E’ tutto finito
Cavolo, che bel mercoledì: oggi sono in ferie.
Ed è pure primavera.
Però ho i postumi di una sbronza.
Tre ore di sonno, dopo una serata guardando partite
di champions legue e bevendo whisky torbato.
Una figata.
Sì, si dice così a Roma, o no?
Sì, pure ad Ostia si dice così.
La
brezza proveniente dal mare ha spazzato via l’umidità e ora gonfia le lenzuola
del mio letto, facendone un’oasi di frescura.
Sul
tavolino accanto al comò, un piatto capace ospita tre kiwi, due banane e una
ciotola di fragole,
lamponi, mirtilli e ribes.
E una bottiglia di Macallan 25 years Anniversary, whisky di puro malto.
Papà
Valeriano lo adorava perché maturato in barili di quercia.
Mi alzo.
Gabriele è andato all’Elsa
Morante, la nostra biblioteca lidense, con Roberta.
Simonetta ha portato la
mamma dal dentista, il mio amico Juan Carlos Murgia.
Alessandro sta studiando in
camera sua.
Entro nel mio studio.
Mi ritrovo alla scrivania,
che è sistemata in uno degli angoli della stanza..
Di fronte a me il monitor del
computer.
Posso però dire che mi sento più a mio agio con
penne e matite che col pc.
In fin dei conti, nessuno è perfetto!
Sono uno scrittore oppure
solo uno che scrive?
Forse sono uno che finge
ideali inesistenti.
Amo il mio libero arbitrio,
il jazz e le mie infinite miserie.
Non sono tipo da ansie, non
mi consumo per beffe annunciate.
Ok, veniamo al dunque: accusare la famiglia di non
sapere più fare il proprio dovere e incapace di esercitare il proprio ruolo é
un alibi per scaricare responsabilità che stanno fuori dalla famiglia.
Del resto in questi anni non è stato fatto molto per
consentire ai genitori, che spesso lavorano entrambi al contrario di quanto
accadeva un tempo, di fare meglio il proprio mestiere di madri e padri.
Basta vedere le poche scuole d'infanzia aziendali
che ancora ci sono in Italia, i costi spesso proibitivi degli asili nido, una
scuola spesso intesa come area di parcheggio.
E non sempre per colpa dei genitori.
Mi verso il bicchiere di whisky.
Non tutte le cose che vedo sono spettacolari.
Mi accorgo, infatti, di stare
leggendo il giornale con i pugnalini negli occhi, come Zio
Paperone nei fumetti.
La notizia infatti parla della violenza domestica, di
quella violenza cioè che le donne di
qualsiasi età, estrazione culturale e ceto sociale subiscono da parte degli uomini di casa, anche padri o fratelli.
Questa violenza è la
prima causa di morte nel mondo per le donne: addirittura più
degli incidenti stradali e delle malattie.
E, dato che le violenze si
consumano prevalentemente in privato, è difficile che queste vengano
denunciate.
Per questo motivo sarebbero
opportuno che ci fossero delle campagne di sensibilizzazione al problema e aiuti più
concreti verso chi avesse il coraggio di denunciare il proprio aguzzino.
Sia ben chiara una cosa: io sono contro tutte le
violenze sulle donne, le quali, rispetto a noi uomini, hanno sempre vissuto
situazioni di subordinazione e discriminazione.
Questo non vuol dire però condannare
a priori gli uomini e assolvere le donne, ma solamente di prendere atto di ciò
che la cronaca ci consegna, dato che in queste dolorose vicende il ruolo di
vittima e quello di carnefice sono inequivocabili.
Nel diritto romano la moglie
era un vero e proprio possesso del marito.
E le cose non erano cambiate
neppure durante il Medioevo, dato anche che in questo periodo il
diritto feudale prevedeva che la terra si tramandasse per discendenza maschile.
Ora, anche se nei paesi industrializzati la donna sembra aver definitivamente
raggiunto l’uomo nei diritti, non si sono però ancora estinte del tutto
forme di violenza fisica, psicologica ed economica.
Certo, l’incapacità di mediare le tensioni all'interno
della coppia e in altre situazioni, facendo prevalere, fino alle conseguenze
più estreme, il proprio io rispetto a tutto il resto è una caratteristica
negativa della nostra società, e accomuna uomini e donne.
Questo atteggiamento deriva difatti da una
incapacità di gestire con equilibrio situazioni di rottura e di difficoltà
relazionali, e di questa situazione le donne pagano senza dubbio il prezzo più
alto.
Basta: getto il giornale per terra.
Chiudo gli occhi, continuando a bere
il mio Macallan.
Pensieri sparsi affollano
la mia mente.
Garbatella: casa di mamma.
La Garbatella a me piace così, con le facciate di alcuni
palazzi che si sgretolano e sui marciapiedi cadono i gusci degli anni ormai
andati.
Apro il cassettino centrale della scrivania.
Da un cofanetto segreto, tiro fuori un album.
L’album dei sogni.
Sento l’odore della mia infanzia, mentre guardo questo
album di vecchie foto.
Ci sono mamma e papà, prima che si trasferissero
sull’arcobaleno.
Bevo un caffè.
E’ nero e scuro come l’interno di un sarcofago.
Intorno a me, silenzio.
L’unico suono che sento è il pulsare delle mie
tempie, il battito del mio cuore.
Sudo mentre sfoglio pagina dopo pagina.
Il sudore mi scorre sulla fronte, sulle tempie, mi
entra negli occhi mentre me ne sto seduto, chino sul libro, senza più riuscire
a distinguere il sudore dalle lacrime.
All’esame della scuola per mimi, l’allievo fece
scena muta.
Su, meno stronzate, facciamo in fretta.
Non ci sono più i bravi illusionisti di un tempo.
Sono tutti spariti di scena.
Sono nato in una casa umile di Testaccio.
Adesso è cambiato tutto.
Adesso lì ci vivono poeti che ogni anno vincono
premi letterari, artigiani che fabbricano ancora ombrelli e bastoni artigianali di alta fattura:
oggetti unici e ricercati diventati famosi per design e qualità e pittori di
pesci morti.
Le
case del Testaccio sono di moda perché si vede che in esse si trova lo spirito
del popolo romano, in attesa che qualcuno lo colga.
Ma
ai miei tempi da lì uscivano solo le urla delle partorienti i cui mariti
avevano sbagliato numero nel chiamare l’ambulanza.
Gli
strilli dei bambini.
Le
scoregge dei pensionati.
Le
manganellate regolamentari della polizia.
Era
un mondo spietato, con le tavole vuote e le condutture intasate.
Che
pensieri: sono così sconvolto che sento persino qualcosa di miracoloso, una
specie di eccitazione sessuale.
Ma
l’unica cosa che riesco a dire è “Tutto questo è assurdo. Sto diventando
matto!”
Era un calciatore sciatto e impreciso. Lavorava con
i piedi.
Ora capisco. Sto per morire.
Davanti al giudice, i due pianisti trovarono un
accordo amichevole.
E’ un modo di dire.
Non credo che abbia particolare importanza.
Ma mi ha scombinato un po’ la vita.
Adoro il mare.
Ostia, al mattino.
Voglio riaprire la finestra dell’arcobaleno.
Datemi le chiavi.
Non mi fate perdere la pazienza!
Diamine, un milione di cose mi impediscono di aprire
quella finestra, un milione di cose su cui non si deve ragionare, né calcolare,
né fermarsi a vedere.
Solo sentire.
Un milione di cose che non stanno da nessuna parte,
ma che sono comunque nell’aria.
Ovunque, tranne che nei tuoi occhi.
Fino a tal punto arriva il tuo disprezzo?
Sì.
E’ successo tutto in fretta: più in fretta di quanto
cerchi di ricordare.
Solo in qualche occasione mi è sembrato di perdere
l’equilibrio.
Solo in rari istanti ho avuto dei dubbi, mi sono
chiesto se la realtà sia davvero come la sto vivendo.
Somiglio sempre più a mio padre.
A volte si fanno delle scelte che non si sanno
spiegare, io ho la capacità di cambiare i miei piani, di voler vedere le
conseguenze delle cose.
Stefano, mio fratello, definisce questo mio modo di
fare dicendo che voglio sempre portare le cose all’estremo.
Ho sempre sentito dire che i soldi sono soldi.
E che molti soldi sono potere.
E che moltissimi soldi siano il massimo.
Sarò sincero.
Intuisco il tuo disprezzo.
Me lo soffi in faccia.
Accendo un sigaro d’alta classe.
Lo lascio morire acceso e
con dignità.
Quando penso di essere vicino alla verità sento che
ogni fibra del mio corpo è vicina al nucleo dell’arcobaleno, alla sua nuda e
pura essenza.
Non riesco mai ad arrivare alla fine, non vado mai
oltre questo punto.
E i sogni continuano.
Ernesta Aloisi.
Moglie di Antonio Valeriano Pulimanti, poeta
collevecchiano.
Ah.
Ok.
Madre di Antonella.
Madre di Stefano.
E madre mia.
E’ morta domenica 29 luglio.
All
diciotto e trenta di un triste
pomeriggio.
Il rito funebre è stato celebrato a Testaccio.
Nella
Qui mamma è stata seppellita a mezzogiorno del secondo
giorno di agosto.
Mi chiedo se sento qualcosa, sollievo, rabbia.
Non credo.
Provo solo dolore.
Questo tipo di cose ti divora dall’interno.
Sono terrorizzato dallo scorrere del tempo, dagli
istinti.
Dal fatto di non avere il controllo di essi.
Da ogni piccola scheggia di tempo, la trasformazione
di un infinito numero di cellule.
Dall’aria che cambia, il mare di fronte a casa mia che
è la stesso ma nello stesso tempo non lo è, da mio fratello Stefano che è invecchiato,
io che sono invecchiato, impercettibilmente ma inevitabilmente invecchiato, e
dal fatto che, in qualsiasi momento, può crollarmi qualcosa in testa dall’alto,
e distruggermi.
La verità può arrivare tramite un dettaglio, il tempo
delle rivelazioni può arrivare e cogliermi impreparato, di sorpresa.
Non appena mi sono assicurato che tutto è a posto, che
ho io il controllo, questa sensazione lascia il posto a una nuova scheggia,
anch’essa insicura, fugace, pericolosa, e come si fa a vivere una vita che
appare così effimera, così temporanea?
E costantemente quella sensazione di solitudine,
nonostante la famiglia, la condivisione.
Simonetta.
Gabriele.
Alessandro.
Loro sembrano pensare che quello che è successo non
abbia toccato solo me, ma anche loro, forse nel tentativo di alleggerirmi il
peso.
La morte di mamma, quella perdita che conosco solo io
e nessun altro, colora tutti i miei giorni, a parte qualche breve, quasi
euforico, istante di oblio.
Ed è di nuovo qui, come un peso.
E’ come se mi avessero diagnosticato una malattia
mortale e io tenessi la diagnosi per me, perché non ce la farei a sopportare le
espressioni dei loro visi se lo dicessi.
Certo, lo ripeto, dal 29 luglio la mia famiglia mi sta
vicino.
Questo mi trasmette una strana sensazione di
sicurezza, di innocenza, ma le notti sono terribili.
Mi sveglio con il cuore che batte talmente forte che
ho paura che stia per fermarsi, che non ce la faccio più, che morirò.
Sì, spesso la notte mi sveglio senza fiato.
Mi alzo e mi siedo davanti alla tivvù, tiro fuori il
vecchio videoregistratore dall’armadio e cerco i filmati registrati dai miei
genitori quando eravamo piccoli.
Tengo il volume basso e la luce spenta.
Mia madre e mio padre si passano la telecamera, e la
famiglia fa cose da tipica famiglia.
Filmano me e Stefano che giochiamo con il pallone.
Io e Antonella che corriamo al Parco della Rimembranza
di Collevecchio.
Io e mio padre che giochiamo a ping-pong, mentre mio
fratello impara a camminare.
Mia madre che fa un filmino di prova con mio padre,
hanno appena comprato la videocamera.
Cinquant’anni fa.
Sembra così giovane, assomiglia a me.
E io cerco
qualcosa, un filo conduttore o un dettaglio nella mia storia, che possa
spiegare ciò che è successo, perché è andata così, ma niente.
Non trovo niente.
Niente che possa giustificare la morte di una madre.
Ciò che mi fa paura è il silenzio.
Non poterle più parlare.
Vorrei avere almeno un attimo, mamma, anche solo per
dirti ciao.
La morte di mamma mi fa ancora male.
Credo di essere un po’ depresso.
A volte mi viene da piangere nelle situazioni più
strane, e vorrei essere in cattiva salute, vorrei stare per morire.
Forse domani, forse non prima di altri cinquant’anni,
ma prima o poi il mio corpo cambierà direzione, inizierà l’atterraggio.
A parte qualche mal di testa e il fatto che sono
ancora un po’ sovrappeso, fisicamente sto bene.
Non mi sto spellando in maniera preoccupante, non mi
sento raschiare quando respiro, i miei organi interni, il fegato, i reni, tutti
eseguono le loro funzioni biologiche come dei bravi lavoratori obbedienti.
Mi sembra uno spreco.
Non finirò mai di ringraziare i miei genitori, che mi
hanno insegnato fin da piccolo l’importanza di poter essere ciò che si è e di
trattare gli altri con rispetto e dignità.
Sono stati fantastici.
Comunque, appena mi muovo un po' ho subito il fiatone.
Cavolo, inizio a invecchiare.
A volte sogno una cassa da morto ad assi povere con
dentro un salma.
La mia.
Ma, proprio quando cerco di compatirmi un po’, la
memoria mi fa strani scherzi e comincia un viaggio a balzelloni tra episodi
della mai vita che io vorrei dimenticare, ma che la memoria, appunto, mi
rimbalza indietro, pam, pam, pam, come un muro con un palla da ping pong!
Pam: io dai
salesiani del Testaccio.
Pam: io alla
Chiesa del Giglio che sposo Simonetta, la sabina.
Pam: io, che
cullo Gabry, ascoltando Bob Dylan.
Pam: io, che cullo Alex, ascoltando Bruce Springsteen.
Pam: io che mi laureo.
Pam: io che lavoro alle Poste di Fiumicino.
Pam: io che lavoro al Comune di Roma.
Pam: io che lavoro al Ministero dell’Agricoltura.
Pam: io che piango nonno Angelino, nonna Leonella,
nonna Jole. E zia Valeria.
Pam: io che seppellisco papà Valeriano.
Pam: io che seppellisco mamma Ernesta.
Pam: io,
over the rainbow.
Mi sembra di muovermi lateralmente, sempre più lontano
dalla vita che mi sarebbe piaciuto fare, sospinto -dal destino o dalla
incapacità do prendere decisioni giuste, che importa?- su terreni sempre più
paludosi nei quali la virtù e le qualità che mi si riconoscono (ritengo di
essere un uomo sensibile, discretamente colto, con un certo senso
dell’umorismo, fondamentalmente buono) non servono a niente e i difetti di cui
mi accuso (so di essere distratto, timoroso, poco determinato, persino ingenuo)
finiscono col farmi affondare sempre di più.
Dite che sto parlando a coda di porco, intorcinata,
non in forma esplicita?
Vabbè, ok.
Ascolto Bob Dylan, a luci spente.
Mi inganna l’oscurità.
Sono un mercante di libri
maledetti.
Fuori dal tempo.
Forse, non ho capito nulla.
Né qui, né altrove.
E morirò.
In terre lontane?
A Collevecchio?
Ad Ostia?
Sicuramente, sotto una
cupola stellata.
Alle radici del cuore.
Addio arcobaleno, ciao.
Con un sospiro, mi allungo sulla sedia e rimango ad
ascoltare il mare.
Distrattamente, mi cade
l’occhio dentro il cassetto a sinistra della scrivania.
Le mani iniziano a tremarmi.
Le lacrime cominciano a
pungermi gli occhi.
In mano ho una cartolina del
1950, inviata da Pietralata, raffigurante due lance con bandieruola azzurra,
incrociate sotto una granata a fiamma dritta.
Al centro della granata vi è
il numero 8 con la scritta: "Impetu hostem perterreo" (terrorizzo i nemici con impeto).
Sul retro della cartolina
una frase: “Sono ricco, di una ricchezza rara: ho te”.
Papa, Tenente nel Gruppo Esplorante Divisionale
(G.E.D.) "Lancieri di Montebello, l’aveva inviata ad una giovane ragazza di
Testaccio, figlia di Jole e di Vittorio.
Eh, sì: proprio mamma, che
per lui sarà sempre la sua “Ernestina”.
A quella cartolina mamma ci
teneva tantissimo.
La portava sempre con sé.
Prendo una decisone al volo.
Precetto Ale ed usciamo.
Destinazione: Collevecchio.
Un
cimitero che somiglia a un giardino fiorito, talmente bello che, sostiene il
custode del camposanto, varrebbe la pena visitarlo.
Così
il cimitero di Collevecchio si presenta in questi giorni.
Due donne accovacciate si
danno da fare davanti alle tombe.
Io e Ale ci avviciniamo al
marmo bianco.
Lei è lì che ci aspetta.
Sulla tomba ci sono alcuni
fiori secchi.
Li getto nel cestino, poi Ale
si avvicina alla fontanella e riempie il vaso d’acqua fresca per il nostro mazzolino di peonie
e ortensie.
Le
tonalità sgargianti e solari dell’ortensia.
Il
bianco candido della peonia.
Erano
i suoi fiori preferiti.
Sistemo i fiori e finalmente
guardo la lapide.
Le date le so a memoria, ma
le leggo lo stesso.
22 ottobre 1932 – 29 luglio
2012.
Il viso di mamma é impresso
nella mia mente peggio del marchio a fuoco sulla pelle di un vitello.
Si dice che di solito col
passare del tempo i visi dei nostri cari vadano pian piano a nascondersi nella
nebbia dei ricordi.
Che cominciano a confondere
i lineamenti, il colore degli occhi e dei capelli, l’altezza e soprattutto il
suono della voce.
Cose che a me non succedono.
Mamma non ha perso neanche
un neo della pelle nella mia memoria.
L’immagine del suo viso,
chiara e vivida, forse sarà l’ultima cosa che vedrò quando toccherà a me.
“Ciao, mamma” dico a bassa
voce.
“Hai visto? Siamo venuti a
trovarti”.
Mi vedo riflesso nel marmo
lucido e pulito.
“Guarda, t’ho portato una
cosa…”.
Mi infilo la mano in tasca
ed estraggo la cartolina di papà.
La metto sotto il vaso.
Una delle due donne, vestita
di nero, si è inginocchiata e si sta facendo il segno della croce.
Anche io mi volto verso la
tomba e tolgo una foglia caduta sulla lastra di marmo.
“Buona primavera, mamma” e
le mando un bacio.
Mamma Ernesta.
Mi ha sempre difeso come una leonessa difende i suoi
cuccioli, anche a costo di subire biasimi e critiche.
Ci fermiamo a pranzare ad un ristorante vicino al
santuario di Vescovio.
Tornando a casa, Ale accende la radio.
“…poi mi
viene in mente, se mi metto lì a pensare, il bacio di una madre come solo lei
sa dare…”
Diamine, non potevano scegliere un altro momento per
trasmettere “Come Gioielli” di Eros Ramazzotti!
Debbo ritenermi soddisfatto di avere avuto una mamma
come mamma Ernesta.
Lei, che mi ha guarito i graffi e le ferite con una
carezza magica.
Lei, un posto caldo dove ho trovato sempre un
abbraccio.
Lei, con quell’odore di buono che mi faceva tornare
bambino.
Lei, che mi lasciava andare anche se avrebbe
voluto tenermi stretto a sé.
Lei, una canzone nella notte.
Lei, una ninna nanna speciale.
Lei, uno sguardo che non aveva bisogno di parole.
Lei, quella che sapeva, sempre, cosa era la cosa
migliore per me.
Lei, quella mano che mi ha tenuto mentre traballando
imparavo a camminare.
Lei, il bum bum del cuore che sentivo appoggiando la
testa sul suo petto.
Lei, mamma, una parola: la prima che ho detto.
Lei, mamma, un sorriso: il primo che ho visto.
Lei, mamma, una voce: la prima che ho udito.
Lei, mamma, un sapore: il primo che ho assaggiato.
Lei, mamma, una culla: la prima che ho avuto.
Lei, mamma, che soffrendo mi ha fatto nascere.
Lei, che mi ha parlato nel cuore della notte.
Quando tutto il mondo era addormentato.
E nessuno, tranne me, udiva le sue parole.
E, tenendomi fra le braccia, mi avvolgeva di un
amore che aveva una forza inaudita.
Arrivati ad Ostia Ale mi saluta.
Al Fara Nume il maestro Andrea Serafini sta
preparando uno Shakespeare multimediale tra teatro, cinema, musica.
Io,
invece, entro nello studio medico.
Il
dottore alza lo sguardo dalla sua scrivania.
“Ha
i trigliceridi alti. Quante bustine di zucchero consuma a settimana?”
“Cinque”.
E’ una piccola bugia bianca.
Sono
arrivato a cinque bustine lunedì, ma poi ho smesso di contare, così sono
rimasto a cinque bustine.
“Niente zucchero. Niente alcool. Per un
paziente con i suoi valori di trigliceridi, il rischio di attacco al cuore,
infarto o trombosi cresce drasticamente”.
Improvvisamente
sono tanto, tanto spaventato.
Il
cuore batte violentemente.
Sudore
sulla fronte.
Il
dottore alza lo sguardo.
I
suoi occhi sono finestre su un cielo di pieno inverno.
“Lei
appartiene a un gruppo statistico con rischio elevato”.
Fuori
dallo studio medico il traffico è rumoroso.
Salutandomi,
mentre dava un’occhiata all’orologio, il
dottore mi ha ricordato che a causa della mia età…e dei miei trigliceridi… si
manifesteranno presto vertigini, stanchezza e perdita della libido.
E’
tutto finito.
Io
sono finito.
Scandaloso.
Un
senso di paura cresce dentro di me.
Terrore
esistenziale.
Lo
zucchero, l’alcool, il sesso: senza di loro, cos’altro rimane?
Mi
sento vecchio, stanco e inutile e persino spaventato.
Il
tizio che mi saluta sembra un Testimone di Geova.
Ha
i capelli cortissimi, una camicia bianca e una targhetta con il nome.
Non
riesco a leggerla.
Entro
in un bar.
Mi
siedo a un tavolo.
Di
fronte a me, un signore.
Anziano.
Ex consigliere circoscrizionale.
Mentre parla in un tono monotono,
inevitabilmente mi ritrovo inondato da un oceano di retorica che martella
contro scogliere di metafore.
Una
buca.
Inciampo.
Torno
a casa imprecando contro tutti gli dei.
Ceno.
Poi
leggo.
Sul divano.
Prendo
in mano il libro che sto leggendo, ma le parole sembrano scivolare via dal
foglio.
Guardo oltre il libro, verso il balcone.
Intravedo
il mare, sotto ed il cielo, sopra.
Intanto
Gabriele mi dice che sta andando con Roberta a Roma.
Quando
scompare, mi guardo intorno.
Simonetta
sta chattando su facebook.
Resto alquanto perplesso
quando sento che molti hanno centinaia di amici su Facebook.
Possono essere considerati
dei veri amici, persone disposte a prendersi cura del tuo cane o a
riaccompagnarti a casa dall’ospedale, o sono soltanto una massa informe
composta da gente che si accontenta di lasciare messaggio carini in bacheca ma
che non hanno niente a che fare con al vita di tutti i giorni?
Come si fa ad avere
novecento amici?
All'improvviso la mia mascella prende a tremare.
Le labbra fremono.
Il mento si
corruga e infine, pur tentando di tenerla chiusa, apro la bocca in uno
sbadiglio.
Poi sbatto le palpebre.
Prima ancora di chiudere gli occhi, tuttavia,
sprofondo nell'incoscienza.
Il sonno mi avvolge completamente, privo di sogni e
punti di riferimento.
Un sonno così somiglia all'eternità, senza nulla
che aiuti a misurare il trascorrere del tempo, senza una traccia che indichi la
vastità dello spazio, dove un singolo istante non é molto diverso da un
miliardo di anni e un atomo é grande quanto l'universo.
Tutte le diversità della vita, il piacere e il
dolore, si dissolvono in un'unità primordiale, che abbraccia ogni cosa, persino
il nulla.
E' a questo che somiglia la morte?
Poi all'improvviso, mi sveglio.
Non c’è più nessuno: anche Simonetta è andata via.
Guardo a lungo il soffitto.
Non riesco ad alzarmi.
Sulla scrivania è rimasto il vecchio album di
fotografie.
Lo riprendo: qui avevo sei anni.
“Vieni!” sembra dirmi, prendendomi la mano per
condurmi a casa.
Mi manca il tuo sorriso, mamma.
Improvvisamente mi sento invadere da una torpida
sonnolenza.
Quando mi addormento, mentre il giorno si spegne
lentamente, sulle pagine lucide dell’album spiccano ancora le tracce delle mie
lacrime.
Mario Pulimanti (Lido, di Ostia –Roma)
Nessun commento:
Posta un commento