Papà,
l’ultimo dio
(Antonio
Valeriano Pulimanti, poeta di Collevecchio)
Mi trovo a
Collevecchio.
Sto dicendo ad
Alessandro che non ho i soldi per comprargli una macchina nuova.
Dovrà
accontentarsi di un usato…garantito.
Mi guarda
con l’affetto di un serial killer psicopatico.
Poi esce.
Rimasto solo, mi
siedo davanti al camino.
Sfoglio un album
di fotografie.
Sorrido vedendo le
foto di papà.
Il mio ultimo dio.
Antonio Valeriano
Pulimanti.
Da quanto è morto?
Da ventitré anni.
Ne è passato di
tempo, ormai, ma il ricordo è ancora vivo.
Bruciante.
Proprio come
allora.
Da quando papà non
c’è più, mi sento ancor più legato a lui.
Perché mi manca.
Mi manca il suo
umorismo, la sua acuta osservazione degli altri.
Mi manca la sua
educazione, la sua cultura che non esibiva mai.
Amava scrivere
poesie.
Ricordo
alcune strofe dedicate a Collevecchio: “….amato
mio colle natio! Antico, non vecchio. Amore stilli, con la rugiada. Il tempo
non può invecchiare ciò ch’eterno, e tu lo sei!”, e altre rime dedicate all’amore: “…Na lagrima pur’io
l’ho fatta score. ‘Na lagrima d’amore. Quella e basta! ‘Na lagrima ch’è l’unica
arimasta. ‘Na lagrima pe’ un sogno che nun mòre…”.
Mi mancano le sue
parole, i suoi messaggi, le sue battute con i tempi comici perfetti.
Diceva che bisogna
stare dietro i cannoni, davanti ai cavalli e lontano dai superiori
Mi manca la sua
faccia tonda, aperta e fiduciosa.
Con un accenno di
opulenza che lui per altro portava con molta leggerezza.
Mi manca la sua
stuzzicante ingenuità sempre pronta a rilevarsi in un sorriso.
Ricordi...
Tornano sempre,
anche quando non dovrebbero…
Brandelli di
passato.
Stilettate di
dolore, di angoscia.
Ha
sempre amato la mamma con tutto se stesso, di quell’amore incrollabile, un
amore d’altri tempi fatto di doveri, di stima, di rispetto, di una passione
rassicurante che si consumava solo di notte, nel buio della loro camera da
letto e della gioia di ritrovarsela accanto ogni mattina.
Ripenso
agli ultimi giorni, agli sprazzi di lucidità sempre più rari, al suo sguardo
offuscato dalle nebbie della morfina, all’ultima frase che mi ha sussurrato
prima di entrare nel territorio inarrivabile del coma: “Chiamami papone, col
vecchio vezzeggiativo, che ti è familiare. Parlami nello stesso modo che hai
sempre usato. Non cambiare il tono di voce. Va tutto bene, Mariuccio. Non
smettere mai di correre. Promettimelo”.
Al
funerale sono crollato.
L’impalcatura
di formalismo dietro cui mi ero corazzato si era sbriciolata all’improvviso,
lasciandomi singhiozzante e smarrito come un bambino abbandonato.
Una
figura penosa per me abituato fin da ragazzo a mantenere, sempre comunque, un
contegno decoroso.
Papà
muore il giorno di Pasquetta del 1992, per una brutta malattia della quale noi
siamo venuti a conoscenza da soli tre mesi, ma che lui non sa di avere.
Forse
lo sospetta!
E’
il 20 aprile.
Solo
otto giorni prima ha compiuto 66 anni, il suo ultimo compleanno!
Nel
2004 Ernesta, rovistando tra gli oggetti del marito, troverà del tutto
casualmente una poesia che Antonio Valeriano aveva probabilmente scritto negli
ultimi mesi della sua vita e della quale non sospettavamo l’esistenza.
S’intitola:
“Er sogno”.
Questa sua ultima
poesia è ambientata nella casa del nonno materno, Primo Merlini.
Nonno
Primo era allora proprietario dell’osteria locale, che in seguito sarà gestita
dal figlio Duilio, fratello di mamma Leonella.
Del
resto, come ha anche detto il Papa: “non si tagliano le radici dalle quali si è
nati” ed Antonio Valeriano l’ha dimostrato perché, anche se abitava a Roma
dall’età di dieci anni, non ha mai dimenticato, nemmeno negli ultimi attimi di
vita, le sue “radici collevecchiane”.
ER SOGNO
L'antra notte,
quanno dormivate,
c’era silenzio
solo nella casa,
m’appare 'na
faccia rossa de cerasa,
ch'arisvejava
in me cose passate.
Vino sabino, Brighella colla fresa,
file de vite,
amici e carognate,
lontano, fra li
soni de la Chiesa,
arberi, frutta,
sole, scampagnate.
'Na rondine fa
er nido su li tetti,
ner cielo
quarche nuvola ormai rada,
sur prato fra
le gocce de ruggiada
'na gatta
partorisce li micetti.
Io, regazzino, a Nonno stò vicino
de là ce stà
puro zì Navina
seduto accanto
un cane che stà chino
io scappo an
tratto sporco de farina.
"Nonno!" Strillai arzannome de botto,
apersi l'occhi
e nun vedetti gnente
quer viso co'
la bocca soridente
nun c'era si
guardavi sopra e sotto.
Un desiderio d'abbracciallo forte,
solo silenzio e
buio nella mente,
l'odore de la
notte e de la morte
e de quer sogno
nun me rimaneva gnente!
Oggi vorrei tanto
telefonargli per dirgli, sottovoce, che gli voglio sempre bene.
Che lo ricordo
com’era veramente: un papà speciale.
Un papà
intelligente.
Soprattutto un
papà buono.
Quando mi addormento in poltrona, mentre nel camino il fuoco
si spegne lentamente, sulle pagine lucide dell’album spiccano ancora le tracce
delle mie lacrime.
Mario Pulimanti
(Lido di Ostia -Roma)
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