
Parlo di esistenze nascoste e ambigue,
passioni tristi,
seduzioni basse
e chiacchiere da cuscino;
su binocoli e cannocchiali,
voyeurismi pericolosi
e cleptomanie gaglioffe.
Non riesco ad agire
perché per tutto il tempo,
nonostante gli scoppi d’indignazione,
penso di commettere un terribile errore,
una sequela
di terribili errori.

Le cose non possono stare
come io sono sempre
più certo che stiano.
“Che cosa sto facendo?”
mi chiedo sgomento
mentre ritraggo il pugno
che ha appena sfiorato
la parete, contrito;
mentre distruggo deliberatamente
la mia carriera.

Ricordo i cortili della Garbatella
quando noi bambini
giocavamo a calcio,
con i pantaloni corti,
le bretelle,
il pallone supersantos
comprato alla bottega
facendo una colletta.
Ricordo il Parco dell’EUR.
Mi sembra di sentire
il profumo dei suoi alberi
di eucalipto.
Ah, gli anni sessanta!

Qualcuno mi minaccia?
Non siamo arrivati a quel punto.
Qualcuno mi tormenta.
Ma c’è dell’altro.
Qualcosa mi turba.
Sono disorientato
da come va il mondo
e cerco delle risposte.
Forse sto guardando
nei posti più sbagliati,
ma intanto guardo.
Vedo un futuro
per niente roseo
davanti a me.
Scuoto la testa.
Non lo so.
Potrebbe essere tutto diverso.
Oh, sì. Suppongo.
Per tutti gli dei,
l’unica soluzione
è alzarsi
e provare
a fare qualcosa
per distrarmi.

Fin da piccolo
mi sono posto
alcune domande
che non hanno risposta:
da dove vengo?
a chi appartengo?
chi sono?
sono domande
che possono sembrare
banali
ma non è così.

Mi sono sempre chiesto
cosa c’era
prima di me,
da dove veniva
chi mi ha voluto.
A quale luogo mentale appartengo?
Mio padre,
mia madre,
la loro città, Roma,
sono stati il principio della mia vita,
ma sento di venire
da molto più lontano
forse da un altro pianeta;
in me ci sono
tanti interessi
che non trovano
una corrispondenza familiare.

Tutte queste cose
mi fanno pensare
che sono anche
figlio
di un mondo
senza confini geografici
e nel contempo
figlio di un’infanzia
che mi ha fatto essere
l’uomo che sono.
Ma troppe domande rimangono insolute
e allora
ho pensato
di cercare le risposte
nelle storie
della mia famiglia.

Ho forse
ereditato
qualcosa
del D.N.A.
dei miei antenati?
Chissà
se loro
amavano scrivere,
se amavano il bello,
il colore,
i fiori,
il mare,
la natura…
insomma
le cose
che
piacciono a me?
Chissà
se erano etruschi,
tutto è possibile.

La mia anima non sembra tormentata
ma lo è
perché tutte queste domande
non mi fanno esser tranquillo.
Io amo definirmi
una mente pensante
non una persona
perché così mi vede la gente
che mi sta intorno.
Naturalmente non i miei amici veri
perché quelli
mi considerano
come uomo
e come persona!
Ma sono pochi
quelli che la pensano così.
Vedete
quante
domande
mi
pongo.

Da piccolo
ho sempre sentito il bisogno
di raccontarmi favole.
Ho tante cose
da dire
ma non so
dove
né
come
le vado a trovare.
Sembra quasi
che tutto
voglia parlare
di un passato da raccontare,
ma io
che posso raccontare
se non quello
che ho sentito fabulare?

Mi sarebbe più facile
raccontarmi
per quello che sono stato
e per quello
che sono attraverso
ciò che provo,
ma quello che mi appartiene
sarebbe
un mondo di tristezza
mescolato all’allegria
che
ha sempre un bambino
o uno dotato
di un carattere gioioso.
Scende ancora la pioggia
ed io sono
qui davanti
alla mia finestra lidense
a ricordare
le mie domande iniziali.

Con questa vita frenetica
si può solo ricordare
con rimpianto
il bel mondo antico
dove
la tranquillità
era di casa.
Ora
questo solo
rimpiango:
non essere
più figlio
di quel tempo!
Di quel tempo
che permetteva
anche
molte ipocrisie
oggi
meno facili!
Credo
di aver dato
a me stesso
delle risposte significative
sul mio passato
e
sul mio futuro,
sugli amici vecchi e nuovi,
su chi mi crede una mente pensante,
cioè quasi un robot
senza un cuore,
né un passato
né futuro.

Da queste risposte
è emerso
che
io
un cuore
ce l’ho
e
che dev’essere
tenuto a bada.
Ho scoperto
che
ho un passato,
un presente
e un futuro.

Ma intanto
la pioggia
se n’è andata,
e non penso
più di provenire
da un altro pianeta.
Ora
so di appartenere
a questo mondo.
Di essere stato voluto
da mio padre
e
da mia madre.
Di avere
molti amici
anche se alcuni
non mi hanno meritato
o forse
non mi hanno capito.

Non sono
venuto
da qualche
galassia sconosciuta:
sono uno di voi,
e questo mi conforta!
Dopo aver passato la giornata a Roma, in tarda serata torno a Ostia.
Seduto in veranda, sento i canti serali degli uccelli nascosti tra gli alberi.
L’aria tiepida risuona dei loro canti.
Sono le nove di sera.
E’ una magnifica serata di inizio ottobre, e la giornata è stata bella.
Rifletto: ho cambiato punto di vista sulle cose.
Ero fortunato. Il lavoro mi dava stimoli. Ora non più.
Credevo nella giustizia. Ora non più.
Credevo negli ideali. Ora non più.
Avevo un sacco di carne al fuoco. Si è bruciata.
Ero coinvolto in progetti interessanti. Sono svaniti nel nulla.
Il cibo mi ha fatto venire la nausea.
Sospiro con aria dolente.
Pensare mi manda in paranoia.
Scuoto la testa.
Mi trovo insopportabile, e perdo il controllo: “Mario, sei solo un cinico cantastorie” sibilo, tanto forte da farmi sentire.
Gabriele rimane senza fiato. Il mio auto-insulto è sbalorditivo. “Che dici, papà?”. Se ne va via disgustato, rivolgendomi un ghigno insolente.
Ho le mani fredde. Fisso la luna.
Schiocco le dita colto da un’illuminazione.
Domani vado al mare. Mi pare una bella cosa. Lo è.
Mi stringo le mani. Rientro a casa.
Auguro buona notte a Alessandro.
Gabriele mi guarda e fa dei gesti goliardici con le mani.
Simonetta mi tiene gli occhi addosso.
Non ricambio il suo sguardo.
Faccio una doccia; il bagno è piccolo e pulito.
L’acqua è calda, il sapone ha un ottimo profumo.
Rimango sotto il getto e mi levo la puzza di sudore e rabbia dalla pelle.
Prendo la schiuma da barba.
Mi rado con vari movimenti verso il basso.
Mi guardo allo specchio.
Indugio ad ascoltare le voci in salotto, all’altro lato della casa.
Entro in camera.
Mi sdraio sul letto.
Incrocio le braccia e fisso il soffitto.
E poi mi addormento.

Mario Pulimanti
(Lido di ostia -Roma)