lunedì 30 aprile 2012

Oltre l'orizzonte

OLTRE L'ORIZZONTE Grido. Grido senza sentire la mia voce. Schegge di consapevolezza mi lacerano dall'interno, graffiando il torpore stagnante della mia mente. Sono in trappola. Compeltamente in trappola. E non so come uscirne. Mi sento come un pesce nella rete di un pescatore esperto che non ha fretta di agguantare la preda. Sì, sono in trapopola. Più di quanto lo sia mai stato in vita mia. Sento i pensieri rimbombarmi in testa, tutt'intorno, trasportati da una strana eco che non riesco a riconoscere. Il nulla mi circonda o è dentro di me? Un alito di vento mi accarezza il viso, leggero come un sussurro. Sta accadendo qualcosa... Un angelo. Simbolo di libertà. Lo vedo avanzare come in un sogno. Bianco, candido, puro. Talmente splendente da riflettere i raggi del sole. I suoi movimenti aggrazziati non tradiscono la minima incertezza. Per un attimo vorrei essere come lui. Ora che lo vedo così da vicino, é più bello di quanto vorrei. Il suo sguardo è troppo dolce e profondo per non fare male. Mi lascia senza fiato. "Era un pò di tempo che ti stavo aspettando" sembra dirmi. "Dove sei stato tutto questo tempo?" Taccio. Non ho parole per rispondere alla sua domanda. Ma solo un semplice gesto. Una carezza. Un gesto che suona come un: "Lo so...mi dispiace averti fatto attendere così a lungo..." O che forse, non ha altri significati oltre a quello della sua estrema naturalezza. Il luogo non ha nessuna importanza...non l'ha mai avuta. Finalmente me ne rendo conto. Lascio che i pensieri dell'angelo apparso di fronte a me crescano, saturino l'aria. Li trovo bellissimi. Armoniosi come uno spartito di note invisibili. E non posso fare altro che ascoltare. Quando l'essenza delle cose riesce a sfiorarti, é sufficiente lasciarsi prendere per mano senza voltarsi indietro. Senza tormentarsi sulla causalità di un incontro. O di un addio. Ora ho le chiavi per abbandonarmi alla carezza del vento. Oltre l'orizzonte. E non posso smettere di sorridere. Mario Pulimanti (Lido di Ostia -Roma)

martedì 24 aprile 2012

ESULI ISTRIANI DIMENTICATI

ESULI ISTRIANI DIMENTICATI Per lungo tempo la storia dopo averlo rimosso per anni, ora considera un fatto minore l’esodo giuliano-dalmata, con migliaia di esuli che, dopo la firma del Trattato di Parigi del 10 febbraio 1947, lasciarono i territori consegnati all’esercito del maresciallo Tito, per cercare rifugio in Italia, fuggendo dalla pulizia etnica e dalle foibe. La storia ci dice che l’Italia fascista prima e la Jugoslavia di Tito poi sono crollate. La prima dopo poco più di vent’anni, la seconda dopo il ’45, a dispetto delle loro politiche aggressive e razziste, con le quali avevano conquistato e difeso i loro confini, offeso gli abitanti della regione che non erano i propri. Una politica di apertura, di dialogo e conciliazione, di rispetto e difesa reciproci, avrebbe dato di più a tutti. Con la fine della guerra i titini invasero tutta la regione e finirono il lavoro iniziato nel 1943: si calcola che almeno 5-6mila siano stati gli italiani infoibati, che contando gli scomparsi non rientrati ed i deportati, nel complesso circa 20.000 furono le vittime di questa pulizia etnica mossa con sparizioni, infoibamenti in Istria e gli annegamenti con una pietra al collo in Dalmazia. Tutto questo derivò da una serie di ragioni: odio etnico contro gli italiani, voglia di conquista e l'instaurazione di un regime decisamente dittatoriale di stampo sovietico e repressivo come quello stalinista in URSS. Ragioni di politica internazionale e interna hanno impedito che si facesse piena luce ai drammi e alle sofferenze di quelle pagina di storia. Ma è incredibile che ancora ad oggi la burocrazia italiana non sia stata in grado di garantire a queste persone diritti di cittadinanza, come ad esempio un codice fiscale. La Resistenza può contare su dei libri di storia molto belli, il dramma dei giuliano- dalmati no. Del resto la Resistenza è diventata un luogo mitico-simbolico della nostra storia grazie alla grande narrativa dei vari Bassani, Cassola, Vittorini, Pavese. Perché è la grande narrativa che entra nel cuore della gente. La vicenda degli esuli, invece, è prima di questa drammaturgia che ha portato alla macro-rimozione della tragedia degli esuli. Una rimozione dai libri di storia e dalla nostra identità. E’ assurdo che la storia degli esuli dalmati sia stata dimenticata per oltre mezzo secolo. Mario Pulimanti (Lido di Ostia –Roma)

lunedì 23 aprile 2012

profondo come il mare

PROFONDO COME IL MARE Lunedì mattina Giovanni sente i postumi dell’alcol. E’ un uomo con la barba, un modo di fare spigliato, cinque figli piccoli e un occhio attento alle signore. Alle 12 ha una importante riunione e sta riguardando gli appunti sulla sua relazione con angoscia crescente. Alle nove Fiorella gli ha portato una tazza di caffè nero e bollente: lei lo capisce sempre e di solito glielo fa notare. E’ in piedi dalle sette, ha preparato la colazione ai ragazzi, lavato camicie e camicette, rifatto i letti, passato l’aspirapolvere nelle camere e in questo momento si sta infilando il cappotto nell’ingresso. Sporge la testa nello studio. “Tutto bene?”. Giovanni s’infastidisce a sentirselo ricordare. “Devo prenderti qualcosa al supermercato?” Sembrano vivere in un perenne stato di belligeranza, fissandosi l’un l’altra dai due lati di un confine che da tempo è oggetto di dispute. Fiorella! Fiorella! Quanto vorrebbe poterle parlare. “No. Niente, grazie. Senti, Fiorella, tra poco esco anch’io. Puoi aspettare cinque minuti?”. “No. Devo andare. Ci sei a pranzo?”. A che cosa serve? “No. Mangio qualcosa fuori”. Sente la porta sbattere fragorosamente e la guarda camminare spedita fino alla fine della strada e sparire alla sua vista. Va in cucina, si riempie un bicchiere d’acqua fresca e vi lascia cadere dentro due compresse di aspirina solubile. Poco dopo sale in macchina, pronto per la sua riunione. Sono le sei del pomeriggio quando esce dall’ufficio. Il traffico sta diminuendo e il viaggio verso casa è scorrevole. Apre al porta e appende il cappotto. Che strano odore. Gas? “Fiorella?”. Lascia la sua valigetta nello studio. “Fiorella?”. Si dirige verso la cucina. Adesso l’odore del gas è più intenso. Giovanni ha la bocca completamente secca e la sua voce tradisce il panico. “Fiorella!”. La porta della cucina è chiusa. La apre. L’odore nauseabondo del gas lo colpisce con un urto quasi materiale. La testa di Fiorella è appoggiata sullo sportello del forno. Apre la finestra. L’odore è ancora fortissimo e nauseante e sente il vomito salirgli in gola. In quel momento capisce che è morta. Sul tavolino c’é una lettera indirizzata a lui. La prende e apre la busta con delicatezza. “Caro Giovanni, quando leggerai questa lettera io sarò morta. So che cosa significherà questo per te e per i ragazzi, ma ormai ho deciso di farla finita. Ripenso ai primi tempi, quando eravamo così felici. Niente e nessuno potrà portarceli via. Stai vicino ai ragazzi. Spero che tu possa perdonarmi. Fiorella”. Giovanni legge la lettera. La sua disperazione non può raggiungere un abisso più profondo. E’ un uomo spezzato, distrutto. E’ un dolore profondo il suo. Profondo come il mare. E’ una notte scura e la luna è lontana, coperta da nuvole sempre più basse. Rettangoli di luce attenuata dalla tende risplendono in gran parte delle stanze che danno sulla strada e in molte scorge la luce azzurra degli schermi televisivi. Guarda in particolare la casa di fronte. Alza lo sguardo verso il cielo. Sale sul parapetto del davanzale. Si getta di sotto. Muore, stringendo sul petto la foto di sua moglie. Quando i soccorritori gli si avvicinano, sulla fotografia spiccano ancora le tracce delle sue lacrime. Mario Pulimanti (Lido di Ostia –Roma)

sabato 21 aprile 2012

Auguri, Stefano!

Oggi è il compleanno di mio fratello Stefano, che compie 49 anni, essendo nato il 21 aprile del 1963. Auguri Stefano! Inoltre il 21 aprile sarebbe stato anche il compleanno di nonna Jole. Era nata il 21 aprile del 1903 ed è morta il 24 maggio del 1991. Sono ventun anni che non c’è più, ma la ricordo ancora com’era veramente: una donna speciale. Auguri, nonna! Ah, dimenticavo: oggi, secondo la tradizione, è il Natale di Roma: il giorno in cui Romolo, nel 753 a.c., avrebbe tracciato il confine originario della città. Forse questa è una data leggendaria perché sembra che, prima che Romolo tracciasse il famoso solco entro cui far nascere la città di Roma, alle pendici del Campidoglio già ci fosse una piccola comunità. La nascita di Roma, quindi, risalirebbe a prima dell’anno 753 a. c. ma la leggenda, ricca di fascino, non offusca la seduzione di Roma, città eterna, anzi la arricchisce di magia. La data del 21 aprile ha una spiegazione. Nell’antico calendario cadevano in questa data i festeggiamenti in onore di Pale, divinità della fecondità. Le Palilia, così queste feste venivano chiamate, erano comuni a tutte le genti che si incontravano per purificare con fumigazioni, il bestiame e le stalle.Fra le capitali del mondo, Roma è, a mio parere, quella che possiede il patrimonio archeologico di gran lunga più rilevante. Era la prima metà dell’Ottocento quando Stendhal passeggiava estasiato per Roma in cerca della classicità e del colore locale che tanto lo affascinavano. Sono passati quasi duecento anni da allora, il Tevere è sempre più giallo, il Papa si è ritirato dietro le Mura del Vaticano e il romano è rimasto imperturbabile, menefreghista, pacioso e scanzonato come lo definiscono i soliti e vecchi luoghi comuni in bocca a chi non ha avuto la sorte di nascere sotto il cupolone. Ma pochi sono ora i romani, quasi una razza in via di estinzione, in una città imbarbarita e involgarita. Quelli che ancora sono convinti, a ragione, che tutto il mondo è provincia, solo Roma è città. Gli stessi che rimangono indifferenti alle false grandezze, alle mode effimere, al passaggio dei potenti, allo sfavillio delle nuove ricchezze, e definiscono Roma l’unica città rimasta attraverso i secoli indipendente e sovrana perché ha conosciuto due soli grandi poteri: l’Impero e il Papato. Buon compleanno Roma!

mercoledì 18 aprile 2012

Pornografia pesante




PORNOGRAFIA PESANTE

Ciao, mi chiamo Mario.
Mario Pulimanti.
Negli ultimi tempi fluttuo in un mare di dolori fantasma e sensazioni fasulle, create dal cervello per tormentarmi e confondermi.
Sento il solletico di una mosca anche se non c’è nessuna mosca.
Sono sempre più distratto.
Non avverto nulla e mi rendo conto in ritardo al bar che una tazza di caffè bollente mi si è rovesciata addosso e mi sta ustionando.
Sarà perché ho 56 anni?
Comincio a analizzare ogni mio pensiero, cercando qualcosa di anormale o di alterato.
Mi costringo a star sveglio di notte perché ho paura dei miei sogni.
I sogni sembrano reali e non lo sono, e mi rendo conto che sono molto vicini alla pazzia.
E poi, a casa sono un disastro.
Così come, sul versante femminile, esistono le mani di fata, su quello maschile esistono gli uomini veri, quelli da amaro Montenegro, capaci di salvare cavalli ma anche di aggiustare oggetti, di riparare guasti domestici, di lavare i piatti e di cucinare.
Io, ahimé, come molti altri uomini, non appartengono a questa categoria.
In realtà so fare tante altre cose.
Leggo moltissimi libri e me li ricordo.
Credo di cavarmela con la scrittura e malgrado quello che dicono certi miei colleghi, penso di lavorare con impegno e con discreta abilità.
Faccio delle belle fotografie.
E poi quando c’è da bere e da mangiare sono un vero professionista!
Ma, come dice mia moglie Simonetta, in tutto il resto, o quasi, sono un disastro.
E quando dico disastro non esagero.
Perché la mia vita è punteggiata, quotidianamente, da sconfitte imbarazzanti.
Prendiamo la botanica.
Vi dico subito che Simonetta ha il pollice verde.
Ogni pianta che lei mette in casa diventa un baobab.
Io, invece, sono una catastrofe vivente.
Ogni pianta che metto in ufficio muore dopo pochissimi giorni.
Sono l’Attila delle azalee, dei ficus e degli oleandri.
Passiamo alla cucina.
Per sintetizzare il mio rapporto con i fornelli sarò esplicito: non so cucinare nemmeno un uovo al tegamino.
Quando prendo in mano una padella divento Fantozzi.
Confondo il sale con lo zucchero.
Mi brucio le mani quando scolo l’acqua della pasta.
E le poche volte che ho provato a cuocere una bistecca i vicini hanno chiamato i pompieri per via del fumo, che ho provocato nel palazzo.
Poi c’è il bricolage.
Se c’è da attaccare un quadro mi prendo a martellate da solo.
Se devo bucare una parete col trapano mi ritrovo nel salotto dei vicini di casa.
Non parliamo dei miei maldestri tentativi quando c’è da sturare un water: provoco un maremoto e allago l’appartamento.
Se cerco di aggiustare una presa elettrica faccio saltare la corrente in tutto il quartiere.
E pensare che ero stato sul punto di rifarmi da solo l’impianto elettrico di casa.
Già, prima che i miei, saputolo, fuggissero in una sperduta isola dell’Oceano Indiano.

Un ottimo motivo per cambiare subito idea e chiamare l’elettricista di fiducia, certo!
Da solo non riesco a mettermi un cerotto al dito.
E se prendo in mano un tubetto di attaccatutto resto per tre giorni con il pollice incollato all’indice.
Piuttosto che cambiare una gomma della mia automobile, vendo l’automobile.
Perché potrei restare lì, a combattere col crick, per intere settimane.
Impazzisco quando c’è da registrare qualcosa in Tv usando il timer.
Se decido di registrare un film mi ritrovo sul nastro un documentario sulla vita delle renne nella Lapponia orientale!
A Pasqua sono andato a trovare mia suocera a Collevecchio, un paesino di campagna.
Ho fatto tutto quello che c’era da fare: zappare, potare, ripulire, non dovevo avere rimorsi di essere accusato di stare seduto con le mani in mano.
Senza scompormi, vi avviso che mi sono tagliato un dito.
Ho acceso il fuoco nella sala da pranzo: è stato purtroppo necessario l’intervento della Protezione Civile.
Ho sbagliato, a quanto pare.
E a mia moglie che mi inseguiva facendo dondolare pericolosamente l’accetta che teneva in mano, fischiettando allegramente le ho fatto presente che doveva, invece, premiare il mio piccolo sfoggio di zelo.
Anche se, tuttavia, non è passato inosservato e ha fatto qualche danno.
Vero, posso però dire che mi sento più a mio agio con penne e matite.
In fin dei conti, nessuno è perfetto!
Arrivo a Ostia.
Entro in una libreria.
Acquisto “La regina di Pomerania e altre storie di Vigàta” di Andrea Camilleri e “Le Beatrici” di Stefano Benni.
Poi,incuriosito dalla copertina acquisto anche un racconto pornografico di Tinto Brass “Elogio della donna erotica” .
Prendo il bus.
Arrivo al portone.
Entro.
Salgo le scale.
Incontro Alex.
Vicino a lui, una coppia di condomini.
Li saluto.
Poi Alex ed io entriamo a casa.
Chiudo bene la porta d’ingresso.
“Che cos’hanno quei due che non va?” chiede Alex.
“Niente di nuovo, no?” dico io.
“Quasi non si rivolgono la parola”.
“Tutte le coppie sposate prima o poi finiscono così”.
“Ma una volta era diverso”.
“Bé, tu non sei di grande aiuto”:
“Neanche tu”.
“Cosa vuoi dire?”.
“Ma sta’ zitto!”.
“Sei un idiota papà”.
In questo periodo le conversazioni tra di noi di rado durano più a lungo.
Sarà per colpa dell’età dello sviluppo…
Faccio una doccia.
Bevo un bicchiere di cognac.
Poi la grande decisione.
Debbo dedicarmi al bricolage domestico.
Mi sento felice, più felice di quanto non mi sia sentito da molti giorni e molte ore.
Non so cosa mi spinga, dopo sei mesi di buoni propositi e tergiversazioni, a riparare il buco sbrindellato sopra la porta della cucina nel punto in cui l’elettricista ha portato i fili per un nuovo allacciamento.
Comunque, va tutto per il verso sbagliato sin dal primo momento.
Lo stucco in polvere, comprato quasi due anni prima, si è indurito come un blocco di cemento e la rudimentale scaletta che ho in casa non è mai stata stabile sulle sue gambe traballanti.
Ma qualunque sia stato il motivo del mio improvviso bisogno di riempire quel maledetto buco, sprofondo in verticale dalla cima della scala, come un paracadutista in caduta libera.
Cado sul piede destro con dolore lancinante, resto a terra per un paio di minuti con un senso di nausea, asciugandomi il sudore freddo che mi si forma sulla fronte, e finalmente zoppicando riesco a raggiungere la sala da pranzo dove, con il fiato grosso, mi siedo sul divanetto.
Dopo un po’ il male si attenua e mi sento alquanto rassicurato, ma mezz’ora più tardi compare il gonfiore mentre fitte strazianti e improvvise mi tormentano il collo del piede.
Riuscirò a guidare?
So che è assurdo solo provarci.
Sono le sette di sera di mercoledì 18 aprile.
C’è solo una cosa da fare.
Arrancando e barcollando raggiungo il telefonino e chiamo Gabry.
E, nel giro di mezz’ora, mi ritrovo a sedere sconsolato nella sala d’aspetto del pronto soccorso dell’Ospedale Grassi di Ostia, in attesa dell’esito delle lastre.
Mi sento un po’ depresso.
Sta pure piovendo.
Alla fine sono visitato da un medico giovane che contempla le mie lastre con tutto l’interesse di un invitato annoiato che dà un’occhiata fuggevole alle diapositive delle vacanze del suo ospite.
“Niente di rotto”.
Mi prescrive un bendaggio e le stampelle fornite dall’ospedale.
Esprimo la mia gratitudine nei confronti del medico e, vacillando esitante, torno da Gabry che mi aspetta.
“Lei” mi grida il medico da dietro le spalle.
“Lei, Pulimanti. Due giorni niente lavoro. Riposo. Ok?”
“Non si preoccupi, grazie” dico.
“Lei, Pulimanti. Vuoi guarire, eh? Niente lavoro. Due giorni. Riposo. Ok?”
“Ok”. Oh, Signore!
Ritorno a casa.
Dopo che Gabry se ne è andato, resto a sedere con le mani congiunte davanti alla faccia, le punte delle dita che si toccano e gli occhi chiusi, come se pregassi una benevola divinità di gettare una luce sul mio sentiero oscuro.
Ma, sia pur senza volerlo, ho da tempo fatto la tara all’idea che esista un qualsivoglia agente sovrannaturale.
Sto solo pescando con pazienza nelle acque torbide della mia mente.
“Dunque?” dice Simonetta appena mi vede.
“E’ molto, molto doloroso. Per via delle terminazioni nervose o qualcosa del genere. Ma in fin dei conti è solo una contusione” rispondo io.
“Bè, anche se non te lo meriti, vado a preparare la cena”.
Mica male, tonnarelli al tartufo, accompagnati da un Chiaranda del Merlo, fermentato in rovere ed affinato in bottiglia!
Mangio con gusto.
Simonetta risponde al cellulare.
Poi si gira lentamente sui tacchi e se ne va.
E mentre sto seduto in cucina con lo sguardo fisso sulle piastrelle bianche mi sento travolgere da un sentimento di disprezzo per me stesso, di solitudine e infelicità.
Sta facendo buio quando finalmente esco di casa.
Salgo sulla mia Ford, esco dal cortile, nel quale le pozzanghere sono ormai quasi asciutte, e giro a sinistra per immettermi a Corso Duca di Genova diretto al teatro Manfredi.
Mentre supero la rotatoria vicino alla posta centrale vedo due persone accanto alla strada con il pollice alzato.
Una di loro è una ragazza, una ragazza carina, per quel che posso giudicare.
Forse anche l’altra è una ragazza.
Difficile dirlo.
Le sorpasso.
Costeggio Regina Pacis.
Parcheggio la macchina.
Ed entro al teatro.
Come dice Giorgio Albertazzi: “Il cinema è bello, ma se lui è la pelle, il teatro è lo spirito”.
Mio padre, il poeta Antonio Valeriano, usava spesso dirci: “Amo l’arte e il bello in generale.
Amo il mare e il suo profumo. Mi piace osservare le stelle. Adoro la campagna dolce di Collevecchio. Amo il cinema. Ma più di tutto amo il teatro, da quando ho memoria”.
E lui, che aveva iniziato scrivendo opere teatrali, ci confessava che il teatro lo attraeva molto, reputandolo una forma letteraria più completa rispetto al racconto e anche allo stesso romanzo.
A mezzanotte sono di nuovo a casa.
Non c’è ancora nessuno.
Vado a letto.
Non riesco a dormire.
Per tutti gli dei, l’unica soluzione è alzarsi e provare a fare qualcosa per distrarmi.
Non ho intenzione di camminare per casa a questa ora del mattino, così accendo l’abat-jour, prendo il libro di Tinto Brass dal comodino e mi appoggio con la schiena sui cuscini per leggere.
Quando la pallida luce dell’alba comincia a diffondersi su Ostia, il libro ormai mi è caduto sul petto e io sonnecchio tranquillo, immerso in un sonno privo di sogni.
Mario Pulimanti (Lido di Ostia –Roma)

venerdì 13 aprile 2012

Di mercoledì




Di mercoledì

Mercoledì.
Sergio, professore universitario.
Entra in casa.
“Sono a pezzi”.
“Hai finito di lavorare all’Università?”.
“Darò gli ultimi ritocchi domattina. E’ colpa di quelle riunioni interminabili. Secondo me dovrebbero durare di meno”.
“Puoi sempre andartene prima”.
“Sì, così mi sostituiscono con un altro”.
“Esagerato”.
“Per domattina finirà tutto”.
“Ok. Comunque domani é facile che piova pure”.
“Bè, un po’ d’acqua non farebbe male: hai visto il prato sotto casa? Pare il deserto del Sahara”.
“Non sei mai stato nel nord Africa”.
La conversazione si arena.
Si siede alla scrivania e prende delle carte.
“Pensavo che stessi guardando la TV”.
“I ragazzi non li sopporto più”.
La guarda con interesse.
E’ prossima alle lacrime.
“Certo” dice “capisco cosa intendi”.
Il suo sguardo si riempie di tristezza, quasi di tenerezza.
Morena, sua moglie!
A volte la tratta con indifferenza, con una grande indifferenza.
Si avvicina a lei e le mette una mano sulla spalla.
“Sono piuttosto insopportabili. Ma non ti preoccupare. A quell’età sono tutti uguali. Sai cosa dico…”.
“Oh, lascia perdere! Hai già fatto tante di quelle promesse in passato! Non me ne importa. Non me ne importa. Per quel che mi riguarda possono andare al diavolo. e tu insieme a loro!”.
Comincia a singhiozzare convulsamente e scappa fuori dalla stanza.
La sente salire in camera, al piano di sopra e, tendendo le orecchie, sente che i singhiozzi continuano.
Si prende la testa tra le mani.
Deve fare qualcosa e deve farla in fretta.
Corre il rischio di perdere davvero tutto.
Anzi, magari l’ho già perso…
Sarebbe stato un enorme sollievo averla fatta finita tanto tempo prima, e soprattutto liberarsi dalla rete di bugie e inganni che ha tessuto intorno a sé.
La coscienza.
Maledetta coscienza.
Alimentata da un’educazione raffinata.
Fatale.
Anche se personalmente non è credente, ammette la verità empirica dell’affermazione di Paolo in base alla quale la mercede del peccato è la morte.
Vuole disperatamente liberarsi dal senso di colpa e dal rimorso e ricorda vagamente, dalle lezioni di religione ai tempi della scuola, con quanta voglia aveva cantato con i suoi amici tutti insieme molti cori incentrati sul peccato: “Quand’anche i vostri peccati fossero come lo scarlatto diventeranno bianchi come la neve”.
Ma in questi giorni non riesce a pregare.
Lo zelo della sua religione originaria si è intorpidito, rivestito com’è da strati spessi e duri di sapere, cultura e cinismo.
I paradossi della teologia hanno cessato di sorprenderlo, e il brivido delle controversie accademiche hanno perso il suo fascino.
Più bianchi della neve, figurarsi!
Piuttosto lerci come il fango schizzato delle auto.
Oltre le apparenze.
Va alla finestra che da su una via tranquilla.
C’è qualche passante: un vicino che porta il suo cane a insozzare qualche altro marciapiede.
Una ragazza della scuola, guida sta cercando di compiere un’inversione, non riuscendoci. L’istruttore deve essere un tipo paziente.
Continua a guardare fuori dalla finestra per parecchi minuti.
Vede passare un uomo che gli sembra avere un’aria familiare, ma non riesce ad identificarlo.
Si chiede chi sia e dove stia andando e lo tiene d’occhio finché non svolta a destra.
Poi apre una cassaforte a muro.
Prende una pistola.
Si siede sul divano.
E si spara.
Oltre le apparenze: di mercoledì.
“Io, io sono quegli che per amor di me stesso cancello le tue trasgressioni, e non mi ricorderò più dei tuoi peccati.” (Isaia 43: 25).

Mario Pulimanti (Lido di Ostia –Roma)

Mirko Fersini: troppo giovane per morire!




Pazzesco!
Ieri é morto un amico di mio figlio Alessandro.
Si chiamava Mirko Fersini e giocava negli Allievi della Lazio.
Dal 6 aprile era ricoverato, in coma, all’ospedale San Camillo di Roma in seguito ad un incidente stradale avvenuto a Fiumicino a bordo della sua moto.
Tristezza infinita: cavolo, non si può morire a 17 anni!
Mario Pulimanti (Lido di Ostia –Roma)

lunedì 2 aprile 2012

Nostalgia Chinaglia




Giorgione è morto il primo aprile e purtroppo non è uno scherzo.
Nostalgia Chinaglia.
Mario Pulimanti (Lido di Ostia –Roma)