giovedì 4 febbraio 2010

Mario Pulimanti, ovvero le confessioni di mente mente pericolosa




Mi sveglio.
Guardo fuori dalla finestra.
Gli alberi e il terreno sono coperti di ghiaccio e cadono fiocchi di nevischio misti a pioggia ghiacciata.
Molto raro per Ostia levante.
Per la maggior parte del tempo uno non si accorge neanche dell’inverno; di solito gli inverni sono autunni prolungati.
Ma quest’anno è diverso.
Il freddo è arrivato duro e cattivo proprio il giorno in cui, su consiglio di Luciano, ho deciso di cominciare a fare un po’ di footing.
Un uomo più saggio lo avrebbe visto come un presagio.
Voglio tornarmene a letto, e invece mi trascino in cucina, mi preparo un caffè e lo bevo.
Anche così, con il sapore del caffè in bocca, sono tentato di strisciare di nuovo sotto le coperte e rannicchiarmi al caldo.
No, non posso, debbo uscire.
Anzi, penso che debbo sbrigarmi, altrimenti faccio tardi in ufficio.
Esco dal bagno.
Mi infilo frettolosamente camicia e pantaloni, indosso la giacca ed esco.
Poi scosso da un brivido di freddo, mi abbottono per bene il cappotto.
Guardo l’orologio e realizzo che faccio ancora in tempo per un cappuccino prima di prendere l’autobus.
Sul metrò della linea Ostia-Roma, penso.
Questa mattina di pensieri ce n’è un’insalata
Il gruzzoletto in banca nel caso di vacche magre.
Così mi ha insegnato papà Valeriano.
E poi all’improvviso il gruzzolo è improvvisamente sparito.
E sono rimasto a secco.
No, non ho una scelta più retributiva di lavoro messa via nel cassetto dei calzini.
No, affatto.
Sì, la cosa può anche essere raccontata diversamente agli altri e a me stesso ma, a torta finita, il desiderio di maggior guadagno resta solo una chimera appollaiata in un retrobottega del mio cervello.
Il nocciolo è che di soldi, anzi di euro, ce ne sono pochi in circolazione e, almeno per quanto mi riguarda, ci sono troppe occasioni per non esserci più.
Sarò di una perspicacia rara, ma non mi riferisco a divertimenti e vacanze ai Caraibi, per esempio Barbados o altro.
Gli euro devono coprire tasse e balzelli vari.
Non mi lascio intrappolare.
Vada al diavolo pure la tristezza.
Arrivo in ufficio.
Percorro i gelidi corridoi.
Esito.
Davanti a me una collega con un viso umano piuttosto inquietante, occhi minacciosi e labbra sottili. Sobbalzando mi volto verso di lei.
Sta parlando con un uomo magro sulla cinquantina, con la faccia tonda, che guarda verso di me sogghignando: ladri di reggenze!
Bè, questa è la mia teoria.
Il mio volto si oscura: chi li fabbrica, mi chiedo.
I loro potenti sponsor?
No, non devo pensare a queste cose.
Cristo, adesso ho l’aspetto tormentato della persona invidiosa.
Capita, quando si ha fame.
Okay, al lavoro.
Pausa pranzo.
Ah, in una stanza dall’altra parte del corridoio un amico mi saluta.
Mi invita al bar.
Ci accomodiamo al tavolo, poi lui si siede di fronte a me.
Dopo di che, mangiando croissant al prosciutto, discutiamo del più e del meno.
Riprendo a lavorare.
Nel frattempo, si è fatto tardi.
Rientro a casa.
Sono seduto su un duro sedile di un vagone del metrò.
Socchiudo gli occhi..
Ma ecco che, riflettendo e rimuginando, a un tratto mi trovo, ahimè, coinvolto in mistiche congetture.
Mio malgrado, sia ben chiaro!
Sarà per il fatto che sono stanco.
Sarà perché mi sento una fame da lupi come mi accadeva quando avevo appena dato un esame all’Università.
Non lo so.
Però penso, penso, penso…
Non mi ritengo né allegro, né spiritoso e se pensate che sia soddisfatto del mio stipendio da statale, potete allora definire Bagdad una meta turistica.
Sono solo un funzionario statale bloccato al nono livello da molto tempo.
Funzionario statale suona, comunque, un po’ stalinista, a mio parere.
Da quando va avanti questa storia?
Da 20 anni.
Sto pedendo fino all’ultima molecola del mio amor proprio, anche se non ho mai pensato di suicidarmi.
Ehi, non mi va di essere inquadrato per uno che molla.
Esatto.
Penso ad un mio amico del quale sono stato il testimone di nozze.
E’ una cosa che fra uomini come me dovrebbe rappresentare un legame per tutta la vita.
Eppure ultimamente ci siamo visti poco.
Ho deciso, appena torno a casa gli telefono.
Parola di giovane marmotta.



Ultimamente ho preso la consuetudine di scrivere su giornali e su internet mie considerazioni per cercare di coinvolgere gli altri in un entusiasmo che temo siano invece riluttanti a condividere.
Forse perché non tento di dar di gomito all’eventuale lettore con affermazioni sin troppo marcate.
E agli amici che mi dicono che i termini con i quali ho a volte criticato la politica governativa colpisce solo per la timidezza del loro estremismo, rispondo che non sono certo un radicale in politica.
Riuscendo, però, solo a guadagnare il loro definitivo disprezzo.
Ammetto: il mio è un sarcasmo greve e non giocoso, le mie sono considerazioni di improbabile squallore.
E’ anche vero che viviamo in tempi spietati.
Nulla ci è perdonato.
Nulla ci permesso.
La verità, in fondo, è che le mie, come quelle di tutti, sono opinioni frutto dello sbandamento ideologico dilagante.
Sappiamo inquadrare le sue conseguenze in termini che ci suggeriscono che le risposte appropriate a tutto quello che ci circonda non sia solamente il lamento e la rabbia, ma una grande e sonora risata.
Cavolo, non sarò mica diventato qualunquista?
Certo, non riesco comunque ad agire perché per tutto il tempo, nonostante gli scoppi d’indignazione, penso di commettere un terribile errore, una sequela di terribili errori.
Le cose non possono stare come io sono sempre più certo che stiano.
Bando alla tristezza, meglio pensare ad altro,
Un mio grande amore è il teatro.
Come dice Giorgio Albertazzi: “Il cinema è bello, ma se lui è la pelle, il teatro è lo spirito”.
Mio padre, il poeta Antonio Valeriano, usava spesso dirci: “Amo l’arte e il bello in generale. Amo il mare e il suo profumo. Mi piace osservare le stelle. Adoro la campagna dolce di Collevecchio. Amo il cinema. Ma più di tutto amo il teatro, da quando ho memoria”.
E lui, che aveva iniziato scrivendo opere teatrali, ci confessava che il teatro lo attraeva molto, reputandolo una forma letteraria più completa rispetto al racconto e anche allo stesso romanzo.
Del resto, parafrasando il grande Nino Manfredi: “Il teatro è un piacere, se non è buono, che piacere è?”
Pensando al teatro, avverto un senso di benessere pervadermi il corpo.
Una sensazione simile a quella che provano i tossici quando si iniettano eroina di buon qualità.
Una specie di benessere che mi fa formicolare la testa, mi scivola lungo la mandibola, mi serra le palpebre, si insinua tra gengive e denti, scende giù per la trachea e mi saltella da una vertebra all’altra fino al bacino.
E’ come fare una doccia calda senza bagnarsi.
Meglio.
Un massaggio senza esser palpato.
Continuo a pensare.
La mia memoria si sta azzerando e nella scala evolutiva sono sprofondato negli abissi dove le sardine fuggono inseguite dai tonni.
Penso a mio padre.
Di che cosa è morto?
Della stessa cosa di cui muoiono tutti, alla fine: per una serie di circostanze.
Aveva una malattia che non poteva essere curata.
Non c’è stato nulla da fare.
Ma adesso è inutile parlarne.
Adesso.
Mmh. E allora dov’è il problema?
Mi chiedo: che c’è oltre la memoria?
Ah, tra un pensiero e l’altro arrivo alla stazione di Ostia Centro, dopo un’ora di viaggio e vari rallentamenti.
E dire che, aumentare la qualità di servizio e migliorarne il comfort, dovevano essere i due obiettivi primari della Società Met.Ro.
Entro a casa agitato.
Dolore.
Poi mi rendo conto.
Pulsazioni di una emicrania.
Inevitabile.
Ma certo non giusto.
Mi vergogno, stasera, della mia fragilità, del mio mal di testa.
Ecco: sono un paranoico terminale.
Gabriele, mio figlio, giovane, articolazioni sciolte, infinite possibilità.
Stufo dei miei lamenti mi consiglia di pensare a chi sta veramente male.
Rispondo: si tengano pure la loro, di sofferenza.
Io mi tengo la mia.
Ottimo persuasore, comunque.
Sto già molto meglio.
Intanto, Alessandro sta dicendo di aver preso nove in greco.
Ha l’espressione soddisfatta di un soriano che si è pappato una scatoletta di tonno.
Ci manca poco che cominci a farsi le unghie sulla poltrona.
Dopo cena mi siedo sul divano,
Quasi soprappensiero ripulisco con il dito il caffè rimasto nella tazzina.
Mi allento la cinta dei pantaloni con una smorfia di piacere.
Raccolgo il telecomando e passo pigramente da un canale all’altro, fermandomi infine su un telegiornale che guardo per qualche minuto con annoiata disattenzione, consapevole che mi si stanno abbassando le palpebre.
Non sto male.
Sono solo stanco, stanchissimo.
Prima di scivolare nel sonno, all’improvviso scuoto il capo incredulo.
Una notizia sorprendente.
“Sono 10 milioni le donne che hanno subito molestie o ricatti sessuali nel corso della vita. Sono 900mila i ricatti sessuali che avvengono sul lavoro e 500mila gli stupri o i tentati stupri. Questi dati drammatici emergono dall'ultima indagine dell´Istat, in occasione della giornata parlamentare contro la violenza alle donne. Centomila donne hanno subito ambedue le violenze”.
Questa notizia mi risulta molesta quanto il trapano di un dentista.
Non ha senso: qualcosa non torna. Assurdo!
Getto il telecomando per terra.
Mi stringo nelle spalle.
Non so se riuscirò a farmene una ragione.
A questo punto mi dichiaro battuto.
Ah, adesso sì che mi sono rovinato la giornata.
L’intera faccenda è vergognosa.
Sono tempi difficili quelli in cui viviamo.
Questo è tutto.
Vado a letto.
Mi addormento, immerso in un sonno privo di sogni.
Mario Pulimanti (Lido di Ostia -Roma)

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