Ma non li dimostrano.
A pensarci bene, sono l'unica invenzione umana che sembra non invecchiare affatto.
Spengo la tivvù.
Mentre leggo una rivista dove sono raffigurati dei minatori dell’ottocento al tempo della corsa dell’oro che indossavano dei blue jeans, mi chiedo dov’é la differenza con i jeans indossati oggi.
Mi metto al computer per saperne di più.
Nemmeno il tempo di digitare il nome jeans su un famoso portale e mi trovo subito davanti alla loro storia.
E che storia avventurosa!
Vengo subito a sapere che il tessuto jeans, molto robusto e resistente agli strappi, veniva usato per fabbricare i teloni da imballo e le coperture delle vele.
In seguito, per la sua resistenza, fu utilizzato per confezionare i pantaloni da lavoro degli scaricatori del porto in partenza da Genova per l'America.
E così nell'ottocento, con le grandi emigrazioni, la tela Blu di Genova (tela jeans vuol dire infatti tela Genova) arrivò negli Stati Uniti d'America, dove venne utilizzata per realizzare gli abiti dei cercatori d'oro.
Nient'altro ha resistito così bene alla prova del tempo.
Il jeans, nato a Genova, difatti fu migliorato in America, ma da un emigrante europeo: il bavarese Levi Strass al quale bisogna dare atto di aver capito che quelle brache pratiche ma poco eleganti potevano essere migliorate.
E i miglioramenti che lui vi apportò sono quelli che le hanno rese immortali.
Egli cominciò a realizzare dei grossi pantaloni in tela robusta per i cercatori d'oro, delle tute color marrone, senza passanti nè tasche dietro, e presero il numero in codice 501, che resiste tuttora.
E, anche se non era stato lui a inventarli, fu comunque lui a trasformarli in un capo praticamente indistruttibile grazie a quei rinforzi alle tasche e alla ribattitura lungo le cuciture laterali.
Levi Strass presto li trasformò nella divisa del West, tanto che alla fine dell'ottocento, in America, il tessuto jeans diventò sinonimo di pantaloni.
E Levi Strass, che vide l'America vestire i suoi jeans, non avrebbe comunque mai immaginato che sarebbero diventati la divisa dei giovani di tutto il mondo, che avrebbero resistito negli anni al succedersi delle mode, senza mai tramontare: divisa dei lavoratori, delle classi più povere e rudi, poi divisa dei giovani ribelli negli anni Cinquanta, dei contestatori anni Sessanta-Settanta, e infine capo alla moda presente su tutte le passerelle.
Oggi, i Levi's non sono più l'unica marca di jeans nel mondo, ma rimangono la marca più universalmente nota e desiderata.
Neanche l'assedio di famosi sarti come Calvin Klein e Ralph Lauren ha diminuito il loro dominio sul mercato mondiale.
Ed ora, che siamo nel 2009, i vecchi jeans si meritano un brindisi: ai prossimi 136 anni!
Chissà, forse nel 2144 saranno di nuovi i cercatori d'oro a indossarli.
Su altri pianeti.
Spengo il pc.
Accendo lo stereo.
Lester Young.
Penso all'ufficio.
E a certi colleghi.
Fortunati e con incarichi.
Mmh...e poi dicono che le conoscenze non servono!
Smetto di pensare.
Non lascio che mi si guasti il buonumore.
Esco.
Il cielo è diventato un’enorme cappa nera che si estende in tutte le direzioni.
Guardo su, cercando di vedere le stelle attraverso lo smog.
Non ci riesco.
Per quello che ne so, potrebbero anche non esserci più.
Ma so che ci sono.
Sono anni che non vedo le stelle.
A Ostia lo smog è così fitto che le cancella.
Mi domando che senso ha tutto quanto.
Nessuno è felice.
Ogni giorno porta altre seccature, altri problemi, altro dolore.
E se riesci ad evitare il cancro, l’Aids, le droghe, gli incidenti d’auto, i malevoli interventi di Dio, c’è sempre la possibilità che uno barellato ti picchi, stupri tua sorella, o rapisca i tuoi figli e ….mmmh, meglio interrompere subito questi mie tristi elucubrazioni mentali.
Mi é passata la voglia di passeggiare.
Torno a casa.
Ceno.
C’è una bottiglia d’amaro nel mobile della cucina.
Dato che di dormire non se ne parla, mi attacco alla bottiglia finché non crollo.
Riesco a malapena a raggiungere il letto.
Simonetta brontola sospettosa quando annusa il profumo di rabbia che mi é rimasto sulla pelle.
Mi sento troppo stanco per dare spiegazioni o per prenderla in giro.
Le volto la schiena.
Poi scivolo in un sonno agitato.
Mi sveglia il dolore.
Dolore alla testa.
Dolore al cuore.
Dolore emotivo.
Sono quasi le nove.
Il mio stomaco sta ballando il mambo, protestando per tutto l’alcol che ho ingurgitato.
Butto due Alka-Seltzer in un bicchiere d’acqua e lo bevo prima che sia sciolto del tutto.
Mi sento disintegrato.
Mi sento come se fossi stato preso a botte fino allo sfinimento.
Ci sono pezzi di me che continuano a cadere.
Scoppio a piangere lacrime meritate e, in un certo senso, benefiche.
Ma ora basta.
Ho la sensazione che è solo una totale perdita di tempo inseguire questi pensieri.
Mi hanno fatto nero.
Ho tanto bisogno di fermarmi.
Allora, esco.
Entro in un bar.
Prendo un caffè.
Il momento è passato.
Nessun problema: ora sto meglio.
Non c’è nient’altro da pensare. Non ho nient’altro da dire.
So long.
Mario Pulimanti (Lido di Ostia -Roma)

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